Subito dopo i rigori, a caldo, Roberto Mancini si è avvicinato ai microfoni con l’aria di un’aquila scesa dalla cima di un ghiacciaio. Come sempre sotto controllo, elegante, impossibile da scomporre come un quadro dietro al vetro. Sembrava quasi che non fosse successo niente di eccezionale, pochi minuti prima, che la sua camicia e la sua cravatta non fossero state tirate in tutte le direzioni da cento abbracci, che i suoi capelli non fossero passati attraverso i cicloni delle grida di gioia dei suoi collaboratori, dei suoi giocatori. L’Italia aveva appena battuto la Spagna ai rigori dopo una partita durissima, come possono essere le partite di calcio in cui gli avversari non ti fanno vedere la palla, in cui ti fanno correre in giro per il campo come tanti Jack Russell, e poi, quando la riprendi, non fai neanche in tempo ad alzare la testa e guardare la porta in cui devi attaccare, a settanta metri di distanza, che te la ritolgono subito. Per centoventi minuti, oltretutto. La cerimonia dei rigori, di solito la parte più stressante di una partita di calcio, è stata quella sopportabile e sostenibile della serata tutto sommato, e quando Jorginho ha messo dentro quello decisivo – un rigore appoggiato, accompagnato, non davvero calciato – ci sembrava quasi di saperlo dall’inizio, che tutti quegli sforzi ci avrebbero portato alla finale. E così, Roberto Mancini si avvicina ai microfoni e risponde alle prime domande guardando per aria, ma quando gli dicono che «siamo stati belli, bellissimi tutti l’Europeo» e invece «oggi l’abbiamo vinta “all’italiana”», i suoi lineamenti si irrigidiscono e punta il suo sguardo da rapace dritto negli occhi del suo interlocutore, Alessandro Antinelli. «Le squadre di calcio attaccano e difendono», dice con le palpebre tremanti, «le squadre difendono tutte non solo quelle italiane».
Dopo la partita sono cominciati gli elogi a una nazionale resiliente (Bonucci) o addirittura eroica (tutti gli altri), e in effetti è stata un’altra grandissima prova di serenità, leggerezza e freddezza di una nazionale che, secondo le previsioni della vigilia, si sarebbe sciolta alla prima vera giornata di sole affrontata. Una nazionale che sembra davvero un’emanazione della calma interiore di Mancini, e che è arrivata fino alla finale per ragioni tecniche e tattiche ma anche per gli scherzi di Chiellini con Jordi Alba; per il sorriso di Jorginho dopo che Donnarumma ha parato il rigore di Morata (sapendo quindi che il suo di rigore, quello di Jorginho, sarebbe stato decisivo), e per quel respiro profondo con cui, sempre Jorginho, si isola dal mondo esteriore un secondo prima di calciare l’ultimo rigore con quel saltello da saggio delle elementari, con una facilità vicina al barare, al giocare a morra cinese già sapendo che segno ha tirato il tuo avversario; oppure per l’abbraccio di Chiellini e Locatelli, che dopo l’errore del primo rigore hanno guardato insieme tutta la serie e, alla fine, si sono presi un momento tutto per loro prima di raggiungere i compagni nei festeggiamenti.
È stata una vittoria di gruppo, ma è stata anche una vittoria di una squadra messa sotto, inferiore a quella avversaria, ma che nonostante ciò ha resistito e l’ha portata ai rigori. Ecco credo che a Mancini abbia dato fastidio (forse, non possono esserne certo) che si parlasse di vittoria “all’italiana” (e c’è chi è arrivato a dire che ha giocato meglio la Spagna solo che l’Italia ha giocato un calcio diverso) perché se da una parte non rende merito alla prestazione degli avversari, dall’altra non mette neanche a fuoco il reale valore dell’impresa dei suoi giocatori. L’Italia si è dovuta adattare alla partita che le ha fatto fare la Spagna, lo ha fatto bene, cioè nel migliore dei modi possibili, subendo poco e costruendo comunque qualcosa, ma non era lo scenario ideale che Mancini aveva in mente. Forse c’è stata anche un po’ di sorpresa di fronte all’intensità tenuta dalla Spagna, e al livello tecnico spaventoso di alcuni suoi giocatori, ma sta di fatto che non è così che l’Italia voleva giocare.
Non c’è niente di male a dirlo, non è un’umiliazione ammettere di aver affrontato un avversario superiore. Né è detto che si faccia del bene al calcio italiano elogiando acriticamente una nazionale così giovane e ancora in divenire. Dicevamo che Mancini sta rivoluzionando il calcio italiano facendo finta che sia tutto come al solito, ma anche rifiutare quel tipo di narrazione lì – parafraso: “Abbiamo vinto soffrendo perché quelli sono i nostri valori, quello è il nostro DNA” – mostra una diversità più radicale di Mancini, rispetto al contesto in cui si muove e a cui è sempre stato organico. Chiellini ha raccontato sui canali Uefa che all’inizio Mancini gli ha detto che dovevano mettersi in testa «l’idea di doverlo vincere l’Europeo» e che loro lo prendevano «quasi per matto». E troppo spesso si dimentica che il dibattito su quale sia il gioco “migliore” non è mai interessato agli allenatori, sempre e comunque pragmatici e desiderosi di raggiungere gli obiettivi fissati: se l’Italia gioca un calcio che è anche divertente, brillante, tecnico, offensivo, è perché Mancini pensa che sia il modo per vincere le partite e i tornei. Quando non ci si riesce, certo, si fa di necessità virtù. Che doveva fare l’Italia, uscire dal campo e complimentarsi per la Spagna?
Tutte le squadre si scontrano con i pregi e i limiti propri e delle avversarie che affrontano. L’Italia non ha resistito alla pressione spagnola, al pressing e al gegenpressing con cui ci hanno chiuso vicino alla nostra area di rigore, nonostante uno dei centrocampi più tecnici e organizzati di tutto il torneo. Busquets ha avuto la meglio su Barella, Pedri su Jorginho, Koke su Verratti. Olmo è stato il migliore in campo, l’incarnazione di tutti i vantaggi che può garantire un falso nove. Ma la Spagna aveva già dimostrato difficoltà a finalizzare e anche per questo in difesa non abbiamo sofferto moltissimo. Il contesto della partita lo hanno fatto le qualità delle due squadre al confronto, al limite la diversa cultura calcistica (non ci vuole molto a capire che se la Spagna è stata superiore nel possesso e nella riaggressione è perché sono decenni che ha interiorizzato e lavora su quei principi) non la presunta identità calcistica nazionale.
Adesso l’Italia dovrà affrontare la squadra più fisica di tutto il torneo, che avrà anche affrontato (e battuto bene) una sola avversaria di livello, la Germania, ma ha anche una struttura solida che dà priorità all’equilibrio piuttosto che allo sviluppo offensivo (se volete ampliare la vostra conoscenza della squadra di Southgate potete leggere Dario Saltari o ascoltare Daniele V. Morrone e Alfredo Giacobbe). Una squadra che ci lascerà magari il pallone quando costruiamo ma che aumenterà l’intensità a livello individuale non appena arriviamo al centrocampo, puntando su duelli individuali che possono vincere atleticamente. Ma l’Inghilterra è anche una squadra che costruisce pazientemente con cinque giocatori (la difesa a 3 e i due mediani) e che se non le contesti il possesso addormenta la partita confidando nella capacità di Sterling e Kane (o eventualmente Grealish, Saka, Mount, Foden) di saper sfruttare una delle poche occasioni che si crea nelle partite.
Che tipo di atteggiamento avrà l’Italia di Mancini? Quale sarà il piano e che partita riuscirà a fare? Saremo coraggiosi e in grado di eludere il loro pressing per andare a giocare nella loro metà campo, oppure la loro forza fisica ci terrà lontani e finiremo di nuovo ad attaccare con lunghe transizioni? Dall’Austria in avanti l’Italia non è riuscita a giocare sempre come avrebbe voluto, ha subito gol in tutte e tre le partite giocate e non ha avuto un controllo del pallone paragonabile alle partite del girone. Giocare contro l’Inghilterra, a Wembley (con pochi tifosi anche per il Covid) sarà una sfida mentale oltre che tecnica, ma sarebbe bello se l’Italia non scendesse a compromessi con la sua avversaria. Se riuscisse a imporre il proprio stile anche contro una squadra che nessuno ha messo in difficoltà finora.
Mi rendo conto che è un pretesa ingiusta, oltre che poco realistica. Quella che vedremo sarà, più probabilmente, una partita di compromesso tra quella che vuole giocare l’Italia e quella che vuole giocare l’Inghilterra. Ma quanto sarebbe bello, in mezzo alle polemiche successive al rigore/non rigore di Sterling, e quelle che addirittura anticipano possibili torti arbitrali a nostro sfavore, vedere ancora, di nuovo, una squadra tranquilla e sicura dei propri mezzi e del lavoro fatto fin qui. Oltretutto l’Inghilterra a me sembra evoluta rispetto al 2018, Southgate pur con molta qualità a disposizione ha scelto di tracciare una strada prudente, provando a vincere al solito modo in cui vincono le squadre nazionali, sbagliando il meno possibile. Ma è stato un Europeo noioso per l’Inghilterra e se dovessero perdere la finale le scelte di Southgate si riempirebbero di rimpianti su quello che sarebbe potuto essere e non è stato.
Il percorso dell’Italia è stato emozionante e si è spinto più in là di ogni più rosea previsione. Ha superato Belgio e Spagna, due delle favorite, giocando meglio della prima e resistendo a una grande partita della seconda. Adesso deve rovinare la festa all’Inghilterra, che sembra quei padroni di casa che ti invitano per una serata di poker per spennarti, e per farlo magari potrà ispirarsi alla Grecia, vincitrice contro il Portogallo in Portogallo nel 2004, o al Portogallo del 2016 vincitore in Francia contro la Francia. L’esaltazione di giocare in casa può virare rapidamente verso lo psicodramma, il sostegno può diventare pressione insopportabile.
Questo l’Italia lo sa bene, avendo vissuto per decenni con una pressione eccessiva. Per una volta siamo noi la squadra leggera, con poco o niente da perdere. Possiamo guardare Wembley con lo stesso sguardo con l’ha guardato Gianluca Vialli e continuare a ridere a scherzare, almeno fino al fischio di inizio. E poi vada come vada, in ogni caso per l’Italia è solo l’inizio di un percorso di cambiamento.