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Dario Saltari
Come il Napoli è migliorato senza snaturarsi
21 ott 2022
21 ott 2022
Il grande inizio di stagione è merito di una squadra rinnovata negli uomini ma non nel gioco.
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Dario Saltari
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Francesco Pecoraro/Getty Images
(foto) Francesco Pecoraro/Getty Images
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Nel calcio il tempo scorre così velocemente che a volte può succedere che le cose tornino esattamente nel punto da cui erano partite dopo essere cambiate del tutto. Quasi esattamente un anno fa, proprio qui su L'Ultimo Uomo, scrivevo delle ragioni del grande inizio del Napoli. Dopo un’estate cupa, dove anche il più ottimista dei tifosi sembrava aver perso ogni speranza, la squadra di Spalletti aveva vinto le prime otto partite di campionato e contro ogni aspettativa si candidava a vincere lo scudetto. Vi ricorda qualcosa?

Doveva essere l’ultima danza del nucleo della leggendaria squadra di Maurizio Sarri, è finita nel modo più grigio possibile. O almeno, così pensavamo fino a questa estate. Sicuramente lo ricorderete: prima l’eliminazione dall’Europa League per mano del Barcellona, poi la sconfitta nel decisivo scontro diretto contro il Milan al Maradona, infine le surreali partite contro Fiorentina ed Empoli, entrambe perse per 3-2, al Castellani addirittura dopo essere stati in vantaggio per 0-2 fino all’80esimo. Il Napoli ha concluso la stagione terzo in campionato ma il finale era stato talmente amaro che sembrava aver confermato tutti i pregiudizi che c’erano a inizio stagione. Quella azzurra era una squadra arrivata a fine ciclo, da rifondare da zero, e anche il suo allenatore era ormai la controfigura stanca e grigia dell’innovatore che aveva attraversato la Serie A nel quindicennio precedente. A metà maggio, davanti al Maradona, è comparso un grosso striscione che citava un furto capitato a Spalletti qualche tempo prima: “Spalletti la Panda te la restituiamo, basta che te ne vai”.

Come detto, da quelle otto illusorie vittorie di fila è passato poco più di un anno, e rieccoci un’altra volta a cercare le ragioni di un avvio di stagione ancora più scoppiettante. Questa volta le vittorie consecutive in campionato sono sei, ma in mezzo c'è stata anche una partenza in Champions League che per una squadra italiana non si vedeva da anni. Se la scorsa stagione il Napoli aveva pareggiato la partita inaugurale in Europa League contro il Leicester, e poi perso in maniera incomprensibile quella successiva contro lo Spartak Mosca in casa, quest’anno ha vinto tutte le prime quattro sfide di Champions League, rifilando quattro gol al Liverpool e addirittura dieci all’Ajax nel doppio confronto ravvicinato. Questo da solo dovrebbe rassicurare i tifosi che questa volta le cose andranno diversamente, se non fosse che anche quest’anno il Napoli è chiamato alla prova maturità definitiva all’Olimpico, contro la Roma di Mourinho, quasi lo stesso identico giorno (era il 24 ottobre la scorsa stagione, in questa è il 23). Quella volta la squadra di Spalletti si scontrò contro il blocco basso di quella di Mourinho dando il primo segno di impotenza.

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Un momento che, come sempre con Spalletti, si è subito sublimato in meme.

Come sappiamo, però, tra questi due momenti quasi perfettamente sovrapponibili è cambiato tutto, a partire dal Napoli stesso. La squadra partenopea ha perso anche le ultime architravi della rosa che aveva fatto le fortune di Maurizio Sarri (Insigne svincolato e fuggito in Canada, Koulibaly venduto al Chelsea, Mertens dirottato in Turchia dopo la fine del contratto, Ghoulam uscito dalla porta di servizio, con l’aggiunta delle cessioni di Fabian Ruiz al PSG e Ospina all’Al-Nassr, entrambi giocatori su cui il Napoli sembrava poter ricostruire) e l’ha sostituito con una serie di scommesse che si sono immediatamente rivelate all’altezza di questa gravosa eredità. Credo non ci sia nemmeno bisogno riepilogare il grande inizio di Raspadori, Minjae, Anguissa (arrivato l’anno scorso ma riscattato definitivamente quest’anno) e ovviamente Kvaratskhelia, mi basterà citare un passo del pezzo che gli abbiamo dedicato per celebrare la vittoria del premio AIC di giocatore d’agosto, valido ancora oggi, anzi forse ancora più oggi, che da quel momento è passato più di un mese e molte partite. “Luciano Spalletti ha detto che ci vorrà un po’ per colmare il vuoto di carisma e personalità lasciato dai giocatori che hanno lasciato Napoli, ma se c’è un giocatore che da solo sembra in grado di rilanciare le ambizioni di una squadra che lo scorso anno si è fatta sfuggire la possibilità di vincere lo Scudetto per poco, quasi senza accorgersene, è proprio il georgiano”.

Ancora più del Napoli come rosa, a un anno di distanza sembra essere cambiata però la percezione intorno a Luciano Spalletti. I tic linguistici, le espressioni allucinate in panchina, i pregiudizi sulle sue squadre, che sanno vivere all’interno di una stessa stagione, a volte addirittura all’interno di una stessa partita, alti e bassi ugualmente vertiginosi: tutto dell’immagine consunta di uno Spalletti ormai quasi caricatura di se stesso sembrava scolpito nella pietra. E invece, più clamoroso persino del fatto che un attaccante georgiano cresciuto in Russia potesse sfondare la Serie A con una manciata di partite, Spalletti è tornato a essere il tecnico rivoluzionario che sconvolse il calcio italiano partendo da Empoli, dove un quarto di secolo fa i tifosi della squadra gigliata appendevano striscioni con scritto: Zeman più Sacchi uguale Spalletti.

Sulla stampa italiana e anche estera, sia quella specializzata sia su quella mainstream, abbondano i pezzi che rivalutano la figura di Spalletti (e noi non facciamo eccezione). Il Corriere della Sera, ad esempio, ha scritto che Spalletti è stato “spesso sottovalutato, magari anche perché poco attratto dai salotti buoni” (chissà cosa significa). La BBC gli ha dedicato un lungo pezzo che nel titolo lo definisce underrated genius in cui viene citata tra le altre l’opinione dell’influente scrittore sportivo catalano Guillem Balague, secondo cui «ciò che abbiamo visto contro il Liverpool era una squadra che giocava secondo un’unica idea». Una frase che sembra riflettere quella ovviamente più rapsodica rilasciata qualche giorno fa da Walter Sabatini, secondo cui il Napoli «si esprime come fosse in ipnosi». Nel frattempo i video delle sue interviste post-partita spopolano sui social per i loro contenuti rivoluzionari. In quello che forse ha avuto più successo Spalletti annuncia la morte del calcio delle linee, dice che quello che conta non sono gli spazi tra i reparti ma quelli tra i corpi, ritorna su un concetto a lui carissimo, e cioè che «di spazio ce n’è sempre dietro la linea difensiva [avversaria, nda]».

Tra il Napoli farraginoso e confuso visto alla fine della scorsa stagione e quello organico ed esplosivo dell’inizio di questa c’è stata un’estate calda in cui tra i tifosi azzurri si è parlato molto di una fantomatica rivoluzione tattica, che poi in campo si è tradotto nel passaggio dal 4-2-3-1 al 4-3-3. Un dibattito che, insieme ai risultati che poi sono arrivati, ha rafforzato l’impressione di uno Spalletti demiurgo, finalmente artefice di una squadra precisa come un orologio, in cui tutti si muovono a memoria. In realtà, come aveva già intuito Alfredo Giacobbe nella sua guida di inizio anno, il passaggio al 4-2-3-1 al 4-3-3 non comporta stravolgimenti strutturali e il Napoli adotta gli stessi principi tattici che già aveva lo scorsa stagione. Quella di Spalletti rimane una squadra che si fonda sul possesso palla come strumento per variare il ritmo della partita e per togliere ossigeno agli avversari (è seconda per possesso palla medio, dietro la Fiorentina, e prima per accuratezza di passaggi), che adotta un approccio misto in fase di pressing, a volte alto con riferimenti sull’uomo a volte più conservativo nel tentativo di schermare le linee di passaggio (cosa che si riflette in statistiche in merito contrastanti: il Napoli è primo per recuperi palla offensivi, ma solo quattordicesimo per PPDA), che in fase offensiva cerca di sorprendere l’avversario attaccando il leggendario lato cieco con le corse in profondità degli attaccanti ma anche con gli inserimenti in area dei centrocampisti.

Ma se nulla è cambiato, allora com’è possibile che il Napoli sembri una squadra nuova? La risposta più banale a questa domanda è anche quella che più si avvicina al cuore della realtà: è cambiato il Napoli, o meglio, i giocatori che ne fanno parte sul campo. Per raccontare il cambiamento del Napoli, quindi, il modo migliore è parlare dei suoi giocatori, nuovi o rinnovati che siano. In questa prima parte di stagione inevitabilmente gran parte dell’attenzione mediatica è stata assorbita dall’incredibile impatto di Kvicha Kvarastskhelia, e indubbiamente la sua elettricità da sola ha rigenerato una squadra che sembrava essere totalmente sfibrata dal lento e malinconico addio del suo capitano, ma forse il giocatore che meglio racconta l’evoluzione del Napoli è Giacomo Raspadori. L’utilizzo sempre più costante e convinto dell’attaccante ex Sassuolo al centro dell’attacco è infatti la chiave di volta del “nuovo” gioco di Spalletti. Raspadori ha infatti caratteristiche opposte rispetto a Osimhen: è un attaccante senza qualità atletiche eccezionali ma molto associativo, con un ottimo primo controllo, che preferisce venire incontro sulla trequarti per dialogare con i compagni rispetto a scappare in profondità già dal centrocampo. Il suo ingresso nelle rotazioni ha da solo cambiato il modo in cui il Napoli prova a sorprendere l’avversario rispetto allo scorso anno, quando la squadra di Spalletti faceva molto affidamento ai lanci (spesso anche di prima) di Insigne dall’esterno sinistro e di Fabian Ruiz direttamente dalla mediana. L’obiettivo di quei lanci erano le corse in profondità tra i due centrali di Osimhen, forse il giocatore più vorace in assoluto nell’andare a vedere cosa c’è dietro la linea difensiva avversaria.

Il gioco di Raspadori permette al Napoli di salire sul campo in maniera meno diretta e di attaccare l’area avversaria in modo più ordinato, dopo aver preso completamente il controllo della trequarti avversaria. La presenza di Raspadori sulla trequarti si riflette nell’affermazione sulla mediana di Stanislav Lobotka, un regista a sua volta poco a suo agio nel gioco lungo e che sembra annegare nel campo quando il Napoli si allunga. Lobotka è un maestro nel saper resistere alla pressione utilizzando le finte di corpo e nel ruotare il triangolo di centrocampo a seconda delle situazioni, dialogando nello stretto con i compagni (è primo in Serie A per accuratezza di passaggio: 93.7%). Il suo talento e quello di Raspadori si incastrano come due pezzi del Lego. Appoggiandosi sul loro asse, il Napoli può muoversi per il campo in maniera più organica rimanendo compatto anche attaccando a decine di metri di distanza dalla propria porta. Questo ha anche effetti difensivi diretti: la squadra di Spalletti è più corta e attacca strappando meno il gioco con i lanci lunghi, e questo gli permette di recuperare il pallone appena perso con più facilità. In altre parole, è meno vulnerabile alle transizioni offensive avversarie.

Da questo punto di vista, forse la notizia più sorprendente di questa stagione del Napoli è che sia diventato una squadra ancora più spettacolare offensivamente nonostante, come detto, attacchi in maniera più ordinata e quindi teoricamente più prevedibile. Com’è possibile? Si potrebbe tornare un’altra volta sul nome di Kvicha Kvarastskhelia, il giocatore che più sta andando oltre le aspettative in Serie A anche in termini statistici (ha segnato ben 2.6 gol in più rispetto agli Expected Goals avuti a disposizione), ma va citata anche la crescita esponenziale avuta in questa prima parte di stagione da Piotr Zielinski. Del centrocampista polacco si aspetta da anni la definitiva affermazione e ora che sembra finalmente arrivata quasi nessuno sembra accorgersene. Zielinski al momento è terzo per Expected Assist in Serie A per 90 minuti, dietro a Paulo Dybala e Matteo Politano (un altro dei giocatori la cui crescita sta passando sotto traccia in questa stagione), ma questa statistica difficilmente riesce a tradurre il contributo offensivo che sta dando alla sua squadra. Zielinski sembra maturato nel sapere quando e come alternare le molte sfaccettature del suo gioco, e al momento sembra un enigma irrisolvibile per gli avversari, tra inserimenti in area, assist geniali e dribbling in conduzione.

Forse il momento che meglio riassume il suo momento di grazia è il primo gol della seconda goleada contro l’Ajax, al Maradona. Un’azione cominciata da una sua ricezione a centrocampo in cui ha mandato a vuoto il tentativo di pressione avversario alle spalle con un tocco di tacco con cui si è fatto passare il pallone dietro il piede d’appoggio e conclusa con un assist visionario di prima a chiudere un triangolo con Lozano. Quanti altri centrocampisti ci sono in Europa in grado di fare così tante diverse, tutte cose così bene?

L’imprevedibilità del Napoli passa anche da altri giocatori e fattori. Dal momento di grazia di Anguissa, un altro che sembra stia giocando con le ali ai piedi, al fatto che la squadra di Spalletti pur partendo da situazioni di attacco posizionale, sovraccarica l’area non solo con gli inserimenti delle mezzali ma anche con le sovrapposizioni, interne o esterne, dei terzini. Da questo punto di vista quello che si sta mettendo più in luce è Giovanni Di Lorenzo, come si vede alla fine di questa bella azione non trasformata in gol contro il Bologna in cui, accompagnando l’azione, finisce fin dentro l’area di rigore come se fosse un'ala.

Un altro fattore che sta contribuendo al successo offensivo del Napoli è la possibilità di far entrare dalla panchina giocatori che cambiano i suoi connotati a partita in corso, rendendo ancora più difficile per gli avversari adattarsi. Lo si è visto per esempio contro l’Ajax, al Maradona, in cui l’ingresso nel secondo tempo di un giocatore velocissimo come Osimhen ha mandato in tilt le misure mentali di Blindt, che ha perso un pallone apparentemente facile in prima costruzione propiziando il 4-2. Oppure contro il Milan, che è stato sorpreso dai movimenti in area di Simeone, perdendo lo scontro diretto per la vetta della classifica. Come ha fatto notare Opta, in questa stagione il Napoli ha segnato sette gol con giocatori subentrati, più di qualsiasi altra squadra nei cinque principali campionati europei. E ancora una volta si è dato risalto alle parole del rivalutato Spalletti, secondo cui «è un calcio vecchio quello della riserva e del titolare» e che ha coniato il termine «titolari del secondo tempo».

Che il Napoli sia cambiato molto più negli uomini che nei principi lo si vede anche dal fatto che ha mantenuto alcuni dei suoi vecchi difetti. Quella di Spalletti rimane una squadra non perfetta in fase di transizione difensiva, che quindi nonostante i miglioramenti col pallone può sbilanciarsi facilmente, e il cui approccio misto in fase di pressing può portare a situazioni di eccessiva passività. Quando il Napoli prova a difendersi in maniera posizionale, infatti, fa spesso fatica a schermare i mezzi spazi con le due mezzali, e la situazione è aggravata dal fatto che i centrali sembrano istruiti a mantenere rigidamente la linea a difesa dell’area di rigore, senza possibilità di uscire aggressivamente sull’uomo. Lo si è visto ad esempio nel gol del pareggio del Milan, nato proprio da una difesa posizionale talmente pigra da lasciare ben due giocatori liberi alle spalle del centrocampo (Brahim Diaz e De Kaletaere).

Il prosieguo del Napoli su questi ritmi dipenderà quindi in primo luogo dalla crescita dei giocatori in ambiti diversi da quelli delle creazione e della trasformazione delle occasioni da gol. Per esempio dalle capacità di leggere lo spazio in fase difensiva di Lobotka, il più in difficoltà quando il Napoli difende nella propria metà campo, ma anche di Minjae che, nonostante le ottime prestazioni in fase di costruzione e in uno contro uno, sembra confuso quando c’è da accorciare la linea difensiva in avanti e contemporaneamente farla scalare in orizzontale. Un altro tema, forse l’unico di cui si sta già parlando con toni critici a Napoli nonostante la grande partenza, saranno le prestazioni di Meret in porta. Per adesso i suoi numeri sono tutt’altro che eccezionali (il Napoli ha subito leggermente più gol di quanti ce ne aspettasse sulla base dei post-shot Expected Goals) ma nulla impedisce che possa migliorare in maniera inaspettata anche nell’immediato futuro. Alla fine è ciò che è già successo a molti giocatori di posizione con Spalletti in panchina: da Rrahmani a Lobotka, fino ad arrivare a Juan Jesus e Politano. Che i giocatori migliorino lavorando con Spalletti è qualcosa che gli viene riconosciuto anche prima di questa stagione. Pochi giorni fa, ad esempio, ha parlato Philippe Mexes, secondo cui «senza di lui non avrei mai fatto la carriera che poi sono riuscito a fare».

Dire come andrà a finire per il Napoli - se la storia si ripeterà inesorabile come la scorsa stagione o se questa volta ci sarà un finale inaspettato - è ovviamente impossibile, tanto più quest’anno che c’è un Mondiale di mezzo. Per adesso ciò che si può dire, e di questo si dovrebbe davvero dare atto a Spalletti, è che nonostante sia completamente cambiato nei suoi uomini chiave il Napoli è rimasto sostanzialmente la stessa squadra. E anche se può sembrare una cosa da poco, in realtà non c’è nulla che dica di più del lavoro di un allenatore.

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