Esclusive per gli abbonati
Newsletters
About
UU è una rivista di sport fondata a luglio del 2013, da ottobre 2022 è indipendente e si sostiene grazie agli abbonamenti dei suoi lettori
Segui UltimoUomo
Cookie policy
Preferenze
→ UU Srls - Via Parigi 11 00185 Roma - P. IVA 14451341003 - ISSN 2974-5217.
Menu
Articolo
(di)
Michele Pettene
Il disastro dei Mavericks non ha eguali
11 apr 2023
11 apr 2023
L’assurdo finale di stagione di Dallas, un harakiri dentro e fuori dal campo.
(di)
Michele Pettene
(foto)
Kevin Jairaj / Imago
(foto) Kevin Jairaj / Imago
Dark mode
(ON)

Dalle finali della Western Conference del maggio 2022 all’undicesima posizione dell’aprile 2023 con l’esclusione sia dai playoff che dai play-in: i Dallas Mavericks sono stati protagonisti di un crollo vertiginoso che nessuno si sarebbe aspettato anche solo due mesi fa, chiudendo la loro triste stagione con un poco lusinghiero record finale di 38 vittorie e 44 sconfitte.Un fallimento impressionante che, soprattutto nelle ultime settimane di regular season, ha provocato una quantità smisurata di tsunami mediatici e comunicativi sia interni che esterni allo spogliatoio e alla squadra. È stato il non plus ultra degli psicodrammi che, a cadenza regolare, affiorano in superficie durante le stagioni dei Mavs, nonché la conferma della più famosa tra le leggi di Murphy: se qualcosa può andar storto, lo farà nel peggior momento possibile.

Dei problemi di Dallas abbiamo parlato anche nella nuova puntata di Air Vismara, il nostro podcast sulla NBA condotto da Dario Vismara con ospiti diversi ogni settimana.

A voler fare un rapido recap, Dallas a inizio febbraio 2023 sembrava ben indirizzata verso un finale di stagione decente e con una qualificazione ai playoff apparentemente in tasca, ma non pareva potesse ambire a nient’altro che a una rapida comparsata in post-season: troppo solo Luka Doncic, troppo stanco per l’immane fardello offensivo e la sua solita condizione fisica diciamo non da pentatleta, troppo scarsi o altalenanti i giocatori di supporto, troppo fragile la fase difensiva.Alla prima occasione buona quindi, senza pensarci troppo e sottovalutando per sua stessa ammissione le ricadute, l’onnipresente proprietario Mark Cuban - delegittimando e scavalcando il General Manager Nico Harrison - completava l’operazione-Kyrie Irving, portando l’altra agognata superstar da affiancare a Doncic, rinunciando al miglior difensore dei Mavs, Dorian Finney-Smith, e al secondo miglior attaccante fino a quel momento, Spencer Dinwiddie, spediti ai Brooklyn Nets insieme a una prima scelta al Draft 2029.Com’è andata con Kyrie Irving?Contrariamente a quanto si è letto da più parti (negli Stati Uniti sono state le testate newyorkesi ad andarci giù più pesante delle altre) l’ex play dei Nets è stato un giocatore e un professionista esemplare dal giorno uno all’ultima partita di regular season, togliendo effettivamente molto del peso offensivo a Luka Doncic e illuminando l’American Airlines Center con le sue solite giocate irreplicabili, peraltro guidando Dallas a due vittorie consecutive nei giorni immediatamente successivi al suo atterraggio in Texas.Un inizio molto positivo che mostrava un nuovo volto dei Mavericks, quello run and gun con Kyrie a spingere l’attacco come quasi mai prima era successo nel sistema pachidermico e Doncic-centrico devoto al simbolo e faro della franchigia dal 2018. Un cambio di marcia repentino capace di generare già alle prime due partite di Irving a Dallas il più alto numero di punti in contropiede di tutta la stagione (27 contro Utah e 24 contro i Clippers) e un generale entusiasmo tra i compagni di squadra, soprattutto i due giovani levrieri Josh Green e Jaden Hardy. Con un piccolo dettaglio: l’assenza di Doncic per infortunio al tallone in entrambe le gare.

La “presentazione” di Kyrie ai Mavs all’esordio: il fenomenale canestro in controtempo contro gli L.A. Clippers per chiudere la partita.

L’immediato impatto di Irving e la libertà concessagli mentre lo sloveno osservava attento in borghese confermava la netta inversione di rotta dell’allenatore Jason Kidd, passato dall’essere un convinto sostenitore di una fase difensiva che, a dirne una, aveva fatto la differenza nel suo primo anno a Dallas e durante la trionfale corsa alle finali della Western Conference, al più classico degli zemaniani hardcore. «Ci saranno dei cambiamenti radicali» aveva detto commentando la trade, «saremo una squadra che dovrà segnare un punto più degli altri d’ora in poi».Non che Dallas potesse agire diversamente, privata con la trade del giocatore più importante in difesa di tutto il suo scacchiere tattico, quel Dorian Finney-Smith capace di limitare il miglior esterno avversario e di cambiare con successo su tutti e cinque i ruoli, oltre al tempismo su rotazioni e recuperi difensivi. Una perdita che, unita all’infortunio dell’altro cardine difensivo Maxi Kleber, si è fatta sentire molto più di quanto calcolato inizialmente dal front office dei Mavericks.Se la difesa di Dallas, come avevamo già raccontato nei pezzi di cui sopra, prima della trade per Irving poteva essere considerata poco sotto la media, senza alcun tipo di verticalità e aggrappata ai suoi role players incaricati di "coprire" pigrizie e limiti del loro factotum offensivo sloveno, dopo l’arrivo di Irving - non esattamente un mastino nella propria metà campo - e il contestuale addio di DFS si condannava a diventare un colabrodo che avrebbe senza dubbio condizionato in negativo la parte finale di stagione. Tutto, da febbraio, sarebbe dunque ruotato attorno a una semplice domanda: può Dallas continuare a vincere con costanza segnando un punto in più dell’avversario?La risposta, oggi ovvia e molto simile a una bocciatura, per almeno il primo mese è sembrata in discussione, pronta a cambiare direzione a seconda della partita giocata e dell’episodio contro o a favore. Mentre Doncic e Irving in campo cercavano di prendersi le misure a vicenda, tutti gli osservatori concedevano ai Mavs il beneficio del dubbio in attesa che l’esperimento iniziasse a restituire i risultati attesi.Così i due finali di gara consecutivi bruciati dalle due stelle di Dallas incapaci di «mettersi d’accordo» contro Sacramento e Minnesota venivano interpretati come un serio impegno di entrambi a voler coinvolgere e far felice l’altro, una chimica non scontata che veniva confermata anche dalle sorprendenti dichiarazioni di Doncic sul nuovo compagno di backcourt: «Kyrie è incredibile, se ci fosse un giocatore per cui dovrei pagare il biglietto, sarebbe lui».

Il famoso “tira tu…no tira tu!” tra Doncic e Irving nella sconfitta contro Minnesota.

Segnali incoraggianti esplosi in entusiasmi ingiustificati dopo le (poche) vittorie eclatanti, come quelle di Philadelphia con il famoso doppio quarantello segnato da Doncic e Irving, come se da soli due giocatori potessero ogni singola sera e per lunghi tratti di gare realizzare più del 65% dei punti totali di Dallas con l’80% di Percentuale Reale in coppia. Un’aspettativa che sembrava molto popolare all’inizio dell’avventura e che potremmo attribuire alle distorsioni della realtà che giochi come “NBA 2K” e i media fan degli highlights contribuiscono ad alimentare (qualcuno, anche in Italia, alla notizia della trade aveva parlato addirittura di possibile “contender”).Sensazioni e risultati che costringevano comunque a rimandare o sospendere il giudizio, come se ai playoff mancassero chissà quante partite e non solo una ventina. Intanto, mentre l’adattamento di Irving continuava e i numeri offensivi sembravano premiare la scelta (117.2 l’Offensive Rating dall’arrivo di Kyrie; +3.1 di plus/minus e 119.2 con Doncic e Irving in campo insieme, miglior dato della lega), le sconfitte si accumulavano con sinistra frequenza.Tra difese colabrodo e maledetti finali di partitaMentre infatti l’attacco macinava cifre impressionanti la difesa dei Dallas Mavericks subiva un contraccolpo di pari intensità, proporzionale al maggior numero di punti segnati: tanto la fase offensiva dei Mavs migliorava con Kyrie in campo, tanto la fase difensiva peggiorava senza Finney-Smith, impedendo alla franchigia texana di conquistare o mantenere vantaggi sensibili sugli avversari durante le gare.Il peggioramento difensivo diventava evidente e sconfortante nei paragoni con i comunque non irresistibili Mavs pre-trade: da ottava per punti subìti a partita (112) Dallas passava a 21^ (117.8), da 24^ in Defensive Rating (114.9) a 25^ (118.3), da 17^ per punti concessi da seconde chance agli avversari (13.8) a ultimissima (15.9) e per punti concessi in area passava da 15^ (49.6) a 24^ (54.1).La cessione di Finney-Smith e l’infortunio di Kleber avevano fatto crollare tutta la barcollante impalcatura difensiva di Kidd, esponendo al pubblico ludibrio le nefandezze a livello manageriale degli ultimi anni, tra la firma estiva del disastroso JaVale McGee e la scarsità generale del roster a disposizione, mai migliorato. Il quintetto, tra vari tira e molla e lo scherno dei fan, schierava per il sesto anno consecutivo come «centro» Dwight Powell, inferiore a qualsiasi altro titolare nel ruolo in tutti i criteri di valutazione che non fossero spirito di sacrificio e gomitate prese in faccia (la specialità della casa: i tifosi di Dallas hanno pure creato un contatore).Senza considerare che Doncic, dopo i benauguranti sforzi di inizio stagione, stava ritornando ai soliti vecchi atteggiamenti immaturi, difensivamente svogliato e titolare di un linguaggio del corpo sempre più irritante man mano che le sconfitte aumentavano. Limiti ben noti a tutti che proprio la presenza di due specialisti come Reggie Bullock e Finney-Smith costantemente in campo rendevano meno dannosi durante le partite.Un cocktail di fattori tossici che annullava quasi matematicamente i progressi offensivi (il 118.5 di Defensive Rating faceva il paio con un Net Rating post-trade pari a -1.3), creando con incredibile costanza un’infinita serie di finali tirati in cui spesso e volentieri a soccombere era la franchigia texana.In definitiva, con Irving a bordo Dallas dimostrava di poter giocarsela con le migliori dell’Ovest in termini di produzione offensiva, scavando presto o tardi margini importanti con parziali fulminei, ma di essere inferiore a tutti in difesa, facendosi regolarmente recuperare dai contro-parziali di avversari sempre pronti a banchettare sulle teste dei Mavs in area, tra rimbalzi offensivi sanguinosi, uno contro uno dritti al ferro causa l’assenza di un qualsivoglia rim protector o comodi tiri dall’arco provocati spesso e volentieri dai ritardi delle due stelle, trafitte scientificamente sul perimetro dagli esterni rivali.

Una delle tante penetrazioni al ferro subìte dai Dallas Mavericks versione 2023.

Un rollercoaster poco consigliato ai tifosi cardiopatici dei Mavs che, dal giorno della trade, hanno avuto il dubbio piacere di assistere a ben 21 finali punto a punto su un totale di 27 partite, il più alto numero della lega nello stesso arco temporale, con sole 6 vittorie a fronte di 15 sconfitte. Un record terribile che affossava gradualmente le chance di playoff dei ragazzi di Kidd aumentando a dismisura frustrazione e pessimismo.E mentre lo staff e i giocatori si rendevano sempre più conto di quanto fossero diventati inermi difensivamente, come dichiarato pubblicamente da Luka Doncic il 5 aprile («Chiunque può segnare contro di noi») i finali in volata diventavano sempre più una nemesi, contro ogni aspettativa con due giocatori come Irving e Luka storicamente ai vertici delle classifiche “clutch”. Tra le tante sconfitte degli ultimi minuti forse quella del 5 marzo contro i neo-rivali dei Phoenix Suns, freschi della firma dell’ex amico di Irving Kevin Durant, lasciava la ferita più profonda in tutta l’organizzazione, mostrando tutto il gap tra i nuovi favoriti della conference e una squadra chiaramente disfunzionale. Se infatti i Suns negli ultimi 5 minuti di gioco riuscivano ad andare a segno con tre comode triple piedi a terra, Dallas faticava le proverbiali sette camice per rimanere a contatto, affidandosi alla solita hero ball di Irving e Doncic: una strategia ben più inefficiente che alla lunga non poteva reggere, nonostante l’incredibile talento del duo.Così, se da una parte Durant infilava il jumper dalla media che sarebbe poi valso la vittoria a 11 secondi dalla fine, dall’altra Luka sbagliava a un metro dal ferro il pareggio allo scadere. In assoluto non un tiro impossibile, anzi, ma un colpo di sfortuna umano e inevitabile se non si hanno alternative al reiterato eroismo dei singoli che, per quanto fenomenali, sono più che esposti all’errore nei momenti di massima tensione e pressione difensiva (in situazioni clutch, Luka nel post-trade ha tirato - non è un refuso - con il 9% da tre punti, mentre Kyrie ha avuto un Net Rating di -10 e Dallas una percentuale da dietro l’arco del 28%).Dai playoff al “tank”: il tragicomico finale di stagioneLa sconfitta di Phoenix, comunque onorevole e giocata fino all’ultimo contro una pretendente al titolo, col senno del poi sarà l’ultima volta in cui vedremo Dallas scendere in campo con il coltello tra i denti e la speranza di risollevare il proprio amaro destino. Al 10 febbraio il record era di 31-26, buono per il quarto posto ad Ovest; dopo Phoenix, un mese dopo, era già 33-32, scendendo al settimo posto.Nella partita successiva, a New Orleans, Luka si è fatto male e Dallas ha perso contro i Pelicans sempre nel finale e sempre cavalcando l’hero ball, con due triple decisive sbagliate da Irving a fronte di una, siderale, infilata (sia messo agli atti che Kidd era stato costretto a giocarsela con Davis Bertans da lungo). Due giorni dopo Irving ha poi raggiunto Doncic in infermeria e Dallas ha potuto finalmente - ironizziamo - mostrare al mondo tutta la profondità del proprio scintillante roster: contro Memphis l’11 e il 13 Marzo il quintetto Hardy-Green-Bullock-Hardaway-Powell assomigliava improvvisamente più a una squadra da lottery che da playoff, e la doppia sconfitta ne ha rispecchiato l’imbarazzante valore.Sulla scia del -16 della gara persa in casa contro i Grizzlies con solo 88 punti segnati (seconda peggior prestazione stagionale), coach Kidd “inaugurava” la terza ed ultima parte dell’annata di Dallas, quella del disastro comunicativo oltre che tecnico, presentandosi in conferenza stampa con la prima di una lunga serie di dichiarazioni pubbliche che, a turno, tutti i protagonisti si sentiranno in dovere di rilasciare alimentando incomprensioni e malumori.

«No one is dying» dirà Kidd, meglio conosciuto nella community MFFL (Mavs Fan For Life) come Osama Kidd Laden, il terrorista della panchina. Nessuno sta morendo. «Si tratta solo di capire se riusciremo a recuperare i nostri infortunati in tempo per rimanere in corsa per i playoff. Se non ce la dovessimo fare, amen, la stagione andrà così».

L’atteggiamento stucchevole, disfattista e arrendevole è quello di un capo allenatore che sente di aver perso le redini della squadra e che non sa come raddrizzarne le sorti, affiancando il proprietario Mark Cuban e Doncic come principale responsabile delle numerose figuracce: perché centellinare l’impiego di Christian Wood? Perché sviluppare Jaden Hardy, un rookie dal ventello facile, così tardi nella stagione? Perché certe rotazioni? Perché non usare mai McGee contro frontcourt avversari particolarmente verticali? Perché non chiamare mai timeout nei momenti difficili rimanendo con le mani in tasca?A sorpresa - eufemismo - quel «nessuno sta morendo» di Kidd (non nuovo a uscite simili nella sua carriera da coach) non sortisce alcun effetto motivazionale sui suoi che, una decina di giorni dopo, incappano in quello che sembra essere il nadir della stagione 2022-23: la doppia, nauseante sconfitta in fila contro gli Charlotte Hornets già esclusi dalla lotta ai play-in e per di più con Luka e Kyrie in campo. Uno spartiacque da cui sarà impossibile riprendersi, soprattutto mentalmente.

P.J. Washington, ala di Charlotte, contro Dallas è sembrato LeBron James.

È il momento più difficile dei cinque anni in NBA di Doncic. Lo sloveno, visibilmente scoraggiato e incazzato con il mondo, in conferenza stampa perde per una volta la furbizia e l’aplomb di sempre ammettendo di essere nel bel mezzo di un periodo molto cupo della sua vita, incapace com’è di divertirsi come una volta in campo e alle prese con dei problemi personali di cui non rilascia ulteriori dettagli (potrebbe riferirsi alla perdita del rapporto con la madre che l’aveva seguito prima a Madrid e poi a Dallas, trascinata da Luka in una causa legale finita a dicembre 2022 per una questione di diritti legati al suo logo dati in gestione alla mamma, ma è solo un’ipotesi).Peggio di avere il proprio uomo-franchigia infelice c’è solo un uomo-franchigia che alle parole non fa seguire sul campo i fatti in quella che dovrebbe essere una rincorsa decisiva per un posto nella post-season. L’approccio alla fase difensiva di Doncic diventa sempre più demotivante e deleterio per la squadra, così come l’evidente nervosismo arrivato a livelli insopportabili nei confronti degli arbitri (17 i falli tecnici annuali, secondo di tutta la lega) e le forzature immotivate e gratuite durante le gare (con il solito problema dei tiri liberi, quest’anno segnati col 74%). Doncic è frustrato, odia perdere ma non è più nelle condizioni né fisiche né mentali di poter ribaltare da solo un’intera stagione, anche se ne sembra essere sempre molto convinto.Con un leader tecnico ormai incapace di guidare con l’esempio e il sorriso, un coach che sembra aver tirato i remi in barca e un record che ormai dopo la doppia figuraccia con Charlotte ha toccato l’undicesimo posto (36-39, scivolati dietro OKC nei confronti dei quali erano in svantaggio negli scontri diretti), i Mavericks si sono avviati verso le ultime partite della loro regular season con un nuovo malsano pensiero in testa: proteggere le proprie chance di scegliere in lottery al prossimo Draft. O, in parole più chiare, “tankare” come se non ci fosse un domani. Il ragionamento, fosse Dallas già eliminata matematicamente, potrebbe essere avvilente ma avrebbe comunque alla base una sua logica. Con la prima scelta del Draft 2023 ceduta ai New York Knicks durante la trade per Kristaps Porzingis ma protetta fino alla numero 10, perdere le ultime partite della stagione regolare avrebbe permesso ai Mavs di regalarsi maggiori probabilità di chiudere col decimo peggior record della lega e, quindi, da un lato evitare l’ennesimo regalo a una franchigia che Cuban odia a causa dell’affaire Brunson, dall’altro rimanere in possesso di un prezioso asset con cui provare in un modo o nell’altro a rafforzare un roster che il prode Kidd, a stagione ancora in corso, aveva minacciato sarebbe stato rinnovato radicalmente nella off-season.Il problema è che Dallas qualche chance di giocarsi l’accesso ai play-in ce l’aveva ancora e Doncic, orgoglioso e testardo, non ne voleva sapere di perdere “apposta”, rispondendo a gran voce ai rumor che vorrebbero la chiusura anticipata della sua stagione e di quella di Irving per provare a perdere il più possibile. «Finché c’è una possibilità seppur minima» dirà Luka, «io voglio scendere in campo e provarci».

L’ultimo guizzo dei Mavs, guidati da uno straripante Irving nel finale contro Sacramento.

Kidd e Kyrie sembrano dello stesso avviso, ma le sconfitte con Miami e Atlanta in due altri disgraziati finali di partita rendono ancor più pressante la direzione verso cui la dirigenza vorrebbe spingere la squadra. Il caso politico è dietro l’angolo e, nonostante la vittoria nella terzultima di regular contro Sacramento, ci pensa Mark Cuban stesso a farlo deflagrare definitivamente, inimicandosi forse per la prima volta la giovane star. Contro Chicago nella penultima partita, nonostante Oklahoma City e il decimo posto per qualificarsi ai play-in siano ancora tecnicamente raggiungibili con due successi e una sconfitta dei Thunder nell’ultima contro Memphis, il front office decide che tutto il quintetto base non scenderà in campo, salvo Doncic che proprio a tal riguardo aveva dichiarato «sanno come sono fatto, finché c’è una chance giocherò. Non c’è stata molta discussione a riguardo».Il capolavoro viene servito nella più classica delle mosse “alla Cuban”: se Doncic vuole giocare contro i Bulls bene, allora scenderà in campo solo nel primo quarto e poi si accomoderà per il resto della gara in panchina. Glielo permettono solo perché da mesi questa partita era stata battezzata come la “Slovenian Night” di Dallas, concedendo un ultimo contentino ai poveracci volati da Lubiana per vedere il loro idolo giocare.Doncic ha liquidato la cosa con un «non sono stato felice della decisione, that’s it» ma la scarsa considerazione della sua posizione che il front office ha dimostrato di avere in questo frangente siamo certi se la ricorderà a lungo. Così, con Kyrie già in borghese, Doncic è uscito all’inizio del secondo quarto commettendo un fallo per poter permettere la sostituzione concordata: una mossa che si è vista tante volte a fine anno e che spesso è sfociata in una standing ovation verso la propria stella, un ultimo saluto e ringraziamento che in questo caso non è mai arrivato, sostituita solo da timidi applausi sparsi per l’AAC e un imbarazzante gelo per il resto della partita, perlomeno finita con la tanto bramata sconfitta di due punti dopo essere stati sopra di 13 all’intervallo, facendo ruotare solo sette giocatori nella ripresa tra cui nessun lungo di ruolo per massimizzare le chance di ko.Il calvario di Dallas si è concluso proprio nella Domenica del Triduo Pasquale all’82esimo della partita in casa contro San Antonio, in un festival degli orrori capitanato dalla tripla doppia (!) di culto dell’idolo della panchina Theo Pinson, un primo quarto chiuso dagli Spurs per 42-14 (peggior primo quarto nella storia della franchigia), le prime domande a Doncic su un’eventuale richiesta di cessione nel caso le cose non dovessero migliorare (ha rasserenato tutti dicendo «Sono contento qui, non mi muovo», ma non avrebbe potuto dire nient’altro di diverso) e una bella indagine dell’NBA sul comportamento dei Mavs nelle ultime gare che probabilmente non porterà da nessuna parte, ma di sicuro non crea un bel precedente.Un sipario agghiacciante che chiude in modo coerente gli ultimi due assurdi mesi di stagione 2022-23 dei Dallas Mavericks, capaci di passare dal quarto posto a Ovest al tank più disperato in poche, semplici mosse da professionisti del genere. E per la metafora religiosa, se siamo piuttosto sicuri che la crocifissione sia arrivata, non possiamo essere altrettanto certi sulla futura resurrezione: credere non è mai stato così difficile come di questi tempi, nel nord del Texas e non solo.

Attiva modalità lettura
Attiva modalità lettura