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Emanuele Atturo

Djokovic non è mai uguale a se stesso

In finale degli US Open ha battuto Medvedev mostrando una parte sottovalutata del suo repertorio.

Quando Djokovic è al servizio e alza gli occhi dall’altra parte della rete intravede Medvedev piccolo e lontano come il foro di una lunga galleria che attraversa le montagne. Per riprenderlo alla tv, in queste sue estreme posizioni in risposta, forse servirebbero dei droni. Una di quelle riprese dall’alto a metà tra divino e tecnico che si fanno sopra le torri e le cupole delle vecchie città europee, e che ci costringono a un esercizio di relativismo da Operette Morali. Medvedev allora sembrerebbe un uomo piccolo e confuso sul da farsi. Un uomo che osserva la vita da una rassicurante distanza. Viene da chiedersi dove risponderebbe, Daniil Medvedev, se il campo fosse ancora più lungo. Se si estendesse ancora per metri e metri. Qual è il limite oltre il quale diventa fisicamente impossibile rispondere a un servizio senza lasciare che rimbalzi per due volte?

 

Gli esteti inorridiscono di fronte a questa prudenza, ma è solo fisica. Alla potenza fumettistica che i nuovi materiali sono capaci di generare si risponde lasciando che sia l’attrito dell’aria a sgonfiare le palline nel loro viaggio. Con quel pragmatismo molto russo, Medvedev fa un compromesso sensato: rinuncia al vantaggio dell’aggressività dell’anticipo e lascia che sia la fisica ad addomesticare il servizio. Non che sia semplice. Così è costretto a risposte molto efficaci, perché il colpo successivo si farà a partire da una posizione di campo per forza scombinata. È costretto ad ampie sbracciate da fondo campo per rispondere in modo aggressivo, colpi in cui il tennis sembra soprattutto un lavoro di fatica, più che di destrezza o di precisione. Un lavoro usurante.

 

È un tennis di sforzo e ampi spazi. Un tennis che possiamo immaginare su distese lunari, rettangoli grandi, sterminati, come campi di granturco, giocato da uomini colossali con racchette grandi come obelischi monumentali. Un tennis giganteo, che è forse l’ultima evoluzione di questo sport che ormai non ha quasi più nulla a che fare con i gesti bianchi, i maglioni a ‘V’ e quei movimenti tecnici brevi e minimali. Non l’unica evoluzione possibile, perché è sempre lo sport del ritmo asfissiante, del campo come camera senz’aria, di Carlos Alcaraz e Jannik Sinner, ma è un’evoluzione che esiste, un approdo deviato della catena evolutiva. Come tutti gli sport, il tennis è un ecosistema tecnico in cui ogni particella è in relazione reciproca. Aver introdotto racchette capaci di generare quella potenza, e tennisti così alti e forti fisicamente, ha generato servizi devastanti. L’importanza del servizio ha creato l’importanza della risposta – e ognuno ha trovato la sua strategia per rispondere meglio.

 

Ogni scelta strategica, però, ne produce un’altra. Che contromisura si prende contro giocatori che si mettono così distanti ad aspettare il servizio?

 

Daniil Medvedev è uno dei migliori risponditori del circuito, pur rispondendo – come si dice – in braccio ai signori in prima fila. Pur finendo oscurato dalla grafica del punteggio, pur scomparendo dalle telecamere come in un controcampo cinematografico. La sua posizione però lo espone agli angoli stretti e alle discese a rete. Ai giocatori cioè che sacrificano la potenza dei colpi per cercare geometrie più raffinate. Uno dei primi maestri di John McEnroe gli faceva notare che i tennisti non usano mai tutta la geometria del campo. Oggi è ancora più vero, e Medvedev incontra ben pochi giocatori col bagaglio tecnico per sfruttare queste debolezze. Il suo stile, allora, si è propagato come una specie di virus che scopre una falla nel sistema immunitario.

 

Novak Djokovic, però, questo bagaglio tecnico ce l’ha e domenica – nella finale degli US Open – lo ha dimostrato ancora una volta.

 

Djokovic alza la testa e vede Medvedev lontano. Da destra serve uno di quei servizi che esistono dall’alba dei tempi: uno slice che affetta la pallina dandogli un effetto orizzontale, obliquo. Quando la pallina rimbalza a terra si scarica e schizza a destra, verso le tribune laterali. Medvedev allora finisce tagliato fuori. Spesso è costretto a un paio di goffi passi in diagonale per recuperare; e pur essendo un mago dei colpi fuori equilibrio, pur avendo braccia e gambe da creatura “kubiniana”, pur essendo un “polpo” – come lo ha definito Rublev -, ci arriva male. Quando la palla arriva dall’altra parte Djokovic si è già furtivamente avvicinato alla rete, ed è pronto a una volée che strozza il tempo e lo spazio.

 

Questa strategia Djokovic l’ha applicata con una regolarità che oggi ci può sorprendere. È raro vedere un giocatore che si fionda a rete così spesso e con quell’urgenza. E soprattutto un giocatore che ha nel suo repertorio così tante volée. Sono fondamentali tecnici perduti, oggi relitti di una morta. Djokovic ha sfoderato dei colpi al volo che ci hanno trasmesso vibrazioni da anni ’90. Volée di rovescio verso il più remoto incrocio delle righe, volée di dritto aggraziate e leggere dopo un servizio in slice che gli ha spalancato il campo. Volée in controtempo, o tocchi a uscire che smorzano la pallina come la fiamma di una candela. E ancora: stop volley, e demi volée.

 

Djokovic ha vinto 37 punti a rete su 44 discese, una percentuale dell’84%, e numeri assoluti considerevoli per tre set giocati nel 2023 in una finale Slam. Queste discese a rete, però, non vanno contate ma pesate. Djokovic ha usato il serve&volley come arma tattica per destabilizzare Medvedev, sottrarlo dalla sua zona di comfort; ma anche per sbrogliare situazioni di punteggio intricate. Quando in difficoltà, Djokovic è sceso a rete: sistematicamente. 

 

Il colpo migliore per raccontare questo match è forse proprio una volée. 

 

Siamo nel secondo set, un violentissimo, tremendissimo, secondo set. Nel primo Djokovic ha mischiato le carte troppo a fondo, e il russo non ci ha capito molto. Nel secondo però Medvedev si è pian piano agganciato alla partita. Dopo un inizio opaco è salito di ritmo, entrando in quella modalità di muro da fondo che per la maggior parte dei tennisti è un’enigma. Una spugna in grado di assorbire tutta l’eccezionalità avversaria per risputarla fuori normalizzata. Come si rompe questo muro? Era la stessa domanda che ci si faceva con Djokovic qualche anno fa, ed è forse per questo che Djokovic sa spesso trovare una risposta. Nel secondo set però è rimasto appiccicato a scambi troppo lunghi. Il tennis è diventato uno sport brutale, una gara di powerslam, con quella violenza iterativa che ci fa venire il fiatone anche dal televisore. Scambi da 27, 31, 36 colpi alla fine dei quali Djokovic spesso barcolla. Persino lui barcolla: il maniaco del fitness, del saluto al sole, della dieta vegana. Fino a qualche anno fa era lui a far pesare agli avversari questa legge primitiva del tennis: se non puoi tirarmi vincenti, e io non sbaglio mai, allora non puoi farmi punto. Poteva stare a scambiare da fondo fino alla notte dei tempi, se il suo avversario non si fosse inventato qualcosa di impossibile. Ora è Medvedev quel giocatore.

 

Ci ha già perso 5 volte, molte meno di quante volte lo abbia battuto, ma per lui sono tante. Nessun avversario in questo momento lo mette tanto in difficoltà. Solo Alcaraz, che è un fenomeno, o altri tennisti che soffre per oscure ragioni, perché non tutto è spiegabile nella vita – Carreno Busta, Vesely. Poi ci sono Nadal e Kyrgios, che però oggi possiamo considerare a malapena in attività. Due anni fa, come sappiamo, Medvedev è rimasto cinico e impassibile mentre Nole si sgretolava sul centrale di New York. Non lo soffre mentalmente. C’è qualcosa del suo spirito antagonista che riesce a neutralizzare la ferocia di Djokovic. Nole lo rispetta profondamente. Lo si capisce da come parla di lui, certo, ma anche da come gioca – con lo scrupolo che si usa nel catturare un serpente. Lo rispetta in modo diverso da Alcaraz, che comunque è altro da lui. Fortissimo ma di un pianeta diverso, di un tennis che non gli appartiene. Medvedev è invece un tennista della sua specie. Un agonista per cui il tennis nasce dalla testa e non dalle braccia. Un tennista più cerebrale che istintivo, di cui si può leggere il processo mentale alla radice di ogni punto. 

 

Djokovic e Medvedev usano lo stesso trucco: ti danno l’illusione del controllo. Ti danno la falsa sensazione di essere forte e al comando della partita. In realtà sei finito in un tunnel mentale in cui finirai per perdere l’ultimo punto, e quindi la partita, senza capire del tutto come sia successo. È come essere rapiti e incappucciati da una persona che consideravamo un amico, per poi risvegliarci sdraiati in un bosco di un paese straniero, in mutande. 

 

La differenza è che a Medvedev riesce con mezzi tecnici limitati (in parte, certo), e quindi qualcuno è in grado di svelarne il bluff. Djokovic invece lo fa col repertorio del tennista perfetto: inscalfibile mentalmente e fisicamente, e con un repertorio tecnico infinito. Durante la finale questa differenza si è esasperata: Djokovic ha provato a svelare i limiti di Medvedev – il radicalismo auto-sabotante di certe sue scelte tattiche, la limitatezza tecnica – mentre il russo ha provato a esercitare la propria superiorità difensiva da fondo campo – almeno in questo momento. Per Medvedev, come raramente gli capita, è diventata una gara di forza. Nel secondo set la stava per vincere.

 

Dopo un punto dell’ottavo gioco del secondo Djokovic mostra sottilissime crepe alla struttura. Uno scambio terrificante da 50 colpi che ha steso il serbo a terra, il petto che sobbalza, le gambe pietrificate. Il pubblico di New York lo carica: con Medvedev in campo è sempre lui il più tifato. La partita in quel momento è brutale e ci ricorda che questi tennisti giocano con un corpo portato spesso al suo limite. In questo US Open ce lo siamo ricordato spesso, con l’ondata di calore, i caschi di ghiaccio, Medvedev che in telecamera dice, drammatico: «Prima o poi qualcuno morirà in campo».

 

È in quell’ottavo gioco che Medvedev ottiene una palla break, ed è in quel momento che Djokovic tira quella volée. Nole tira una prima esterna da sinistra che prende in controtempo il suo avversario. Scende a rete. Medvedev però ha un riflesso folle. Organizzando un movimento rapido, tira una specie di dritto a due mani dal lato sinistro che sta per finire lungolinea e passare Djokovic. La palla è veloce e bassa e il serbo si piega sulle gambe per giocare una demi-volée di una difficoltà incalcolabile. Non si può dire quanta manualità e quanta coordinazione tecnica serva per cavarsela in una situazione simile, per di più decisiva per la partita.

 


Djokovic riesce a vincere il secondo set, quello in cui si era nel territorio di Medvedev. Si sono menati da fondo come febbricitanti. Se pensate che esagero guardate il punto del 4 pari al tiebreak. Poco dopo Medvedev ha avuto anche un set point. Ma alla fine è stato Djokovic a uscirne comunque vincitore, grazie al solito allungo finale decisivo.

 

È stato impressionante vedere Djokovic, a 36 anni, resistere alla violenza a cui l’ha sottoposto Medvedev in quel secondo set. Sono gli scambi lunghi ad averci rubato l’occhio, ma non è grazie a quelli che Djokovic ha vinto la partita. Ce l’ha fatta grazia a tutti i momenti in cui è riuscito a prendere ossigeno con le sue discese a rete, o anche solo con qualche colpo decelerato che fungesse da laccio emostatico. Il mimetismo di Djokovic è una delle sue arti meno riconosciute. In ogni punto interpreta una strategia leggermente differente. Coi piedi è più dentro o più fuori, serve and volley con la prima o con la seconda. In altri si mette metri in fondo al campo e si mette nei panni di Medvedev. Altre volte forza tutto da fondo. È un trasformista del gioco, e anche un bravissimo imitatore in effetti. Col tempo il suo stile si è stratificato con una complessità sempre maggiore. Invecchia, anche se non ce ne rendiamo conto, e il suo senso della competizione lo spinge a trovare soluzioni.

 

Ha vinto il suo 24esimo Slam e anche stavolta su questa vittoria si sono depositati significati e interpretazioni che hanno distolto l’attenzione. Forse è il bisogno che abbiamo di trovare riconoscibilità dentro questa lunga sequela di Slam vinti. Si è parlato della fortuna del suo calendario, del ruolo da antagonista esasperato da tutte quelle partite con gli americani. Si è parlato della sua parodia di Shelton e prima della finale si discuteva di quella finale, due anni fa, quando Medvedev gli ha impedito di completare il calendar slam. Domenica Djokovic ci ha ricordato, con semplicità, quanto bene sappia giocare a tennis. È ironico, in un certo senso, che abbia vinto uno Slam giocando molto spesso servizio e volée. Soprattutto se pensiamo che gli esteti lo hanno spesso criticato per un gioco troppo violento e brutale, ma Djokovic non è un esteta e se scende a rete non è certo per lo spettacolo ma per risolvere un problema. Sa essere molte cose diverse, ed è anche per questo trasformismo che lo abbiamo spesso frainteso.

 

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Emanuele Atturo è nato a Roma (1988). Laureato in Semiotica, è caporedattore de l'Ultimo Uomo. Ha scritto "Roger Federer è esistito davvero" (66thand2nd, 2021).