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Foto di Matteo Marchi/Getty Images
NBA Dario Vismara 15 novembre 2019 7'

Provaci ancora Carmelo Anthony

Carmelo Anthony comincia da Portland quello che potrebbe essere l’ultimo capitolo della sua carriera NBA.

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Carmelo Anthony non gioca in NBA ormai da un anno, ma è come se non se ne fosse mai andato dalle nostre vite.

 

Se avete un account Twitter o Instagram e seguite una di quelle pagine tipo Ball is Life, SLAM o House of Highlights di sicuro durante l’estate vi sarà capitato di vedere immagini di Carmelo Anthony che si allena da solo in qualche palestra e/o con avversari non meglio precisati. Il ritorno di Carmelo Anthony è stato richiesto a gran voce da una larga parte di giocatori NBA, e non solamente quelli che con lui hanno condiviso una Banana Boat in vacanza. Non a caso diversi protagonisti della NBA attuale hanno poi espresso la loro felicità per il ritorno di Carmelo Anthony nella NBA.

 

Alla fine ad averlo in squadra con loro saranno Damian Lillard e CJ McCollum, che già nell’estate del 2017 avevano provato in tutti i modi a corteggiare Melo sia privatamente che pubblicamente. Due anni e mezzo fa arrivare a uno come Anthony sembrava impossibile per una squadra come i Blazers; oggi invece è esattamente il contrario, con Melo che si è accontentato di un accordo non garantito al minimo salariale pur di avere una chance di chiudere la carriera come vuole lui e non come hanno voluto gli altri.

 

Da quando ha lasciato New York City mettendosi alle spalle un rapporto burrascoso con Phil Jackson e la franchigia blu-arancio, Melo è passato da Oklahoma City a Houston ed è velocemente appassito. Quello che tutti si aspettavano da lui, ovverosia una seconda parte di carriera in cui avrebbe massacrato le retine avversarie in un ruolo spot-up (FIBA Melo!) invece che da primo violino non è mai realmente accaduto, un po’ per limiti tecnici — Anthony è sempre stato un giocatore che ha bisogno di tanto volume per avere successo — che caratteriali — senza accettare del tutto un ruolo in uscita dalla panchina.

 

Soprattutto, però, Carmelo Anthony non si è dimostrato un giocatore in grado di reggere difensivamente nella NBA moderna neanche giocando stabilmente da “4”, un ruolo che costringe a coprire larghe porzioni di campo e, soprattutto, ti espone a essere messo in mezzo in tutti i pick and roll dalle migliori guardie della lega. Un lungo pezzo di Baxter Holmes di ESPN prima dell’inizio della stagione spiegava per filo e per segno come si era arrivati a cominciare la stagione 2019-20 senza che Carmelo Anthony fosse uno dei 450 giocatori presenti nella lega, sottolineando come — oltre a tutte le difficoltà tecnico/tattiche — il curriculum di Melo e il bagaglio di aspettative/distrazioni che si porta dietro per il solo fatto di essere Carmelo Anthony avesse sconsigliato buona parte delle franchigie NBA dal dargli una chance a costo zero. 

 

D’altronde, se non si chiamasse Carmelo Anthony e non avesse segnato 25.000 punti in carriera probabilmente non saremmo nemmeno qui a scrivere su l’Ultimo Uomo di un contratto annuale non garantito a metà novembre. Eppure eccoci qua.

 

Carmelo Anthony's game is so smooth pic.twitter.com/JgCzJYPeJ3

— Ballislife.com (@Ballislife) November 12, 2019

Uno dei tanti video che fanno le fortune degli account social più in voga, per i quali ‘Melo è già materiale vintage.

 

Perché i Blazers hanno puntato su Melo

C’era bisogno che una squadra si ritrovasse in grossa difficoltà per portarla a puntare su uno come Carmelo Anthony. Se i Portland Trail Blazers avessero cominciato la stagione come si aspettavano — specialmente dopo essere arrivati alle finali di conference lo scorso anno e con McCollum ad esporsi pubblicamente sul loro considerarsi “squadra da titolo” —, Melo con ogni probabilità non avrebbe mai ricevuto una chiamata da parte loro, anche se Adrian Wojnarowski di ESPN ci ha tenuto a farci sapere che i contatti risalivano già alla pre-season.

 

In ogni caso, l’inizio di stagione dei Blazers da 4 vittorie e 8 sconfitte — record buono solo per il 13° posto nella inflessibile Western Conference, già a 2.5 gare di distanza dall’ottavo posto e a 5.5 dal primo — ha fatto scattare i primi campanelli di allarme in Oregon. E alle difficoltà in campo si sono aggiunti anche gli infortuni che hanno privato il roster di tre lunghi come Jusuf Nurkic (ancora alle prese con il recupero dopo la frattura alla gamba), Pau Gasol (mai sceso in campo finora) e soprattutto Zach Collins (fuori per 4 mesi dopo la rottura dei legamenti nella spalla sinistra).

 

Soprattutto, le prime dodici partite stagionali hanno fatto emergere gli errori durante la fase di costruzione del roster in estate nel reparto ali. Perché è vero che il nucleo dei Blazers è rimasto forte di Lillard e McCollum sotto la guida di coach Terry Stotts, ma attorno a loro il contesto è cambiato parecchio — e non per il meglio. Gli addii estivi a Al Farouq-Aminu, Moe Harkless, Evan Turner, Seth Curry, Meyers Leonard e perfino Enes Kanter hanno privato i Blazers praticamente di tutta la rotazione della squadra che ha raggiunto le finali di conference, distruggendo quella continuità che si era rivelata fondamentale per i continui successi della franchigia negli ultimi anni.

 

Anfernee Simons, per esempio, è passato da un anno all’altro a essere impiegato per 12 minuti totali nei playoff a essere probabilmente il terzo miglior giocatore della squadra, giocando più di 20 minuti a partita e tenendo in mano la second unit. Un salto probabilmente troppo grande per un 20enne, per quanto sia una delle poche notizie positive di questo inizio di stagione. I neo arrivati come Kent Bazemore, Mario Hezonja e Anthony Tolliver o i “promossi” come Skal Labissiere e Rodney Hood non sono stati in grado di riempire quei minuti in ala in maniera sufficiente su entrambe le metà campo, portando coach Stotts a buttare nella mischia anche a un rookie come Nassir Little pur di avere qualcosa dal reparto ali. Il tutto senza neanche considerare i problemi che comporta avere in squadra un giocatore come Hassan Whiteside, anche solo come pit-stop in attesa che torni Nurkic.

 

I Blazers sono riusciti a galleggiare a metà classifica del ranking offensivo solamente perché hanno avuto un Damian Lillard lisergico (30 punti di media con 1.3 punti per tiro secondo Cleaning the Glass, 95° percentile), ma sono andati in difficoltà non appena le difese avversarie hanno cominciato a ignorare chiunque non si chiamasse Lillard o McCollum (Toronto nell’ultima gara ha addirittura ritirato fuori la box-and-one). In difesa, poi, non sono ancora riusciti a trovare una strutturazione in grado di reggere contro le sfide che la NBA ti mette davanti sera dopo sera. Non è normale metterci quattro gare per vincere la prima in casa e, soprattutto, perdere quando Damian Lillard ne mette 60: con CJ McCollum ancora alla ricerca dell’efficienza perduta, i Blazers hanno bisogno di qualcosa da mettere attorno a Lillard che sia minimamente in grado di buttare la dannata palla nel canestro, o quantomeno di essere rispettato dalle difese avversarie. E anche se Anthony non riuscirà a farlo in maniera efficiente, la scommessa dei Blazers è che sia ancora in grado di farlo in maniera migliore almeno rispetto a Tolliver (24.2% da tre punti con 8/33, di gran lunga il peggior dato in carriera).

 

Peraltro, Tolliver è esattamente quel tipo di giocatore che gli altri protagonisti della NBA indicherebbero per dimostrare che Anthony è ancora in grado di rimanere nella lega, del tipo: se gioca ancora Anthony Tolliver, vuoi davvero dirmi che Carmelo Anthony non ci sta? Jared Dudley è un altro giocatore della famiglia “dei Tolliver” ed è stato accusato su Twitter — nientemeno che da Royce White: ve lo ricordate Royce White? — praticamente di usurpare un posto ai Lakers con cui Melo ha flirtato per parecchio tempo. Dudley quest’estate ha risposto: “Melo è un Hall of Famer, tutti lo rivorremmo in NBA. Ma in questa lega non conta chi è meglio di chi, ma quale giocatore rende migliore la squadra in cui gioca”.

 

Cosa Melo non può dare ai Blazers

Questo è esattamente il cardine della questione attorno a Carmelo Anthony: in che modo può rendere migliore una squadra nel 2019, a 35 anni di età? Nei suoi giorni migliori Melo era uno dei realizzatori più prolifici della lega su un alto volume di tiri, ma quei giorni sono andati da un bel po’. E se Anthony non è in grado di fornire né il volume offensivo né tantomeno l’efficienza (in carriera solo tre volte ha superato il 50% di percentuale effettiva, e l’ultima risale a cinque anni fa), che cosa si possono aspettare da lui i Portland Trail Blazers?

 

La risposta potrebbe semplicemente essere “qualsiasi cosa più di Anthony Tolliver”, ma non risolve i problemi che hanno afflitto la squadra in questo inizio di stagione — anche perché, per quanto di buono possa portare in attacco Anthony, bisogna pur sempre considerare quello che toglie in difesa. Magari nell’ultimo anno lontano dalla NBA Melo ha fatto un bagno di umiltà, o magari ha lavorato sul suo corpo in modo tale da essere più rapido negli spostamenti laterali rispetto a quelli pachidermici visti nelle ultime esperienze ai Thunder e ai Rockets, o forse ha trovato il modo di utilizzare la sua innegabile esperienza quantomeno per cavarsela. 

Una top-10 delle sue migliori giocate che risale a sei anni fa: dopo il magico 2012-13, non c’è stato praticamente più nulla da vedere.

 

Ma se schierato nei finali di partita il Carmelo Anthony del 2019 fornisce un bersaglio troppo grosso per le guardie avversarie per puntarlo e costruire la propria azione offensiva dopo aver fatto collassare la difesa per coprire le sue mancanze. È quella che viene definita una “liability” ed è il motivo per cui non ha resistito a Houston, dove lo schema difensivo improntato sul cambiare qualsiasi tipo di blocco lo ha mandato rapidamente in confusione, mostrando tutte le sue lacune difensive. A Portland coach Stotts è noto soprattutto per fare “drop” sui pick and roll, ma giocando in posizione di 4 Melo si troverà spesso davanti giocatori in grado di segnare da tre con percentuali solide, costringendolo a coprire una quantità di campo troppo grande per le sue attuali possibilità.

 

Quello che resta è che la NBA, in ogni caso, ha ritrovato uno dei suoi personaggi più caratteristici, perché nel bene o nel male Anthony è stato uno dei protagonisti principali della lega negli ultimi 15 anni. Ha spinto in tutti i modi — pubblici e mediatici in particolare — per avere la chance di uscire a modo suo, di scrivere lui l’ultima pagina della sua carriera e non lasciare che fossero gli altri a scriverla per lui. Sarà una motivazione abbastanza forte per portarlo ad avere successo a Portland? Sarà in grado di dare una mano a una squadra che ha bisogno di raddrizzare in fretta una stagione che sta andando dalla parte sbagliata?

 

Non lo sappiamo, ma la NBA si è arricchita di una nuova storyline da seguire e non possiamo che esserne contenti.

 

 

Tags : carmelo anthonyportland trail blazers

Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).

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