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Simone Conte e Daniele Manusia
Diario Italia: vs Belgio
02 lug 2021
02 lug 2021
Ci prepariamo a una partita tra due squadre divertenti.
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Simone Conte e Daniele Manusia
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Italia e Belgio, intese come nazionali di calcio che si affronteranno venerdì sera per i quarti di finale dell’Europeo, hanno in comune una cosa. Sono due squadre divertenti, che entrano in campo con l’idea di giocare bene, in teoria, che però hanno passato il turno precedente faticando, sudando, soffrendo. Se per l’Italia questa identità offensiva è comunque una cosa recente – una mezza rivoluzione, a dirla tutta, anche se Roberto Mancini l’ha fatta passare come una cosa del tutto naturale, e forse quello era l’unico modo per farla accettare al pubblico e alla stampa –  per il Belgio è parte integrante del fascino della sua «generazione dorata», emersa dalle ceneri di Italia ‘90 e che ha già avuto due Mondiali e un Europeo per fare esperienza. E se l’Italia, quindi, arriva ai quarti di finale con la curiosità e la leggerezza delle avventure che sono solo all’inizio, il Belgio sembra obbligato a vincere qualcosa, preferibilmente subito (senza aspettare il prossimo Mondiale, cioè, che chissà come ci arrivano) per non far ricordare con amarezza questa incredibile, e probabilmente irripetibile, generazione di calciatori.


 

Sono quasi dieci anni che ci si aspetta che il Belgio vinca. Nel Mondiale del 2014 è uscito ai quarti con l’Argentina (1-0, Higuain dopo sette minuti, poi non sono riusciti a costruirsi nessuna chiara occasione da gol lasciando all'Argentina un altro paio di contropiedi micidiali); nel 2016, dopo aver perso contro l’Italia di Conte, è stato eliminato ai quarti dal Galles (dopo l'1-0 di Nainggolan a meno di un quarto d'ora dall'inizio sembrava una passeggiata, e invece hanno perso 3-1, compreso il gol di Robson Kanu con la cruyff-turn al centro dell'area di rigore); nel 2018, con Roberto Martinez già in panchina, hanno perso in semifinale contro la Francia (una partita equilibrata e combattuta), ha battuto di slancio l’Inghilterra conquistandosi la medaglia di bronzo con una performance dominante.


 

Tre anni dopo il loro miglior torneo internazionale, però, la generazione dorata ha perso qualche pezzo – Kompany, Fellaini, Dembelé, Nainggolan –  ed è ormai invecchiata senza riuscire a rinnovarsi, salvo poche eccezioni – Tielemans, o Thorgan Hazard che comunque ha 28 anni; in rosa ci sarebbe il diciannovenne Doku, che però finora ha giocato solo contro la Finlandia. E così, il Belgio è la squadra con l’età media più alta dell’Europeo, e i tre difensori centrali, insieme, fanno più di cento anni.


 

Ed è una squadra fragile: Witsel viene da una lacerazione del tendine d’Achille e non giocava novanta minuti interi dallo scorso dicembre, prima di partire titolare contro Finlandia e Portogallo; Eden Hazard è stato fuori più di cento giorni tra novembre e marzo per infortuni muscolari, ed è uscito con una borsa di ghiaccio sulla coscia dopo la partita con il Portogallo; Kevin De Bruyne, sostituito poco dopo l’inizio del secondo tempo di quello stesso ottavo di finale, e che pare, secondo le ultime indiscrezioni, sarà in campo contro l’Italia, viene comunque da un periodo pieno di infortuni e giusto qualche settimana fa si è fratturato la faccia (e deve ancora recuperare la sensibilità sul lato sinistro, «come quando esci dal dentista», ha detto lui).


 

Non fraintendiamoci: sono tutti giocatori che, se in campo e in condizione di giocare, possono fare la differenza da qui alla fine del torneo. De Bruyne da solo trasforma il Belgio, migliora i compagni intorno a lui e nessun giocatore, da solo, è in grado di legittimare le ambizioni di vittoria finale della sua squadra, almeno non tra i giocatori rimasti in corsa a Euro 2020 (con il passare del tempo mi sembra sempre più assurdo scrivere Euro 2020, dato che non siamo nel 2020, ma mi adeguo alle scelte delle istituzioni); ma senza voler essere per forza di cose scaramantici possiamo dire che abbiamo pescato il Belgio non in un grandissimo periodo.


 

Anche la partita con il Portogallo ha dato segnali contraddittori. È stata vinta centrando la porta con un solo tiro in tutta la gara (quello del gol) e concedendo il possesso all’avversario. «Il mio scopo è divertire il pubblico», ha detto tempo fa Roberto Martinez: «Gli allenatori difensivi cercano di costruire una casa, io voglio essere la persona che la distrugge, quella casa». Ma dopo la partita di domenica scorsa Martinez si è complimentato per la prestazione difensiva dei suoi, dicendo che andrebbe mostrata nelle accademie di tutto il Paese. Un paradosso, per Martinez e per il Belgio, ma non facciamoci illusioni, è con questo tipo di squadra dovremo confrontarci. Non una nobile arrogante e mezza decaduta, piuttosto una magari incerottata, graffiata dai rovi attraverso cui ha strisciato per arrivare dov’è ora, ma anche indurita dalle intemperie e pronta a tutto.


 




 

E noi? Noi abbiamo superato una partita difficilissima e forse abbiamo fatto troppo pochi complimenti all’Austria. Il problema di una cultura sportiva che cerca sempre i colpevoli nelle sconfitte anziché celebrare gli avversari è che poi si finisce con lo sminuire anche le proprie imprese. Adesso ci sembra quasi normale, scontato, aver superato indenni una partita del genere, anzi ripensandoci sarebbe stato meglio se Chiesa avesse segnato cinque minuti prima e ci avesse risparmiato la fatica dei supplementari. Ma non è da tutti tornare in partita dopo essere stati maltrattati per tutto il secondo tempo, da un’Austria che ha giocato una partita quasi perfetta per i mezzi a disposizione e che, anzi, avrebbe potuto osare qualcosina in più (Kalajdzic), un pochino prima.


 

La partita l’ha fatta l’Austria, e noi abbiamo seguito. Il ritmo l’hanno dettato loro: quando hanno voluto portare intensità (nella la prima parte) non siamo riusciti a rallentare, quando poi hanno rallentato (nella seconda parte del primo tempo) non siamo riusciti ad accelerare. E quando poi pensavamo che si sarebbero stancati (nel secondo tempo) ci siamo accorti che eravamo stanchi noi. Abbiamo vinto grazie alla mentalità e alla voglia di squadra, ma soprattutto grazie alla profondità della rosa a disposizione di Mancini. Per cui Pessina, che ha giocato una stagione da trequartista-incursore nell’Atalanta, porta una presenza in area sorprendente per le difese avversarie, settate magari su Barella, che tende a muoversi dalla posizione di mezzala a quella di trequartista. E la capacità di Chiesa di ricavarsi spazio, al lato o alle spalle dell’avversario diretto ma mantenendo intatto il legame magnetico con la porta, è dal modo in cui Berardi si isola o viene a giocare tra le linee. Così come Locatelli è diverso da Verratti, Chiellini da Acerbi e Belotti da Immobile.


 

Sono banalità, e in fondo è dall’inizio che ripetiamo come la paura del “non ci sono grandi individualità” nasconda in realtà la forza di una squadra dove sono davvero tutti, o quasi, dei titolari. Certo, con l’Austria si è visto che l’Italia non è in grado di reggere a ritmi troppo elevati né di vincere duelli individuali troppo fisici, e dovrà stare attenta a non metterla su questo piano con il Belgio, che probabilmente accetterà di giocare delle fasi di difesa a ridosso delle propria area di rigore (soprattutto senza De Bruyne e Hazard in grado di far risalire la squadra) chiudendo gli spazi e fidandosi della capacità dei suoi giocatori di avere la meglio uno contro uno con i loro diretti avversari.


 

Ma il Belgio è anche una squadra a cui è difficile togliere palla quando imposta e l’Italia non può neanche lasciare per troppo tempo il pallone alle sue avversarie, abbassando il baricentro attaccando su un campo troppo lungo. Non è nello stile di Mancini ma soprattutto, come si è visto contro l’Austria, non ce lo possiamo permettere. L’Italia gioca bene in verticale, ma quando recupera palla in alto o quando sale con i difensori oltre fino a centrocampo, altrimenti l’imprecisione e la scarsa lucidità dei nostri giocatori offensivi diventa dannosa anche per il resto della squadra, che si spezza i due e fatica a ritrovare le giuste distanze. E poi va bene che il Portogallo ha concesso pochissimo al Belgio, ma l’Italia in difesa non ha Pepe e Ruben Dias (anzi, ad essere sincero Bonucci e Acerbi mi sono sembrati via via sempre più rigidi col passare dei minuti contro l’Austria, e con Chiellini non è che aumenti il dinamismo). Per questo non dovrà cedere il controllo del pallone e della metà campo offensiva, aggredendo a palla persa e soffocando le loro ripartenze.


 

Facile a dirsi, meno a farsi contro squadre con il livello atletico e l’organizzazione difensiva del Belgio e che davanti ha un giocatore come Lukaku che, in campo aperto, è semplicemente devastante. Questo è la cosa che temo di più, almeno prima di vedere come andranno veramente le cose, il rischio maggiore che potrà correre l’Italia. Ma è un rischio che va corso per cercare la maturità necessaria con cui non solo superare il Belgio ma anche, eventualmente, affrontare la Spagna potendo immaginare di contenderle il possesso del pallone.


 

L’Italia non è una squadra solida in senso assoluto (anche se ha subìto un solo gol e meno xG di tutte le altre squadre, o.53, secondo Statsbomb) semmai la forza della sua fase difensiva sta nell’attenzione e nell’aggressività che sta dimostrando in zone di campo lontane dalla propria area. Non siamo riusciti a vincere imponendo il nostro gioco all’Austria, e ok, l’intensità che hanno portato loro in campo (Laimer, Sabitzer, Baumgartner, Schlager) è stata senza senso, rarissima per una squadra nazionale (a tratti sembrava davvero una squadra di Bundesliga), ma con il Belgio non abbiamo altra possibilità, secondo me. Se facciamo gestire a loro il ritmo, in fase difensiva e in fase offensiva, abbiamo molto da perdere e poco da guadagnare. L'Italia sarà abbastanza matura?


 



Ok un’ultima cosa prima di entrare davvero in clima partita. La scorsa puntata ho iniziato scrivendo della questione “inginocchiarsi sì/inginocchiarsi no”. Ed è una questione che continua a sembrarmi del tutto insignificante da un certo punto di vista, ma anche molto importante da un altro, quanto meno per quello che rivela su di noi. È stata una sensazione bellissima – dopo quel breve momento di imbarazzo in cui non sapevo se l’Austria si sarebbe inginocchiata, e se l’Italia si sarebbe inginocchiata con lei – quando ho sentito svanire quella pressione, appena l'arbitro ha fischiato l'inizio della partita. Tutto questo non c’entra con il campo da calcio, in Europa il "kneeling" è arrivato con scarsissima consapevolezza di cosa rappresenti davvero e persino là dove c'è, questa consapevolezza, c'è una forte resistenza a più livelli (l'Inghilterra viene fischiata dal suo stesso pubblico e Sterling, contro la Germania, si è rialzato quasi subito, come se avesse fretta di passare oltre).


 

Certo sarebbe bello sentir parlare un calciatore con le idee più chiare di quelli che confondono nazismo e razzismo, ma tutto questo non modifica il desiderio di veder giocare l’Italia, né è una questione personale rispetto ai singoli giocatori (non lo sarebbe stata neanche se avessero lasciato libera scelta a ognuno di loro). È chiaro che è il riflesso di qualcosa di più grande di loro. Però, ecco, continua a stupirmi in senso negativo la gestione di un argomento sì sensibile ma tutto sommato non nuovo per nessuno, con cui anzi dovremmo cominciare ad avere familiarità, almeno a livello istituzionale, dirigenziale.


 

Non è chiaro perché la federazione ci abbia tenuto, tramite il suo responsabile della comunicazione, a specificare che ci sono altri modi per combattere il razzismo, ribadendo quanto detto da Chiellini dopo la partita con il Galles. Non è chiaro soprattutto cosa non vada bene in quel modo che è assolutamente pacifico, non violento né ideologico – né dovrebbe essere umiliante per nessuno. Ma, senza provare ad interpretare ragioni che non conosciamo, mi chiedo con che faccia possano guardare negli occhi un italiano non-bianco, venuto da lontano, oppure figlio di persone venute da lontano, o figlio adottivo, che si sente tanto italiano quanto me e Chiellini ma che quella violenza sistemica e quotidiana, contro cui ci si inginocchia, la prova sulla propria pelle ogni giorno.


 

È vero, inginocchiarsi non significa molto, non cambia le cose, ma scegliere di non inginocchiarsi se non per solidarietà nei confronti degli avversari è un controsenso, e dà un brutto messaggio: che di quello che succede nel mondo reale non gliene frega niente. Sotto sotto mi sembra ci sia l’idea – fortissima ancora nella cultura italia – che il razzismo sia una questione personale, di abitudini individuali, e finché ci comportiamo bene (o pensiamo di comportaci bene) non ci riguarda se un poliziotto uccide o picchia una persona innocente per via di qualche pregiudizio, dall'altra parte del mondo come dietro l'angolo. Il che spiega anche perché sentano di doversi inginocchiare se lo fa il Belgio: quello è comportarsi bene, non si manca di rispetto a un avversario.


 

Ovviamente è impossibile essere solidali con un gesto di qualsiasi tipo senza condividerne il significato e prendersi delle responsabilità (Treccani alla voce solidale dice: concorde con altri nel modo di pensare, sentire o agire e pronto a condividerne le responsabilità e gli impegni). In questo modo non solo si svuota di significato il gesto stesso, ma si mostra una terribile ipocrisia. Ben peggiore dell'ipocrisia di chi si inginocchia solo per comodo senza dire niente a nessuno, perché nel dissociarsi senza dire da cosa ci si dissocia, nell’inginocchiarsi perché lo fanno gli altri ma senza riflettere sulle ragioni per cui lo fanno, c’è una vigliaccheria di fondo – c’è differenza tra l’essere furbi e l’essere vigliacchi, anche se conviene – che non può venire dagli undici o dai ventisei giocatori in questione, ma che tira in ballo tutta la cultura italiana di questi anni, una nube tossica che rende irrespirabile l’aria, e si allarga come un fungo nucleare fino a oscurare il nostro amato cielo azzurro.

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