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Foto di Marco Bertorello/Getty Images
NBA Andrea Madera 12 luglio 2016 9'

Dove anche le pecore vanno a canestro

Dopo le leggende del passato, i nuovi fenomeni croati provano a riportare la Dalmazia in NBA.

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La Dalmazia è la regione più meridionale della Croazia, una sottile striscia di terra tra le montagne e il mare in larghi tratti ancora incontaminata, una costa stupenda punteggiata da città piene di storia e fascino.

 

Quando si parla dei giocatori americani si fa spesso riferimento a storie drammatiche, alla pallacanestro come unica possibilità per allontanarsi da realtà fatte di violenza e degrado. Se avete visto la Dalmazia, potete capire che per chi nasce in questa terra lo stimolo della fuga non è mai stato preponderante. Non è la speranza di un cambiamento che spinge i dalmati e i balcanici a dare tutto sul campo e a migliorarsi ogni giorno. Come dice Sergio Tavčar, storico telecronista triestino: “A tutto si può perdere, nella vita si può perdere, si può essere morti di fame, si può non guadagnare niente, si può essere bastonati sul lavoro, si può essere bastonati nella vita. Ma quando si gioca non si deve perdere. Perdere è lesivo della propria dignità, perché vuol dire che l’avversario è stato più furbo di te. Per questo si allenano come pazzi, perché nessuno di loro vuole andare in campo e fare la figura dello stupido. Non del perdente: dello stupido”.

 

Dal 2008 a oggi sono le squadre di Zagabria a dominare il campionato, eppure è dalle piccole città dalmate sulla costa dell’Adriatico che provengono i migliori giocatori croati del passato, del presente e del futuro.

 

Se entriamo nella regione da nord il primo centro abitato in cui ci imbattiamo è Zadar, la culla del basket croato da quando la Repubblica di Croazia ancora non esisteva. Un detto del posto recita così: “Dio creò l’uomo, Zadar la pallacanestro”. Da queste parti è cresciuto Krešimir Ćosić, l’uomo che portando il suo talento al di là dell’oceano nel lontano 1971 ha aperto la strada ai giovani balcanici di oggi — uno dei primi a dimostrare che un lungo non doveva limitarsi a stare inchiodato sotto canestro, ma poteva sviluppare raffinate doti di palleggio e avere un’incredibile visione di gioco. Lui aveva queste e tante altre qualità, tecniche e di pensiero, grazie alle quali poteva ricoprire cinque ruoli e fare qualsiasi cosa su un campo di basket.

 

Come il leggendario re Creso, tutto quello che Ćosić toccava diventava oro

 

Scendiamo ora di qualche chilometro e arriviamo a Šibenik, cittadina medievale arrampicata su una collina di fronte al mare. Cosa dire del nativo più illustre del luogo, Dražen Petrović? Forse basterebbe il soprannome: il Mozart dei canestri. Maniacale nel rincorrere la perfezione, si affermerà sia sui più importanti campi d’Europa che in NBA, ossessionato dal desiderio di dimostrare il suo valore. Era una guardia tiratrice sublime, all’occorrenza anche playmaker, inarrestabile nell’uno contro uno. Vincitore del Mondiale con la Jugoslavia nel 1990, argento olimpico 1992 dopo aver trascinato la Croazia alla finale contro il Dream Team… le sue imprese sono state così tante che si fatica a ricordarle tutte.

 

L’unico difetto che ha avuto è stato quello di essersene andato troppo presto. Farà in tempo a dire “Non sono jugoslavo, sono croato”, ma non a vedere la fine della guerra, a causa del tragico incidente stradale in cui perderà la vita su una strada della Baviera fradicia di pioggia. Adesso riposa al cimitero Mirogoj di Zagabria, non lontano dal suo ex allenatore, Krešimir Ćosić.

 

Prima di questa partita Vernon Maxwell, guardia dei Rockets, aveva dichiarato: “Deve ancora nascere un bianco che mi faccia il c…o”. Si sbagliava.

 

Facciamo un passo indietro e diamo uno sguardo al Šibenka dei primi anni Ottanta, trascinato dal nemmeno 19enne Dražen nelle cavalcate verso le due finali di coppa Korać, perse entrambe contro il Limoges. Oltre alle battaglie contro i francesi, rimarrà negli annali la mostruosa prestazione di Petrović contro il Bosna nella finale playoff del campionato jugoslavo: 40 punti e i due tiri liberi allo scadere segnati senza paura. Il titolo verrà assegnato al Bosna con una decisione a tavolino, ma tutti avevano visto il talento che si nascondeva sotto una cascata di riccioli e un volto da bambino.

 

Nella squadra degli esordi di Petrović giocava anche Nenad Slavica, padre di Nik Slavica, il primo dei talenti classe 1997 di cui vogliamo parlarvi. Non è il più conosciuto né il più talentuoso, ma la scorsa estate ai Mondiali Under 19 in Grecia — quando la Croazia si è ritrovata senza il giocatore più importante, Dragan Bender, che ritroveremo più avanti —, Nik ha giocato bene ed è salito in cattedra nel match più difficile, la finale persa all’overtime contro gli Stati Uniti.

 

La giocata del torneo. Dobbiamo aggiungere altro?

 

Slavica ha mostrato lampi di atletismo che ne fanno un ottimo candidato per diventare un giocatore NBA. Alto più di due metri, è una guardia che grazie ai suoi mezzi atletici può fare anche l’ala piccola. Ha un buon palleggio, in penetrazione è devastante ma possiede anche un buon tiro dall’arco; nel gioco in post deve invece migliorare, perché potrebbe sfruttare meglio i mismatch con avversari più deboli fisicamente. È un buon rimbalzista e un discreto stoppatore, ma in difesa deve ancora fare progressi. Attualmente gioca nel Cibona di Zagabria, dove sta facendo esperienza in attesa di finire in un college americano l’anno prossimo o di fare il salto in NBA quando verrà ritenuto pronto. Forse già nel 2017?

 

Torniamo alle partite contro Limoges e Bosna, a cui il padre di Nik non partecipava da protagonista, ritrovandosi spesso in panchina. Tra i titolari è il piccolo Petrović a condurre lo spartito, ma sotto canestro fa a gomitate con gli avversari il centro della squadra: Predrag Šarić detto ‘Sisi’, classe 1959 come Nenad Slavica, lungo solido e dalle mani morbide. Chiuderà la carriera proprio nel Šibenka, di cui è il migliore marcatore della storia… ma vogliamo parlare di lui per un’altra ragione: suo figlio, Dario Šarić.

 

Dario ha iniziato a giocare nella scuola di basket intitolata proprio a Petrović. Alto e molto talentuoso, viene seguito dagli scout più importanti da quando ha solamente 15 anni. Il padre in un’intervista sostiene che il figlio abbia più talento di Dražen (!) ma critica la sua etica lavorativa, il suo allenarsi tre o quattro ore invece di otto come faceva il suo illustre compagno di squadra. Durante lo stesso incontro con i giornalisti, con addosso la maglia dei New Jersey Nets con il numero 3 di Petrović, Dario afferma di ricordarsi benissimo il giorno della prima schiacciata: “Avevo 14 anni e 10 mesi”.

 

Difficile tracciare una linea di demarcazione tra i meriti dei padri, che hanno sempre creduto nei figli spronandoli e spingendoli a risultati straordinari, e il peso psicologico che grava sui rampolli quando si trovano continuamente sottoposti all’autorità di un padre più comandante che confidente. Certo, quando poi il figlio diventa un prospetto NBA è più difficile stigmatizzare il comportamento del genitore, ma Dario è un caso raro, baciato da un talento naturale e dotato di un fisico fatto su misura per le sue aspirazioni. Qualche problema la personalità straripante del padre glielo ha creato: hanno passato un periodo senza rivolgersi la parola, quando Dario decise di firmare con il Cibona di Zagabria invece che con il KK di Spalato — città dove viveva Predrag, che avrebbe voluto tenerlo sotto la sua ala protettiva.

 

Adesso sembra che i rapporti siano tornati alla normalità, dato che quella di firmare un contratto con l’Efes di Istanbul è stata una decisione del genitore prima che di Dario, poiché Predrag non lo considerava pronto per la NBA. Infatti Šarić è stato scelto alla numero 12 nel Draft del 2014, la scelta più alta nella storia del basket croato fino all’arrivo di Hezonja un anno dopo, ma ha deciso di rimanere due stagioni in Europa per maturare.

 

L’inizio all’Efes è stato un po’ burrascoso. La causa — strano a dirsi — la polemica sollevata dal padre dopo un inizio di stagione in cui Dario non vedeva moltissimo il campo. Ma le cose sarebbero tornate presto alla normalità, e infatti già a novembre sarà il giocatore più giovane di sempre a vincere il titolo di MVP del mese in Eurolega.

 

Dario Šarić, giocatore del mese.

 

Šarić nell’Efes gioca in tre diverse posizioni — centro e ala forte, ala piccola quando entra dalla panchina — ben impressionando per le doti difensive, per le capacità realizzative, per l’abilità di passatore e perché sa mettere palla per terra. La prossima stagione, almeno stando alla sua volontà, arriverà il momento tanto atteso, l’approdo in NBA, ai Philadelphia 76ers. La squadra non sta certo attraversando un buon momento visto che è la peggiore della lega, ma con Okafor e Noel (se rimarranno), il rientrante Embiid e la prima chiamata al Draft 2016 Ben Simmons a contendersi i posti sotto canestro per Dario non sarà facile trovare spazio. Sarà importante il tiro da tre, che sta migliorando e che potrebbe essere un’arma decisiva per fare male agli avversari, ma anche per guadagnarsi spazio e minutaggio rispetto a compagni meno dotati. Brett Brown, l’allenatore dei Sixers, pensa che Šarić sia competitivo, fisico, tosto e abbia ottime doti di playmaking — e se il tuo allenatore si sbilancia così ancora prima di vederti all’opera in allenamento, le premesse sono quelle giuste.

 

Il gioco di Dario è stato paragonato nientemeno che a quello di Toni Kukoč, che ha giocato come ala piccola in una NBA diversa da quella attuale (e per questo difficilmente Šarić seguirà il suo esempio). Giocatori versatili e ottimi passatori, fisicamente simili, entrambi hanno ritardato il loro approdo in NBA decidendo di rimanere in Europa più a lungo per arrivare pronti oltreoceano. Certamente Šarić si augura di vincere quanto Toni (tre volte l’Eurolega a Spalato e tre anelli con i Chicago Bulls di Jordan), ma in Eurolega non sono arrivate vittorie importanti e la sua prima squadra NBA non è quella che si definisce una contender. La superiorità di Kukoč è sostenuta anche dall’osservazione che la sua incredibile esplosività farebbe cadere tutti i paragoni con Šarić, quindi starà a Dario dimostrare di essere un giocatore diverso ma altrettanto forte e vincente.

 

The Croatian Sensation

 

Il paragone con Kukoč ci permette di scendere ancora lungo la costa dalmata e arrivare a Spalato, città natale di Toni. Con Spalato ha un legame speciale anche Dragan Bender, giovane croato che tra i prospetti del 1997 è considerato quello con più talento e potenziale.

 

Dragan è nato in Bosnia, a Čapljina, una cittadina situata sul confine con la Croazia, a poche centinaia di metri dalla Dalmazia. Quando Bender ha 12 anni, lui e il fratello maggiore Ivan iniziano a giocare nella scuola basket locale di Nikola Vujčić. L’anno seguente i Bender si trasferiscono a Spalato per entrare nell’academy di Vujčić e allenarsi a tempo pieno.

 

Vujčić non è di Spalato ma a questa città è legata a doppio filo la sua storia cestistica, dato che lì ha iniziato e chiuso la carriera, vestendo sempre il numero 7 in onore di Kukoč. Vujčić ha fatto la storia del Maccabi Tel Aviv dal 2002 al 2008 e ora ci è tornato con un ruolo manageriale portando con sé il giovane Dragan, che ha iniziato a giocare minuti importanti in prima squadra. Non esita mai quando viene chiamato in causa e vuole sempre dimostrare di non avere paura di niente e di nessuno. Bender è un 2.15 dalle braccia lunghissime, che nella NBA potrebbe trovare spazio sia da ala forte che da centro. Nonostante la statura elevata sa palleggiare e passare benissimo, può cambiare contro chiunque, ha un’ottima coordinazione e grande atletismo, caratteristiche che lo hanno portato a essere paragonato a Kristaps Porzingis.

 

Alessandro Gentile e l’Armani fanno la conoscenza di Dragan Bender

 

In un articolo su Sports Illustrated si faceva della facile ironia sul soprannome DragonBender, ‘colui che piega i draghi’, proponendolo scherzosamente come rivale di Daenerys, la madre dei draghi di Game of Thrones. Daenerys sta attraversando il mare con i suoi draghi alla conquista dei Sette Regni, ma Bender ha già sorvolato l’oceano, è stato scelto al Draft alla numero 4 dai Phoenix Suns e la sua ombra si proietterà presto sui parquet NBA per infondere terrore nei cuori dei soldati nemici… pardon, giocatori avversari.

 

Se mai dovesse esserci un incontro tra i due, il posto dove ambientarlo potrebbe essere una delle location del Trono di Spade nella città che si trova all’estremo sud della Dalmazia. Ovviamente stiamo parlando di Dubrovnik, la Perla dell’Adriatico, città che ha dato i natali a Mario Hezonja, quasi coetaneo ed ex compagno di Šarić al KK Zagreb e in Nazionale, sul quale avevamo già scritto un anno fa. Scelto nel Draft 2015 alla numero 5, Mario sta iniziando a mostrare sprazzi del suo talento anche oltreoceano.

 

Career high di Mario contro Chicago

 

Nel pre-olimpico di Torino l’Italia si è trovata di fronte sia Hezonja che Šarić. Hezonja non ha brillato, ma Šarić è stato nominato MVP del torneo dopo una prestazione da leader nella finale contro l’Italia, decisa dalle sue giocate down the stretch. La storia del basket dalmata lo ha accompagnato anche in questa avventura, dato che il vulcanico allenatore della Nazionale è il fratello maggiore di Dražen Petrović, Aza.

 

Durante la finale Dario avrà visto visto il ragazzino seduto a bordocampo con la maglietta numero 3 dei Nets e forse ha realizzato che questa qualificazione è il proseguimento di una storia che non si è mai interrotta, che è andata avanti oltre la morte insensata del figlio prediletto del basket croato. Una continuità iniziata il giorno in cui, vicino alla tomba di Dražen, un bambino si è avvicinato alla madre del campione per dirle: “Signora, non essere triste. Tu lo hai messo al mondo, ma lui è nostro, di tutti noi”.

 

 

Tags : basket europeocroaziapreolimpicorio 2016

Andrea Madera, nato a Milano nel 1987, laurea magistrale in Cultura e storia del sistema editoriale, traduce da e in inglese. Scrive per piacere personale e il suo primo romanzo, L'isola degli innocenti, è diventato un ebook pubblicato da Vanda.

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