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L'urlo di Inzaghi
27 mar 2020
27 mar 2020
Nessuno esultava come Superpippo.
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Nessuno sport ha qualcosa di paragonabile al gol: non un canestro, non una meta, non un matchpoint vinto. È ciò che rende speciale uno sport a basso punteggio, in cui un gol arriva a rompere l’enorme telo di tensione, spesso di noia, steso sulla partita. Un gol è gioia, ma è anche sollievo da questa tensione, un distillato di pura felicità. È così per tutti, ma è stato un po’ di più e molto altro per una persona in particolare: Filippo Inzaghi detto “Pippo”.

 

Il rapporto tra Inzaghi e il gol non ha niente di normale, e questo rapporto è ciò che è alla base del suo paradosso. Di un calciatore da molti giudicato semplicemente scarso, una pippa - secondo Crujff non sarebbe riuscito a dribblare neanche una sedia - ma che ci mette di fronte il dato oggettivo dei suoi 316 gol segnati, e di un numero enorme di trofei vinti.

 

Inzaghi è uno di quegli attaccanti di cui si dice “vive per il gol”, ma usare questa espressione in relazione a lui mi sembra falso e riduttivo. O forse Inzaghi è l’unico calciatore per cui andrebbe usata, perché è l’unico per cui questa espressione non ha nessuna figuratività: è quasi letteralmente vera. Inzaghi giocava solo in funzione del gol e non sarebbe esistito come calciatore d’alto livello senza il gol. Questo lo sappiamo. Ma solo lui ha portato questi aspetti al loro massimalismo. Nel suo gioco non c’era nessuna fase interlocutoria, nessuna pausa, nessuna complessità. Solo il pensiero unico, fisso, soverchiante, di un gol da segnare.

 

A dirla tutta nel gioco di Filippo Inzaghi non c’era nessun piacere. Per lui il gol era una condanna, il suo gioco era tutto teso a quell’unico momento di estasi che non era di gioia ma di sollievo. Il piacere di un compito assolto e quindi non un piacere autentico e completo. Un piacere effimero nel senso che svaniva un secondo dopo averlo provato. Era anche il sollievo intenso di essere scampati per un attimo alla vastità del tempo senza segnare. Quando la palla tornava al centro Inzaghi tornava a pensare al suo unico pensiero fisso, il prossimo gol: «Il mio gol più bello? Il prossimo». Per questo Daniele Manusia lo paragonava a Sisifo

.

 

 



 

 

Il mito di Sisifo, nonostante sia stato reso celebre da un filosofo come Camus come un concetto ampio sull’assurdità dell’esistenza umana, è innanzitutto una punizione divina.  E il rapporto tra Inzaghi e il gol in effetti può sembrare una punizione. Il gol come un Dio oscuro e particolarmente esigente e Inzaghi un suo umile servitore, costretto partita dopo partita a ingenti sacrifici per soddisfarlo. Può suonare esagerato, ma insomma: guardate Inzaghi giocare e poi ditemi chi vi sembra l’esagerato.

 

Inzaghi non si muove neanche come gli altri calciatori, c’è qualcosa di malato nella sua corsa, in quel modo febbrile di muoversi in profondità dietro le difese alla ricerca spasmodica di un’occasione per segnare. Senza palla era a suo agio, mentre quando gli capitava tra i piedi sembrava avere fretta di liberarsene. Il rapporto tra calciatori e palla viene spesso inquadrato nella cornice del piacere e del desiderio, con sfumature persino erotiche. Nel rapporto di Inzaghi invece non c’è dolcezza: portava palla in modo brutale, come un oggetto estraneo e al contempo amatissimo. Un oggetto con cui deve, suo malgrado, scendere a patti perché l’unico in grado di dargli l’estasi del gol: un momento che per nessuno come per Inzaghi è sembrato svincolato da tutto il resto di una partita di calcio.

 

Per capire Filippo Inzaghi forse più che i suoi gol, che descrivono un talento sfuggente agli occhi con cui giudichiamo i calciatori, bisogna guardare le sue esultanze, al modo in cui veniva posseduto da una forza estranea subito dopo che la palla accarezzava la rete. Nei primi secondi dell’esultanza la testa di Inzaghi si incassava sul collo mentre le braccia si alzavano a indicare enfaticamente le due meno dieci. Sembrava un grosso uccello meccanico.

 

 



 

 

Dopo il gol Inzaghi era in preda a un invasamento mistico. Spesso al termine della corsa guardava i tifosi, cercando magari di rispecchiarsi nella gioia di un altro essere umano. Prima, però, era il caos: ingobbito, con la bocca spalancata, gli occhi cavi. Le sue esultanze si somigliano tutte, sto provando a descriverle da diverse righe ma sento di non riuscirci. Diciamo che Inzaghi dopo il gol non era più una persona ma un corpo che si contorceva nel tentativo di liberarsi da un’energia aliena.

 

 



 

 

Su internet i tributi che gli vengono dedicati hanno titoli oscuri, macabri - come “Filippo Inzaghi -

" - perché in effetti Inzaghi sembrava in contatto con il lato più oscuro della nostra passione calcistica. Guardando i video dei suoi gol, magari accompagnati dalla voce rotta, stridula e inumana di Pellegatti, il calcio non è mai sembrato così estraneo alla gioia, all’allegria, alla leggerezza, alla sensualità. Insomma a quella componente creativa, giocosa, persino artistica che appartiene soprattutto alla cultura calcistica sudamericana. Inzaghi invece restituisce un’idea perfettamente seria del calcio. In questo riusciva ad assorbire e a restituire il modo in cui noi italiani lo viviamo: la nostra esagerazione, la nostra isteria, la nostra intensità malata. La frase di Winston Churchill «Gli italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come fossero guerre».

 

 



 

 

Nelle sue esultanze Inzaghi si trasfigurava come i corpi storti dei quadri di Egon Schiele, che esprimevano le nevrosi della Vienna di inizio novecento. È normale quindi che quando Inzaghi ha parlato delle sue esultanze - troppo poco purtroppo - lo abbia fatto con un filo di imbarazzo. Parlando del suo primo gol in un’intervista a Walter Veltroni, per esempio, ha detto subito: «Ricordo un’esultanza incredibile, quasi imbarazzante».

 

 



 

 

Per Inzaghi, lo sappiamo, non c’era differenza fra un gol segnato in finale di Champions League o uno in amichevole. Guardate quest’esultanza in cui corre verso l’angolo agitando le braccia come Anna Magnani in Roma città aperta: è un trascurabile Italia-Resto del Mondo, un’amichevole che il ct Zoff aveva definito “Un regalo di natale per gli italiani”. Mentre Zidane, Ronaldo e Batistuta passeggiavano per il campo provando colpi di tacco barocchi, Inzaghi pensava solo a segnare, come a una questione di vita o di morte.

 

 



 

 

Questa assoluta indifferenza alla diversità di peso dei gol ha creato anche qualche problema a Inzaghi. In un Milan-Torino del 2006 finito 6-0 ha segnato una tripletta. Il terzo gol è arrivato a una manciata di minuti dalla fine, sul risultato già sul 5-0. Il Torino era una squadra in crisi, un cadavere su cui a fine partita Inzaghi ha ballato la sua danza macabra: un’esultanza ancora più enfatica delle precedenti, di quelle che lo fanno somigliare a una persona che chiede aiuto. È chiaro come non ci fosse malizia o cattiveria nell’esultanza di Inzaghi, è proprio che non poteva fare altrimenti. Però Lucarelli l’ha presa come una mancanza di rispetto in quel momento: «Se passano ancora la metà campo gli spezzo le gambe».

 

 



 

 

Quella tra Inzaghi e il gol era una forma di dipendenza. Non si è dipendenti solo dalle sostanze: possiamo diventare dipendenti dai videogiochi, dal sesso e persino dalle relazioni umane. Una dipendenza è in fondo una ricerca di piacere che diventa patologica. Inzaghi per tutta la carriera ha inseguito quel piacere intensissimo, quel rilascio di dopamina, di un gol. Per tutta la carriera ha cercato di far diventare naturale un evento nel calcio piuttosto raro. Al piacere del gol Inzaghi ha consacrato l’esistenza, per una vita lo stesso menù: «pasta in bianco con un pizzico di sugo rosso e bresaola a pranzo, pasta in bianco con un pizzico di sugo rosso e bresaola a cena»

Pirlo, per far diventare il suo corpo una macchina efficentissima. Ma Inzaghi non era Cristiano Ronaldo ed era disposto a piegare la sua dieta alla scaramanzia e ai quadri astrali. Mangiava plasmon a ogni ora del giorno, e a fine giornata ne lasciava due nella confezione: «In questo modo la congiuntura astrale sta dalla mia parte». In questo senso Inzaghi è l’unica persona che ha intravisto una correlazione fra il piano divino e i biscotti.

 

 



 

 

Noi scherziamo ma è vero che molti suoi gol sembravano arrivati per caso, come se riuscisse ad avere il pieno controllo della dimensione aleatoria del calcio. In questo senso uno dei gol più illustri, e anche più rappresentativi, della presenza di Filippo Inzaghi detto “Pippo” su un campo da calcio è quello arrivato nella finale di Champions League ad Atene. Prima di quella partita non aveva dormito per dieci notti, poi ha deviato col sedere un calcio di punizione di Pirlo. Dichiarerà che si trattava di uno schema (e in effetti ne avevano già segnato un altro di gol così): «Pirlo calcia, io mi sposto perché so dove andrà la sua palla. Magari do fastidio al portiere, magari la tocco e lo spiazzo». Ad ogni modo, l’esultanza successiva è clamorosa. Corre, fa un salto olimpico sopra i fotografi, rotola per terra come Rambo in Vietnam e a braccia larghe si prostra al settore che frana ai suoi piedi.

 

 



 

 

Un mio amico che ha conosciuto Inzaghi per questioni di lavoro mi ha raccontato che a casa ha una stanza dedicata alla sua videoteca personale: dentro tutte le sue partite, e tutti i suoi gol. Li ha filmati pazientemente il padre e ora lui li custodisce in questo piccolo mausoleo dedicato alla sua più grande passione.

 

 



 

 

Tra le foto delle esultanze di Inzaghi, una piccola galleria espressionista, ce n’è una che preferisco. È uno scatto che immortala il momento dopo in cui Inzaghi ha segnato il suo ultimo gol nella sua ultima partita, con una girata al volo bella ed efficace contro il Novara. Inzaghi ha 39 anni, le rughe attorno alla bocca e qualche capello bianco; somiglia più alla sua versione da allenatore che a quella da calciatore. Nella foto i suoi occhi sono piccoli e intensi, hanno qualcosa di doloroso, sembrano quelli di un uomo che non è davvero lì in quel momento.

 


Inzaghi dopo l'ultimo gol della sua carriera, al Novara (Foto di ALBERTO LINGRIA/AFP via Getty Images)


 

Oggi le esultanze di Inzaghi ci sembrano naif, persino comiche nella loro esagerazione. Oggi che i calciatori fanno danze elaboratissime, o

, come a voler trasmettere il dominio calmo con cui vedono il loro gioco da fuori. Inzaghi era il contrario di tutto questo: nel momento in cui sentiva di aver eseguito quello per cui era venuto al mondo era un uomo che amava perdere il controllo, e quell’orgasmo - per quanto da fuori ci possa sembrare quello di un pazzo - era una delle poche cose davvero universali del calcio.

 

 

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