La sera di un sabato del 10 aprile 2004 si gioca un interlocutorio Juve-Lazio. È la vigilia di Pasqua e i bianconeri, ormai tagliati fuori dalla lotta per lo scudetto, ospitano i biancocelesti in piena corsa per qualificarsi alla Champions League.
Una gara povera di occasioni, incanalata verso lo 0-0, che conferma la scarsa pericolosità offensiva di quella Juve. Improvvisamente all’88’ Camoranesi raccoglie un traversone di Nedved e, con una finta su Favalli, si ricava lo spazio per crossare. Il pallone attira l’attenzione della telecamera, ma anche di Oddo e Couto, che si perdono Trezeguet: l’attaccante si infila tra i due difensori come un totem e con un’elevazione accentuata dalla staticità degli avversari, buca Sereni frustando di testa sul primo palo. Corre verso Camoranesi mentre alza il braccio e l’indice al cielo della mano sinistra: anche il suo labiale recita “una”, cioè la prima palla gol che ha avuto a disposizione in quella partita. È un gol poco significativo nella storia di Trezeguet, ma che racconta molto del suo calcio. Perché racchiude l’essenza di un attaccante specializzato nel finalizzare l’azione, capace di astrarsi dal gioco anche per lunghi tratti della partita e di colpire quando meno te lo aspetti, soprattutto al volo, condensando potenza, precisione e rapidità di esecuzione.
Una punta lontanissima dai canoni dell’attaccante moderno, ma atipica pure rispetto agli altri centravanti degli anni ’90-2000, che cercavano di indirizzare il confronto con i difensori sul piano fisico e atletico, lavorando spalle alla porta per aiutare la squadra a risalire il campo o sfruttando il proprio corpo per spostare l’avversario e aprirsi lo spazio necessario per saltarlo. Trezeguet restringe il suo gioco nel tempo e nello spazio, negli ultimi metri e in pochi decimi di secondo.
Dire che vive per il gol non è uno slogan retorico, ma una traduzione letterale del suo stile. Banalizzando un dibattito, il giudizio sulla prestazione di un attaccante può essere erroneamente ridotto all’episodio o al gol che (non) ha segnato, ignorando le altre giocate o quelle qualità che ne definiscono il valore. Trezeguet però è uno dei pochissimi giocatori a cui può essere applicato questo tipo di ragionamento con relativa cognizione di causa: perché spesso il suo impatto nei 90 minuti inizia e finisce con la rete che ha siglato, quasi intangibile negli altri momenti. Non gli serviva toccare tanti palloni per rimanere dentro alla partita: 2-3 occasioni da rete gli bastavano per lasciare il segno: come cantavano i suoi tifosi, “quando gioca segna sempre Trezeguet”. Il suo gol una sentenza, sufficiente sempre a giustificare la presenza in campo.
L’arrivo alla Juve
«Io sono uno che finisce il lavoro che fanno gli altri. Più palloni arrivano, più diventa semplice per me» ha raccontato il giocatore acquistato dalla Juve nell’estate del 2000, dopo aver realizzato il golden gol grazie a cui la Francia ha sconfitto l’Italia nella finale degli europei. Arriva dal Monaco a meno di 23 anni in una squadra che viaggia al ritmo e alle invenzioni di Zidane, schierato trequartista in un 3-4-1-2/4-3-1-2 dietro a due attaccanti, inizialmente Del Piero e Inzaghi. Anche quest’ultimo è un finalizzatore puro, con un rapporto quasi patologico con il gol, ma rispetto al numero 17 è una presenza elettrica, che riempie la partita con la sua energia e la sua vivacità nonostante le difficoltà nella gestione della palla.
Al di là del differente temperamento, si tratta di due profili ridondanti, che però giocheranno 8 gare insieme in quel 2000/01, complice il cattivo stato di forma di Del Piero nei primi mesi. Con Ancelotti si assisterà a una prima versione di Trezeguet leggermente diversa rispetto all’idea che si è stratificata negli anni successivi, più propenso ad abbassarsi per muovere la palla e più coinvolto nei movimenti collettivi, grazie a cui liberare il centro per l’inserimento di un compagno. Il francese viene impiegato nelle rotazioni che in attacco, oltre a Del Piero e Inzaghi, coinvolgono pure Kovacevic, chiudendo però quel 2000/01 in crescendo con 15 reti complessive, che convincono la società a cedere Inzaghi e a promuoverlo come titolare fisso.
Il primo gol in Champions League con la maglia bianconera: al ralenti fanno impressione la sospensione in cielo come la forza che imprime al colpo di testa grazie alla torsione del busto, che carica come una molla.
Una scelta che farà le fortune di entrambe le punte e che consacrerà l’ex Monaco come uno degli attaccanti più letali degli anni 2000.
Talento balistico
«Se qualcuno mettesse una benda intorno agli occhi di Trezeguet, gli facesse fare qualche giro su sé stesso e poi gli chiedesse di colpire un pallone crossato in area di rigore, non avrebbe alcun problema a farlo. Magari non lo prenderebbe pieno, non lo spedirebbe sotto l’incrocio, ma farebbe gol». Si apre con queste parole il paragrafo dedicato al francese nell’articolo dedicato ai migliori finalizzatori degli ultimi due decenni. Una descrizione paradossale ma verosimile: il numero 17 si è imposto come uno dei più grandi tiratori al volo nella storia moderna, con qualsiasi parte del corpo. Perché il sinistro, in teoria il suo piede debole, è praticamente allo stesso livello del destro, per non parlare della propria abilità di testa o in acrobazia. Quando calcia è potente ed elegante, come un fulmine che cade in mare in piena notte. I suoi gesti tuttavia rimangono animati da spirito pratico. La spettacolarità sta nel loro minimalismo.
Nel ritorno degli ottavi contro il Real, esegue una rovesciata con la naturalezza di chi sa che è la cosa più logica. Da notare anche il primo movimento con cui si stacca dalla marcatura di Helguera.
Sa tirare in maniera precisa, ma soprattutto potente. A dispetto di tanti attaccanti che hanno costruito la propria carriera sui tocchi di furbizia o quelle conclusioni beffarde, pensate per arrivare all’obiettivo minimizzando i rischi, Trezeguet era specializzato nel calciare con il collo del piede. Singolare per una punta che ha vissuto esclusivamente dentro l’area in spazi congestionati, eppure si contano sulle dita di una mano i gol sporchi, i tocchi morbidi (giusto qualche pallonetto per superare il portiere in uscita) o di misura. Nei suoi tiri è racchiusa una violenza brutale, alle volte persino superflua. Eppure non sembrano esserci alternative nel suo gioco: quando individua un punto sensibile, controlla e colpisce con tutta la forza che ha in corpo, angolando il più possibile (in questa rete al Manchester United ha toccato addirittura i 154 km orari). E senza farsi problemi se doveva alzare la palla, anzi. La potenza diventa semmai la chiave per togliere il tempo agli avversari e raggiungere il risultato. Pure su rigore, dove tuttavia sbaglierà i due più importanti della carriera, quello in finale di Champions League del 2003 e nella finale dei Mondiali del 2006.
Neppure di testa mancano le reti di potenza, ma è in questo fondamentale che si può apprezzare l’abilità nel trovare gli ultimi centimetri dello specchio nonostante degli angoli di tiro ridotti, anche senza la possibilità di colpire la palla piena o magari impattandola mentre si allontana dalla porta.
Gli highlights sono un saggio delle sue doti balistiche.
Oltre alla pulizia tecnica, Trezeguet fa la differenza in queste situazioni dinamiche grazie a una capacità di coordinarsi e di smarcarsi fuori dall’ordinario. La sua propriocezione gli permette di correggere eventuali imprecisioni nei posizionamenti iniziali, come ad esempio il golall’Udinese nel 2003, in cui pare troppo avanzato rispetto alla traiettoria del cross, ma aprendo e ritirando la gamba destra riesce a colpirlo con il piatto e a girarla sotto l’incrocio. È in grado di preparare conclusioni difficili con la rapidità e la facilità di chi è nato per fare esattamente quella cosa, tirare al volo da ogni posizione dell’area, anche in condizioni di equilibrio precario o anche quando deve addomesticare un pallone a campanile.
Riesce a leggere con anticipo le traiettorie del pallone, o comunque a reagire più rapidamente a eventuali carambole, scegliendo il gesto motorio più efficiente per chiudere l’azione. Si esalta nel finalizzare le azioni laterali, dove ama partire sul lato debole e attaccare l’area in diagonale, staccandosi dalla marcatura con un contromovimento che gli consente di sfilare davanti o ancora meglio alle spalle del difensore.
In un Juve-Chelsea del 2009, la punta si prepara a ricevere il cross di Tiago partendo a fianco del terzino destro, il portoghese Bosingwa.
Quando invece attacca la porta frontalmente, esegue il classico “movimento a L” o “a mezzaluna”: prima si allarga, in modo da aumentare la distanza tra sé e il marcatore rimanendo comunque in linea con la difesa, poi si butta in verticale per dettare il passaggio in profondità. Cerca sempre di prendere spazio perché soffre il contatto con l’avversario, nonostante un fisico statuario da 190 centimetri, con le spalle larghe e le leve lunghe. «Sono molto diverso da altre prime punte come Toni, Vieri e lo stesso Inzaghi che vogliono il contatto. Io cerco di evitarlo». Allora il suo obiettivo in area diventa non dare riferimenti proprio per guadagnare quel margine – pure pochi centimetri – vitale per costruire il tiro indisturbato. Ha problemi a giocare con l’uomo vicino come a resistere ai contrasti. Ci sembrerà incredibile, per uno che ha galleggiato una ventina d’anni in una porzione di campo così ristretta e affollata.
Il coccodrillo
«Quando sono arrivato qui mi ha sorpreso il livello. Io mi sono sempre considerato un giocatore più lento», ha spiegatoa Sky Sport, «lavoravo sulla velocità di mente. Guardavo tanti video per trovare qualche vantaggio. A me piaceva lavorare durante gli allenamenti. Poi cercavo sempre di farmi aiutare dai difensori più esperti». In effetti i gol nati da cross, traversoni o calci piazzati superano nettamente quelli in cui aggredisce la profondità. Perché il suo talento viene sublimato vicino alla porta, dove può esprimersi entro i tre tocchi, mentre perde di efficacia in campo lungo, o quando comunque non si trova nelle condizioni di tirare ed è costretto a conservare il possesso per più di 3-4 secondi.
È questa la sua peculiarità: la maestosità del suo gioco acrobatico è direttamente proporzionale alla goffaggine nel gestire le situazioni più statiche. Quando porta palla sembra che corra sulle sabbie mobili e ad ogni tocco sprofondi, rallentando la sua progressione. Trezeguet come un alligatore, lento e impacciato sulla terra ferma, ma leggero e inesorabile quando si immerge in una palude per cacciare e spunta improvvisamente sopra il livello dell’acqua per azzannare la preda. Paradossalmente per il francese è più semplice calciare al volo dai 20 metri che completare un passaggio di 20 metri in allenamento senza avversari: palla a terra è a disagio sia nel portarla che nel calciarla, soprattutto perché ha difficoltà nel colpirla con il collo, la sua parte del piede più sensibile. In quelle circostanze apre il piatto per concludere di prima, se invece deve stopparla opta per un tiro a giro rasoterra sul palo lungo con l’interno collo.
La palla è un attrezzo di cui disfarsi il prima possibile, possibilmente scagliandolo con violenza verso la porta, o in alternativa scaricarla al compagno più vicino. Al di fuori della dimensione realizzativa, Trezeguet non fornisce un contributo continuativo nelle altri fasi del gioco: non sembra possedere gli strumenti per saltare l’avversario e in quelle rare occasioni in cui ha puntato il portiere, ha sempre fintato il tiro, prima di spostarsela sul sinistro e appoggiarla in porta.
Però sa rendersi utile nel gioco a muro, quando si abbassa – rimanendo nella fascia centrale del campo – per velocizzare la circolazione con uno scarico o per tirare fuori posizione un difensore. Non è sempre preciso nelle sponde, specie con l’uomo vicino, ma con giocate a uno o due tocchi è in grado talvolta di creare dei vantaggi posizionali o mandare in porta un compagno, sfruttando ancora una volta rapidità d’esecuzione e visione di gioco.
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Due esempi di sponde dalla semifinale di CL con il Real Madrid del 2003: nella prima scambia con Del Piero, poi con lo scarico per Zambrotta attira un difensore e libera lo spazio per l’inserimento di Nedved.
Del Piero-Trezeguet, name a more iconic duo
Il nome di Trezeguet è unito indissolubilmente a quello di Alessandro Del Piero. Insieme hanno formato una delle coppie più longeve e prolifiche della storia della Juve, ma anche uno degli attacchi più funzionali degli anni 2000. «Ci siamo trovati e ci siamo frequentati anche fuori dal campo – ha raccontato Del Piero durante una diretta Instagram - abbiamo un rapporto fantastico tuttora. Eravamo molto compatibili, avendo caratteristiche molto diverse». Un 10 e un 9 che si completano e che sanno muoversi con sincronia spartendosi gli spazi, malgrado poi combinino relativamente poco tra loro.
Di base perché l’ex Monaco non è un profilo associativo, ma tocca il pallone principalmente per calciare in porta (anche se non mancano le sponde di prima del francese per il compagno, come questo meraviglioso assist con la pianta del piede contro la Reggina nel 2006), inoltre la Juve degli anni 2000, da Lippi a Ranieri, passando per Capello, è una squadra che delega la propria fase offensiva a Camoranesi e Nedved (o Ibrahimovic, nel biennio in cui è rimasto a Torino), che si accentrano (spesso contemporaneamente) con o senza palla alle spalle del centrocampo avversario per sviluppare l’azione. Gli attaccanti occupano l’ultimo quarto di campo per chiudere la manovra, più che alimentarla: Del Piero si apre sul lato sinistro per isolarsi con un difensore e prendere il tiro, o in alternativa chiamare la sovrapposizione di un laterale, mentre Trezeguet detta la profondità o si abbassa per un gioco a muro.
In un Juve-Udinese 0-1 del 2007, le ali vanno a giocare tra le linee, Del Piero si defila e Trezeguet “disegna” una mezzaluna con cui attacca lo spazio alle spalle della difesa friulana.
Una squadra diretta e speculativa, soprattutto con Capello e Ranieri, che concentrava il talento creativo in pochi singoli, figlia del calcio degli anni ’90, che non sapeva organizzare un attacco posizionale più corale e ordinato, in grado comunque di vincere vari campionati grazie al dominio fisico, la tenuta mentale e la capacità di abbassare i ritmi e il baricentro una volta in vantaggio, facendo leva sull’efficacia della fase difensiva.
Trezeguet e Del Piero - che dedicherà una lettera aperta al numero 17 nel 2010 dopo il suo passaggio all’Hercules Alicante - hanno rappresentato per 10 anni una coppia di culto del tifo bianconero, malgrado abbiano giocato insieme dal 1’ soltanto 149 partite, in pratica meno di 15 a stagione. Un numero tutto sommato esiguo, condizionato dalle scelte tecniche (come la titolarità indiscussa di Ibrahimovic tra il 2004 e il 2006 o quella di Inzaghi a scapito di Trezeguet per buona parte del 2000/01, la prima del transalpino in bianconero), ma soprattutto dai numerosi infortuni che hanno colpito "Trezegol" nel corso della sua esperienza: nel 2002/03 salta 27 gare, nell’ottobre del 2004 si opera alla spalla e resta fuori 3 mesi, salvo poi accusare una ricaduta tra marzo e aprile, invece nel 2008 perde 4 mesi a causa dell’intervento al tendine rotuleo.
Del Piero e Trezeguet formeranno effettivamente l’attacco titolare della Juve nella stagione 2001/02, quella dello scudetto strappato all’Inter all’ultima giornata, e nel 2007/08, l’anno del ritorno in A, mettendo assieme 64 partite, il 43% sul totale. Proprio nel 2008 si sfideranno per la classifica cannonieri, vinta da ADP con una rete di vantaggio (21 a 20). I due arrivano all’ultima giornata di campionato appaiati a quota 19 assieme al genoano Borriello. Del Piero, il rigorista designato, segna subito dal dischetto e sale a 20 (nel secondo tempo troverà il 21° centro che gli permetterà di staccare il compagno), poi secondo i telecronisti di Skylascerà calciare il successivo rigore al compagno. Un gesto simbolico, può essere letto come un segnale della stima e dell’affiatamento tra i due, in netto contrasto rispetto al rapporto tra lo stesso Del Piero e Inzaghi, che secondo la stampa si è incrinato negli anni.
In realtà si contano non più di 20-25 gol in cui Trezeguet assiste Pinturicchio, o viceversa, però sono gol spesso decisivi, che hanno fatto la storia recente del club. Reti memorabili per il peso quanto per la cifra stilistica, ma anche perché frutto di giocate inusuali e quindi sorprendenti. Il 5 maggio del 2002 la Juve torna a vincere il campionato dopo 4 anni regolando agevolmente l’Udinese nel giro di 10 minuti: prima Trezeguet di testa segna la rete che gli permetterà di conquistare la classifica dei marcatori ex aequo con Hubner, poi con un improbabile lancio di sinistro di 40 metri manda in porta Del Piero, che segna il definitivo 2-0.
L'anno dopo i bianconeri raggiungono la finale di Champions League grazie al 3-1 nella semifinale di ritorno contro il Real Madrid, vittorioso 2-1 all’andata. Un successo inaugurato da una giocata inconsueta di Del Piero, che si arrampica sul cross di Nedved sovrastando Salgado e di testa porge un pallone docile per Trezeguet, che con una girata al volo, questo sì un suo classico, brucia Casillas sul primo palo. Nel 2005 invece i bianconeri vincono la sfida scudetto in casa del Milan grazie a un’invenzione senza senso di Del Piero, che rimette all’altezza dell’area piccola un cross respinto da Gattuso con una rovesciata apparentemente senza troppe pretese. Un pallone che invece si trasforma in un assist per Trezeguet, il quale di testa anticipa un’uscita maldestra di Dida. Gattuso, Stam e Maldini restano impietriti, quasi accecati dalla bellezza e dall’imprevedibilità della giocata di ADP, difficile da elaborare persino da un videogioco.
Trezeguet che si inchina al suo capitano e lo abbraccia è il manifesto di una storia d’amore lunga un decennio.
Un gesto che al contrario non spiazza il 17, il quale si stacca dalla marcatura di Maldini avvicinandosi all’area piccola ancora prima che il compagno completi l’acrobazia. «In quell’azione ho visto che Ale non cercava di controllare questa palla. L’ho capito subito perché con Alessandro ci conosciamo da tempo, lo so che prova anche queste giocate e ho anticipato Maldini e Dida. Il lavoro è anche questo, conoscere i compagni e capirli».
I due attaccanti non si scambiavano molti palloni (anche perché mediamente non giocavano troppo vicini), ma sapevano capirsi e integrarsi, considerata la diversità e la compatibilità delle loro caratteristiche. Hanno giocato praticamente sempre in un attacco a due (a parte qualche uscita con il 4-3-3 nel periodo con Ranieri): 4-4-2 con Capello e l’allenatore testaccino, 4-3-1-2 gli ultimi due anni con Lippi e nel 2009/10 come punte parallele, che a possesso consolidato prevedeva lo spostamento di Del Piero sul centro-sinistra e l’accentramento di Trezeguet. Con i loro movimenti di coppia erano in grado di incrociare le corse e rompere le marcature, in più Trezeguet sapeva come giocare in funzione di Del Piero, posizionandosi nel cono di luce per suggerirgli uno scarico o ancora meglio un passaggio nello spazio. Giocheranno la loro ultima gara da titolari in un malinconico 2-1 casalingo all’Atalanta datato 28 marzo 2010, annata che la Juve chiuderà mestamente al settimo posto. Un epilogo non all’altezza della loro storia.
Bandiera controversa
Per definire lo status di Trezeguet negli oltre 120 anni di storia di Juve, basti pensare che, oltre a essere lo straniero più longevo nella storia bianconera con i suoi 10 anni di permanenza a Torino, è anche quello con più gol nella storia del club, 171 in 320 presenze. Più di una ogni due partite, una media che si abbassa ulteriormente considerando soltanto le gare da titolare: in A 123 centri in 180 gare e nelle coppe europee 30 in 45 presenze. Per il francese la Juventus rappresenta il passato e il presente, visto che dal novembre del 2018 ricopre il ruolo di brand ambassador. In effetti la sua passione e il suo attaccamento alla “Vecchia Signora” sono sempre sembrati genuini, eppure nel corso della sua carriera non sono mancati i momenti in cui il suo addio è sembrato inevitabile.
Nell’estate del 2004 termina il secondo ciclo di Lippi, sostituito a sorpresa da Capello. Trezeguet alla vigilia di Euro 2004 si sbilancia molto, parlando praticamente con le valigie in mano a causa delle difficoltà nel rinnovare il contratto in scadenza l’anno successivo. «La Juve mi aveva dato la sua parola e non l’ha mantenuta, è una società che non può permettersi questo tipo di atteggiamenti. Ho dimostrato quello che dovevo, ora sta a loro accettare quello che chiedo (...) quello che verrà al mio posto dovrà segnare 20 gol all’anno». Parole forti nel contenuto e nella forma, che fanno ancora più impressione al giorno d’oggi, in cui i giocatori per rompere con la società magari non si presentano al ritiro o lasciano parlare gli agenti, più che esporsi in prima persona nel corso di una trattativa. «La Liga è il campionato che mi attira di più, ma comunque vada sarò io a decidere dopo gli Europei». Alla fine verrà convinto da Capello a non partire e firmare un nuovo accordo.
Due anni dopo la giustizia sportiva condanna alla retrocessione in Serie B i bianconeri, che ripartono dai loro simboli, come Buffon, Del Piero, Nedved, Camoranesi e lo stesso Trezeguet. Il transalpino però ammette di essere rimasto più per costrinzione che per scelta. «Sono rimasto alla Juve perché la società non mi ha dato altra scelta. I dirigenti mi hanno convocato il 10 agosto e non hanno più cambiato idea, sono rimasti fermi sulle loro posizioni. Ecco perché sono rimasto in silenzio, non avevo nulla di particolare da aggiungere». Durante l’ultima partita in B l’ex Monaco, ancora alle prese con il rinnovo contrattuale, alza ulteriormente la posta, mimando dopo aver segnato allo Spezia il gesto di chi viene mandato via.
Piuttosto chiaro.
«Se il mio gesto in campo era un addio? In 7 anni mi sono guadagnato la stima di 14 milioni di tifosi e dei miei compagni. Ma la società è nuova, è cambiata e sento poca fiducia nei miei confronti. Sento che la società ha fatto altre scelte (...) Ora non so cosa accadrà, parto per le vacanza e se la società vuole può chiamare mio padre Jorge. Non ci sono più margini di trattativa con la società: se mi avessero detto che non mi volevano più sarebbe stato meglio, piuttosto di offrirmi un contratto ridicolo. Forse qualcuno ha avuto dubbi sulle mie capacità: ma io sono leale e ho dimostrato il mio attaccamento alla maglia in campo».
Come nel 2004, il numero 17 fa sponda sulla stampa per provare a forzare la mano con la dirigenza e condizionare l’opinione pubblica. Identico pure l’artificio retorico: fare leva sulle sue prestazioni e sulla sua fedeltà alla causa, intaccata da una dirigenza che non ne riconosce il valore, e che quindi lo mette nelle condizioni di partire. Si parla di un interessamento del Valencia, ma a fine giugno firma il prolungamento fino al 2011.
Anche l’estate successiva si rincorrono le voci su un suo possibile trasferimento, stavolta più per volontà del club, tentato dall’ultima opportunità di monetizzare la cessione di un over-30. Nell’agosto del 2009 il giocatore rompe gli indugi dichiarando che a fine campionato si sarebbe chiusa la sua avventura alla Juve. In realtà durante l’anno il suo procuratore aveva fatto capire quanto fosse difficile per David “lasciare la casa madre”, anche se nell’estate del 2010 effettivamente rescinderà il contratto per andare in Liga, al neopromosso Hercules Alicante. A seguire una parentesi negli Emirati Arabi e il ritorno in Argentina, per riportare il River Plate nella massima serie, prima di passare al Newell’s Old Boys e terminare la propria carriera a 37 anni in India con la maglia del Pune City.
L’epilogo non ridimensiona la storia di un attaccante che ha segnato tanto, ma soprattutto ha segnato gol decisivi. Certo, nel calcio moderno in cui “tutti devono saper fare tutto", dal portiere al centravanti, avrebbe avuto probabilmente più difficoltà a imporsi, ma David Trezeguet è pur sempre figlio del suo tempo. Un giocatore unico con un talento specifico, che ha saputo spremere fino all’ultima goccia in un contesto a lui favorevole. E grazie a cui si è ritagliato un posto nella storia della Juventus.