
Nella notte tra il 22 e il 23 novembre, nelle semifinali playoff della Eastern Conference di MLS, Lionel Messi ha segnato un gol e fornito tre assist quasi passeggiando sulle macerie di Cincinnati (la partita finirà 0-4). Al netto dell’ironia, si è tornata ad appalesare la rutina del extraordinario. Mio figlio Giulio, con il quale stavo vedendo la partita, ha fatto in tempo a sottolineare, con quelle sopracciglia inarcate che mette quando è stupito: «Oh Pà, di testa!». Poi si è addormentato, non ha visto i tre assist dispensati come caramelle a chi si è comportato bene.
Poche ore prima Livia, l’altra mia figlia, mi aveva mostrato un TikTok sbalordita: «Pà, guarda che gol ha fatto Cristiano Ronaldo». Il video era questo:
Al 97’ di una partita in cui l’Al Nassr era già sul 3-1, Ronaldo ha deciso di suggellare il successo una rovesciata. Pur nella sua tonitruanza – in fondo una rovesciata è sempre una rovesciata, e non è che Ronaldo ne abbia segnate così tante, in carriera, a memoria quattro inclusa questa – ho faticato a trovare dei significati edificanti in quel gol.
Nel 2019 66thand2nd ha pubblicato un mio libro su Cristiano Ronaldo, nel quale tra le altre cose mi concentravo sull’estetica della rovesciata inscenata a Torino contro la Juventus, nel momento in cui era epitome del sovradimensionamento inarrestabile della sua figura: quella rovesciata era davvero la saetta scagliata da Giove per mettere al loro posto mortali, semidèi e colleghi dell’Olimpo. Ma questa contro l’Al Khalej? Cosa sarebbe?
Come ha scritto Damiano Primativo nella newsletter che cura per Ultimo Uomo, "Fuori Casa": "Può essere bello il gol di un professionista (comincia a essere strano chiamare CR7 'essere umano') che ha asciugato tutto ciò che in lui era stile, e quindi imperfetto e mortale, per farsi automa privo di anima, macchina stampante in 3D di gol?". Io credo che la significatività di questo gol, stricto sensu ma soprattutto nella nostra percezione di Cristiano Ronaldo — e forse anche un po’ nella maniera in cui lui vuole indirizzarla — vada cercata altrove.
Lionel Messi e Cristiano Ronaldo irrompono nella nostra vita di fruitori di immagini sportive sempre come epifanie, ma da qualche tempo con meno impatto emotivo: li osserviamo, scuotiamo la testa per l’incredibilità degli obiettivi che masticano di anno in anno (Messi è a quota 922 gol, quest’anno ne ha segnati 43 in tutte le competizioni; Cristiano Ronaldo a 954, di cui 104 da quando è in Arabia Saudita), però forse abbiamo smesso di interessarci a loro. Cosa ha cominciato a renderceli strani, o almeno diversi? Il fatto che si siano accasati in campionati periferici? Le motivazioni alla base delle loro scelte di vita? Qual è il momento in cui hanno compiuto la loro metamorfosi? E quale quello in cui la metamorfosi si è realizzata nelle nostre teste?
Messi ha scelto la MLS dopo aver vinto il Mondiale in Qatar. Poteva permettersi il lusso di sfogliare la margherita delle infinite possibilità, ha preso una decisione a suo modo coerente: al netto del sacco di soldi che avrebbe guadagnato comunque ha puntato il dito sulla Florida, uno dei posti con più argentini fuori dall’Argentina al mondo, dove la federazione argentina ha impiantato il suo primo centro federale fuori dai confini nazionali, dove ha messo su una specie di club dell’asado portando a vestire la maglia rosa dell’Inter di Miami Rodrigo de Paul, sulla panchina Javier Mascherano, tutt’attorno figuranti che hanno al posto del minimo comun denominatore il Sol de Mayo. Insomma, Messi lì ha una sua coerenza.
Ronaldo, invece, è come il contadino che ha scatenato le forze della natura, grandine cavallette inondazioni, per poi decidere di espiantare tutto, spostarsi due ettari più in là e ricominciare tutto da capo.
Ce la ricordiamo un po’ tutti, l’intervista concessa nel 2022 a Piers Morgan — al quale va riconosciuto il merito di materializzarsi quando Ronaldo ha qualcosa di importante da annunciare al mondo (o magari è proprio Ronaldo che sceglie Morgan per il ruolo di megafono). In quella chiacchierata, in cui si era definito «fragola appetitosa», Ronaldo aveva demolito Erik ten Hag e per estensione il Manchester United, che pure lo aveva accolto come figliol prodigo in un ritorno zuccheroso che era sembrato, nell’estate di Messi che sceglie i dollari degli sceicchi del PSG, addirittura un controbilanciamento romantico, un incredibile sovvertimento dei ruoli e delle parti. Aveva detto che di ten Hag non aveva rispetto. Le interviste con Piers Morgan, forse, per Ronaldo, sono una specie di regolamento di conti per interposta persona.
In ogni caso, un paio di settimane fa Ronaldo è tornato a parlare con il giornalista inglese. Aveva dei sassolini da togliersi dalle scarpe, può darsi, ma forse è più l’avvicinarsi della fine della carriera, per quanto possa dispiacergli inesorabilmente vicina, a convincerlo a parlare, a spiegarsi, a cercare di influenzare la nostra percezione della sua figura, e chissà, di chi lo circonda. Nell’intervista si è parlato molto di soldi: al momento in cui si è tenuta quella chiacchierata CR7 era diventato da poco il primo calciatore con un patrimonio da più di un miliardo di dollari (secondo il Bloomberg Billionaires Index), e a tal proposito ha detto: «Non sono ossessionato dai soldi, ma quando raggiungi un certo livello, quello in cui i soldi non contano, è comunque bene averne sempre di più».
Ha detto di aver comprato un aereo privato «perché non sono una persona normale, non posso andare negli aeroporti», di non sapere quante macchine possiede («non voglio fare l’umile, è un dato di fatto»). Al termine dell’enumerazione contabile della sua vita (gol, soldi, non fa tanta differenza) si è inevitabilmente scivolati verso un discorso più intimo, affrontando l’elefante nella stanza, la più grande domanda che forse grava sulla sua testa: ma una volta smesso con il pallone, che farà Cristiano Ronaldo? In quel momento il portoghese ha cominciato a parlare del mondo che lo circonda. E il mondo che lo circonda è un mondo che ti porta a schierarti. E dalla maniera in cui ti schieri, c’è da esserne certi, dipenderà come la gente percepirà te e la tua eredità.
Che Cristiano Ronaldo sia il perno copernicano attorno al quale gira la SPL, cioè il campionato saudita, non è un mistero per nessuno, né lo è che lo stesso campionato sia uno dei veicoli con i quali il Regno Saudita ha rivendicato il proprio posto nello scacchiere geopolitico mondiale, con le relative accuse di sportwashing e softpower derivate. Non è perciò troppo strano sentirgli definire Mohamed Bin Salman «il nostro boss» (nostro precisamente di chi?). Più sorprendente, piuttosto, è stato vederlo scivolare, nel discorso, dalle parti di Donald Trump. Dapprima scherzando (a un certo punto ha detto a PIers «penso che nessuno sia più famoso di me al mondo»; poi con un occhiolino ha continuato «vediamo, chi è più famoso: io o Donald Trump?»).
L’assist a Morgan l’ha fornito un fatto capitato lo scorso giugno, quando al summit del G7 in Canada il Presidente del Consiglio Europeo, António Costa, ha consegnato a Trump una maglia di Ronaldo, appunto, sulla quale il calciatore aveva scritto una dedica: «President Donald J. Trump, playing for peace».
«È uno di quelli che sta provando a cambiare il mondo», ha detto Ronaldo, che nella frase originale, in inglese, chiama però Trump "a guy", con quell’aria cameratesca da compagni di spogliatoio, da pari. «È il mio obiettivo principale incontrarlo e parlare con lui della pace», ha aggiunto Ronaldo «Spero di confrontarmi con lui un giorno perché è una di quelle persone che mi piace davvero, fa succedere cose, e io rispetto le persone come lui». Nel caso in cui ci fosse riuscito, ha continuato, gli avrebbe anche detto «cosa abbiamo in comune».
Qualche settimana più tardi, Cristiano Ronaldo sorrideva alle fotocamere all’interno della Casa Bianca.
La tempestività con cui si sono realizzati i desideri di Cristiano Ronaldo non suona per niente sospetta. Evidentemente già sapeva che sarebbe stato negli Stati Uniti: i Mondiali dell’anno prossimo, la visita di stato di Mohamad Bin Salman, più di un presupposto rendeva la sua presenza plausibile. Allora che ha fatto: ha scelto Morgan per creare una specie di materasso di coerenza? Oppure per dimostrare che quando sei Cristiano Ronaldo, ogni sogno, ogni desiderio, è solo a un passo dalla realizzazione?
Cristiano Ronaldo mancava dagli Stati Uniti da più di dieci anni: nel 2014 aveva giocato un’amichevole con il Real Madrid contro il Manchester United, poi c’era stato lo scandalo legato alle accuse di violenza sessuale di Kathryn Mayorga, il processo, il ritiro delle accuse. Dieci anni, per un brand come il suo, sono un sacco di tempo: quanti soldi ha perso, Cristiano Ronaldo, per non aver messo piede sul suolo americano per tutto questo tempo? Forse ha immaginato che ora sia tempo di sfruttare gli ultimi scampoli di carriera, col volano coadiuvante del Mondiale, per monetizzare? C’è da immaginare che sia (anche) per questo che lo vediamo così sorridente mentre passeggia per il giardino della Casa Bianca, con quel look total black da ninja a rapporto dall’Imperatore, mentre tiene tra le mani una chiave, quando cena in smoking e si fa i selfie con Elon Musk, con Infantino, con il mondo che conta.
Ma a noi, quelle immagini, cosa trasmettono? Che messaggio ci danno, su Cristiano Ronaldo?
I miei figli, ma per estensione ci metterei anche mia madre, mio padre e i vicini che la mattina cantano a squarciagola le canzoni di Renato Zero, sanno chi è Donald Trump, forse anche bin Salman. Magari, però, non ne hanno un’opinione precisa. Cristiano Ronaldo, invece, lo conoscono e sì, probabilmente ne hanno una percezione definita. Quanto quella dell’uno finisce per ripercuotersi su quella degli altri?
Donald Trump lo conosce bene, il potere ammaliante del calcio. Sa che l’organizzazione di questa Coppa del Mondo - che cade nel duecentocinquantesimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza - è uno dei puntelli con i quali cementificare la sua presidenza. Non il principale, beninteso, ma uno dei più importanti. Durante l’incontro con Cristiano Ronaldo ha tirato in mezzo Barron, suo figlio, grande appassionato di calcio, ha detto: «Credo che adesso, per il solo fatto di averglielo fatto incontrare, rispetti un po’ di più suo padre». Ha di fatto portato il discorso sul campo della legittimazione, che da familiare diventa ecumenica.
L’impressione che ho avuto io è che in quelle foto si sia cristallizzato un processo ben chiaro. Il Cristiano Ronaldo che abbiamo visto piangere, disperarsi per un rigore sbagliato soltanto un anno fa, che ci rimane male, che dopotutto ha dei sentimenti, è come se ora giacesse da una parte, crisalide diventata inutile, e che da quella crisalide – come un mogwai a cui abbiamo inavvertitamente dato da mangiare dopo mezzanotte, o che abbiamo bagnato per sbaglio – sia uscita fuori questa nuova versione di Cristiano Ronaldo, più gremlin, più spietata, più bramosa di Potere.
Intendiamoci: in quello stesso ufficio sono passati, sono stati ritratti, anche i giocatori della Juventus, giusto qualche mese fa. Però ecco: al di là delle espressioni facciali, della postura, del linguaggio del corpo, nessuno di loro aveva espresso il desiderio di esserci. Cristiano Ronaldo, invece, sì.
Il contesto è quello, si è detto, della visita di stato di Mohamed Bin Salman negli Stati Uniti. Una visita che si è fatta attendere quasi quanto quella di Ronaldo, dal momento che bin Salman non calpestava il suolo americano dal 2018, cioè dall’omicidio del giornalista del Washington Post, Jamal Khashoggi. Trump, come spesso gli capita di fare, ha semplicemente passato un colpo di spugna e ripulito l’immagine del principe ereditario: «Non ne sapeva niente», ha tagliato corto rispondendo ai giornalisti che aveva tirato in ballo la questione, e subito dopo ha annunciato investimenti da parte dell’Arabia Saudita negli Stati Uniti per un importo di mille miliardi di dollari, soldi destinati allo «sviluppo del calcio globale». Accordo che, come ha scritto Valerio Moggia nella sua newsletter "The beautiful shame”: "oltre a rinsaldare i rapporti tra Zurigo e Riad permetterà da un lato a Infantino di distribuire altri fondi alle federazioni nazionali, e quindi di aumentare la propria rete clientelare, e dall'altro ai sauditi di aumentare la propria influenza non solo nel calcio, ma pure in altre zone del mondo".
Sembra implausibile che Cristiano Ronaldo sia stato una specie di facilitatore dell’incontro, ma è piuttosto evidente che abbia beneficiato di una serie di condizioni favorevoli. Sembrava davvero a suo agio in quel contesto, Cristiano Ronaldo come un regnante (Il Sovrano del Calcio?), Trump come un campione, con il suo soprannome già pronto, 45/47. Due GOAT.
Allo stesso tempo fa riflettere la parabola di Ronaldo, che sembra uscita dritta dritta da una favola di Perrault: il popolano che si vergogna del suo accento, figlio di un padre ubriacone e assente, che si trova spaesato nel trasferimento da Madeira a Lisbona, e che allora decide di usare le sue abilità, la sua furbizia, per diventare il Marchese di Carabas, sposare la principessa, diventare Re, potersi permettere di parlare da pari grado al Principe Ereditario dell’Arabia Saudita e al Presidente degli Stati Uniti d’America.
C’è da chiedersi che ruolo avesse in testa, cucito su di lui, Cristiano? In quei frangenti ha visto in faccia il suo futuro? Chi glielo fa fare, dopo la carriera che ha condotto, di cercare ancora più fama, ancora più potere? Si stava rendendo conto dei riverberi che emanava? Sorridente, perfetto, bello: ha mai pensato che magari era solo questo, quello che gli si chiedeva? Di trasmettere credibilità, come un fluido positivista, a chi gli stava vicino?
Aaron Ettinger, professore alla Carleton University di Ottawa, specializzato in relazioni internazionali, ha detto una frase forse tranciante, però illuminante: «Non era lì per dare la sua opinione. Era lì per essere Cristiano Ronaldo». Un punto di vista diffuso, secondo il quale Ronaldo non è stato che il pony da esposizione portato al guinzaglio da bin Salman, il più eloquente strumento di soft power, il feticcio attraverso il quale chiunque fosse seduto in quella sala ha cercato, e forse trovato, una briciola di legittimazione.
CR7 si è mescolato con il potere politico in una maniera in cui probabilmente, nella storia del calcio, solo Diego Armando Maradona aveva saputo fare. Diego, nel corso della sua vita, ha sposato cause che ha sentito molto vicine: il comunismo castrista, il bolivarismo di Chavez e Evo Morales, il terzomondismo che lo ha portato a salire sul Tren del Alba che vent’anni fa precisi protestava contro la presenza ingombrante degli Stati Uniti nella gestione politica ed economica dell’America Latina. Maradona, schierandosi così apertamente, all’epoca si era guadagnato un bel po’ di inimicizie.
Sul Maradona politico c'è anche una puntata di Trame, il nostro podcast di sport e geopolitica.
Cristiano Ronaldo, invece, ha ottenuto una specie di benedizione. E anche un salvacondotto. Ancora più potere, come se non gli bastasse essere uno degli esseri umani più seguiti, amati, anche odiati se vogliamo, influenti del mondo. Da ogni foto che ritrae Ronaldo con Trump, che guarda Trump, nello stesso spazio di Trump, sembra gridare ora non può succederti più niente: gli Stati Uniti, da spazio vietato, possono diventare terra di conquista. Letteralmente, in termini economici, e metaforicamente, nel calcio. Cristiano Ronaldo potrebbe essere per Trump – e saremmo ingenui o in malafede se pensassimo che non ci abbia pensato – quello che Messi è stato per Al Thani. E Ronaldo, dalla sua, può essere per Trump lo strumento di propagazione mediatica più potente per arrivare a un target trasversale (che è anche quello dei ragazzini che vanno dai padri per mostrargli dei TikTok). Per sussurrare all’orecchio di quel target se è mio amico, come puoi considerarlo tuo nemico?
Poche ore dopo la pubblicazione della foto con Cristiano Ronaldo e Georgina, in fondo, il post Instagram dell’account della Casa Bianca ha raggiunto i sette milioni di like. La media dei pollici alzati della pagina si aggira sui 30-50mila. Picchi di duecentomila o poco più.
Ovvio che si tratti di un filo sottilissimo sul quale Cristiano Ronaldo passeggia come Philippe Petit sulla corda d’acciaio tesa tra le sommità delle Torri Gemelle. L’immortalità, semplicemente, non esiste, come non esiste l’onnipotenza. Certo, se c’è una cosa che Trump e Cristiano Ronaldo sembrano avere in comune (magari il portoghese gliel’avrà fatto notare, quando sono rimasti soli) è proprio la loro naturale predisposizione a negare questi assunti. Diventare la persona più famosa e influente al mondo. Essere amato universalmente. Sono obiettivi tanto dell’uno quanto dell’altro, con la sola differenza che Cristiano Ronaldo, forse non se ne è accorto, o forse sì e gli piace, per raggiungere questi traguardi si è trasformato nel volto più rappresentativo dei Potenti-Che-Hanno-Bisogno-Di-Una-Ripulita.
Ma poi: è un meccanismo davvero fruttuoso, in termini di reputazione? E se sì, chi ne beneficia di più: Cristiano Ronaldo o il Trump? Magari non ne beneficia nessuno, se non noi, che vedendolo in quelle pose innaturali, di plastica, abbiamo avuto la migliore istantanea possibile di come funziona il mondo oggi. E cioè di come politica e sport siano interlacciate ben più di quanto ci piaccia pensare che non siano. Di come la ricchezza e il potere di influenza possano essere tanto una macchina di consenso quanto un giogo, una condanna, una trappola in cui volenti o nolenti si finisce per cadere.
Per essere chiari, non è che Lionel Messi sia esente da questa dinamica che mescola gloria sportiva, visibilità e movimentazione di volumi economici pari al PIL di un Paese africano. A fine ottobre, dopo aver firmato un’estensione di contratto con Miami fino al 2028, si è presentato – poche ore dopo Trump – all’America Business Forum, un evento che convoglia le principali figure del mondo del business ma che è anche una celebrazione del tutbocapitalismo caro a una certa estrema destra libertaria.
In questa edizione, per la prima volta, al forum erano presenti anche sportivi: Serena Williams, Rafa Nadal, appunto Leo Messi. Anche se l’intervento di Messi è stato più un’intervista su come sia bello vivere in Florida e su quanto si trovi bene in America, oltre che sui suoi business (una bevanda energetica, una catena di hotel, ristoranti) la presenza di gente con i cappelli con le scritte Make America Great Again ma anche Make Argentina Great Again era piuttosto eloquente del mood politico della convention, e la partecipazione di Messi (secondo Milei l’unico sinistro buono al mondo) ha se non legittimato almeno lasciato pensare che possa essere plausibile un abbinamento del suo nome a quel mondo. «Il lato affaristico delle cose mi interessa», ha detto Messi, «voglio imparare, perché la verità è che non ne so molto», ha chiosato imbarazzato, prima di parlare in termini molto chiari, invece, perché di questo ne sa, della carriera che sta lentamente finendo.
Cristiano Ronaldo di fine carriera preferisce non parlare: intanto tornerà negli Stati Uniti a marzo, quando il suo Portogallo affronterà, in un’amichevole che profuma di accordo governativo, gli Stati Uniti, e cercherà di scalzare Messi dal podio più alto del calciatore più conosciuto degli Stati Uniti, probabilmente. E poi a quarantun anni suonati, chi lo sa, magari cercherà di togliere a Dino Zoff il titolo di giocatore più anziano ad aver vinto un Mondiale.
Intanto ruba con gli occhi e con le orecchie, ascoltando Trump che parla di Roosvelt, del re Abulaziz padre di bin Salman, dei bombardamenti all’Iran con i suoi «bellissimi bombardieri B-2», cercando di capire cosa voglia diventare da grande. Sa di non appartenere a questo mondo? Oppure se ne sente già parte? Quando dice «voglio essere parte in causa nell’organizzazione dei Mondiali in Arabia Saudita» sa che non sta parlando solo di potenziali ricadute turistiche? Sa che la persona con cui si è fatto fotografare è la stessa che qualche giorno più tardi, quando ha ospitato Mamdani, il nuovo sindaco di New York (un altro che conosce il valore politico del calcio), ha detto «puoi chiamarmi fascista, non mi dà fastidio»?
Se parliamo in termini immaginifici, cosa è più eloquente di questa nuova onnipotenza di Cristiano Ronaldo: la rovesciata con l’Al Khalej o il video AI in cui palleggia con Donald Trump?
Può non piacerci, ma questo è il mondo che ci è stato dato in sorte di vivere. Un posto in cui Cristiano Ronaldo è stato scelto – esplicitamente come mai prima, e come nessun altro sportivo – come simbolo del Nuovo Ordine Mondiale. O meglio, di quello che vorrebbe presentarsi come tale.
Che gli piaccia oppure no, che ne sia consapevole oppure no.