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Buddy Hield, meglio tardi che mai
29 mar 2019
29 mar 2019
Storia di un late-bloomer che ha trovato la sua consacrazione nei Sacramento Kings
(articolo)
13 min
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Il nome della malattia potrebbe essere “sindrome da March Madness”. I sintomi, riscontrabili tra addetti ai lavori e tifosi, consistono di norma in una rapida e inesorabile sospensione della razionalità, seguita dal profondo innamoramento per un giocatore che, un po’ a sorpresa, ha saputo alzare il livello delle prestazioni in coincidenza con il culmine della stagione del college basketball.

Nel caso dei tifosi, i rischi della sindrome sono contenuti e possono condurre a delusioni postume e conseguenti prese in giro tra amici; ma per quanto riguarda gli addetti ai lavori, le ricadute rischiano di essere devastanti. Per chi si siede nella stanza dei bottoni che governa una franchigia NBA, presentarsi alle soglie del Draft anche solo con gli strascichi dell’innamoramento può portare a commettere atti sconsiderati, scelte di cui pentirsi già dopo pochi mesi.

Difficile stabilire se il caso di Buddy Hield e dei New Orleans Pelicans possa essere ascritto alla sindrome, ma è probabile che fino alla scorsa stagione sarebbe stato inserito tra le sintomatologie più recenti. Insignito del premio di miglior giocatore dell’annata NCAA 2015-16, dopo aver trascinato Oklahoma alle Final Four la guardia originaria delle Bahamas scala il Draft e viene scelto alla sesta posizione da Dell Demps. L’idea, per i Pelicans, è quella di portarsi in casa un giocatore pronto a dare da subito un contributo concreto, necessità che la franchigia perpetua da quattro stagioni, ovvero da quando Anthony Davis è sbarcato in Louisiana.

Hield, che i Mock Draft più accreditati avevano dato per mesi come possibile scelta sul fondo del primo giro, si contraddistingue dal resto dei migliori prospetti per una caratteristica innanzitutto: l’età. Quando sale sul palco del Barclays Center per stringere la mano ad Adam Silver, l’ex-Sooner ha già 23 anni compiuti. L’impressione è che si tratti del classico late-bloomer, talento sbocciato con inusuale ritardo, ma proprio per questo maturo al punto giusto per non soffrire il passaggio verso il professionismo.

Going to California

L’avventura ai Pelicans, contrariamente alle premesse, dura poco. La guardia finisce nella trade che alla vigilia dell’All-Star Game porta DeMarcus Cousins a New Orleans. I mesi trascorsi in Louisiana hanno prodotto segnali contraddittori e il rendimento complessivo è risultato al di sotto delle aspettative. All’interno di un quadro allo stesso tempo fumoso e deludente, una cosa appare chiara da subito: Hield, per rendere al meglio, necessita di poter giostrare in un sistema di gioco definito, con meccanismi oliati e un’identità tecnica definita. I Pelicans, all’eterna ricerca dell’incastro giusto attorno a Davis, non rappresentano quindi il trampolino di lancio ideale.

Il problema, per lui, è che la sua nuova destinazione rappresenta un ulteriore salto nel buio. In quanto a disfunzionalità, infatti, a Sacramento possono vantare un’esperienza seconda a nessuno. Non bastasse, quella in cui atterra è una versione completamente stravolta dei Kings, alla ricerca di una nuova identità dopo l’addio di quello che, nel bene o nel male, è stato il giocatore franchigia per le ultime sette stagioni. La squadra, inoltre, non va ai playoff dal 2006 e in questo lasso di tempo ha cambiato otto allenatori.

Anche a livello di proprietà non è che le cose vadano meglio, tutt’altro. Vivek Ranadivé, vulcanico imprenditore indiano che ha acquistato i Kings nel 2013, non trova di meglio da fare che paragonare il nuovo arrivo nientemeno che a Steph Curry, una delle sue fissazioni. Il front office in mano a Vlade Divac, poi, non fa altro che aumentare il grado di confusione relativo alla direzione che la squadra dovrebbe prendere. La gestione del mercato è schizofrenica, contraddittoria, a tratti totalmente priva di senso - solo che si tratta dei Sacramento Kings e nessuno ci fa davvero caso.

Il trattamento riservato a Hield, al termine della sua prima stagione intera in California costellata di buone prestazioni in uscita dalla panchina, non si discosta da questo canovaccio. Nell’estate del 2018 Divac firma Zach LaVine, guardia talentuosa ma fin lì inespressa, concedendogli un ricco quadriennale da 78 milioni di dollari. LaVine, però, è restricted free agent e i Chicago Bulls, squadra in cui ha militato nell’ultimo anno, si avvalgono del diritto di pareggiare l’offerta. L’ex-UCLA resta quindi in Illinois e per Buddy si aprono le porte del quintetto base, complice anche l’infortunio di Bogdan Bogdanovic.

Certo, la decisione di puntare su LaVine non suona come un grande attestato di stima nei suoi confronti, ma a Buddy non sembra importare. La mossa di mercato poi abortita, anzi, rappresenta un ulteriore stimolo.

I 13.5 punti a partita, partendo dalla panchina e tirando con il 41.3% da tre, che non avevano convinto Vlade Divac

I nuovi Kings

Contro ogni previsione Sacramento si trasforma nel posto giusto al momento giusto. Joerger, al netto delle divergenze con il front office relativamente alla strategia adottata al Draft, ha finalmente potuto voltare pagina e dare una forma definita alla squadra. Con le chiavi della squadra in mano a De’Aaron Fox, i Kings giocano ora una pallacanestro molto più proficua rispetto alle abitudini recenti della casa: spesso efficace e sempre, davvero sempre divertente. In quel tipo di contesto, ideale per le sue caratteristiche, l’apporto di Hield risulta a dir poco decisivo.

Le statistiche personali sono, per distacco, le migliori della sua carriera in NBA. In poco più di 31 minuti di media la guardia dei Kings ha fin qui racimolato 20.8 punti, 5.2 rimbalzi e 2.5 assist a partita, tirando con il 45.6% dal campo e il 43.1% da tre (ottavo dato in tutta l’NBA, ma dietro solo a Steph Curry tra quelli con almeno 400 triple tentate).

Come detto, Buddy è un giocatore di sistema e non a caso il 65.5% dei suoi canestri risulta frutto di assist di un compagno, dato che arriva ad un più che eloquente 86.7% se applicato alle triple, ovvero la specialità della casa. In particolare, il rapporto con Fox (il 34.7% dei passaggi effettuati da Hield sono scambi con la sua point guard) è maturato, diventando un abbinamento pressoché perfetto dal punto di vista tattico e attitudinale.

Fox per Hield, Buddy per De’Aaron: la dieta base dell’attacco targato Sacramento 2018/19.

Il nuovo sistema run and gun dei Kings, passati da 95.6 a 104.2 possessi nel giro di una stagione (vicinissimi al primo posto degli Atlanta Hawks), gli calza a pennello perché correre e tirare sono le cose che sa fare meglio. Grazie a un passato da podista sulle medie distanze, Hield ha gambe e passo che gli permettono di accelerare verso la metà campo avversaria con impressionante naturalezza e continuità. La guardia di Sacramento percorre 2.7 miglia percorse a partita, terzo miglior dato della lega, e lo fa con una velocità media di 4.71 miglia all’ora - primo tra i giocatori qualificati.

Una volta sistematosi nei pressi del perimetro, poi, l’ex Oklahoma può sfoggiare un arsenale di tiro di assoluto livello: eccellente nel catch and shoot, che rappresenta quasi un terzo delle sue conclusioni e che realizza con il 45.7%, Buddy è tiratore di striscia con incrollabile fiducia nei propri mezzi. «Può sbagliarne quattro o cinque consecutivi e prenderne un sesto senza esitazione, per poi magari segnarne sette in fila», dice il suo attuale allenatore Dave Joerger.

Otto triple segnate, record in carriera, che non sono bastate per battere i campioni in carica.

Quanto a selezione di tiro e capacità di prendersi la responsabilità nei momenti decisivi, invece, Buddy ha ancora molta strada da percorrere anche solo per avvicinarsi all’idolo dichiarato Kobe Bryant, che ha deciso di ossequiare con il numero di maglia sin dai tempi di Sunrise Christian Accademy.

Tutto il meglio e il peggio di Buddy Hield in 18 secondi, sempre contro gli Warriors.

In difesa l’applicazione non manca, anzi, ma i vuoti da colmare appaiono ancora enormi. A riprova dell’infondatezza relativa alla teoria secondo cui, in fondo, per diventare buoni difensori la forza di volontà basta e avanza, c’è il suo rating difensivo di 108.0. Un dato su cui dovrà lavorare con attenzione e che potrebbe rappresentare un elemento dirimente per il suo futuro in NBA. Tuttavia, quando riesce a resistere alla tentazione di correre da un lato all’altro del campo sui cambi come se fuggisse da un edificio in fiamme, Hield si rivela difensore efficace che può tenere anche contro avversari dalla taglia fisica superiore alla sua.

L’estate scorsa, Buddy si è allenato con un altro ex Oklahoma, Blake Griffin, praticando lunghi uno contro uno. E anche ai Kings, in palestra, la guardia ama prendersi cura dei compagni più alti e robusti. Questa sua flessibilità ha concesso ai Kings di insistere sull’assetto tattico a tre guardie con Bogdanovic ad agire tra Hield e Fox, esperimento che ha pagato buoni dividendi soprattutto in termini di passo e volume di gioco (110.2 la media di possessi di Sacramento con i tre in campo). In chiave futura, tuttavia, è probabile che la tendenza per Joerger sia quella di modulare il quintetto a seconda dell’avversario, con Buddy riportato più frequentemente al ruolo di guardia. Specialmente nell’ottica di accesso alla post-season, dove Fox e compagni si troverebbero ad incrociare le armi con esterni come LeBron James, Kevin Durant e Paul George, di fronte ai quali il ragazzo dalle Bahamas soffrirebbe di un gap fisico incolmabile. L’aggiunta in corsa di Harrison Barnes al roster sembra proprio portare in quella direzione.

Buddy di nome e di fatti

E se sul campo l’importanza di Hield è facilmente documentabile, forse ancora più significativa è l’influenza che l’ex-Pelicans ha portato nello spogliatoio, storicamente terreno minato per i Kings. Quel soprannome, sostiene il suo coach ai tempi dell’high school Kyle Lindsted, se l’è guadagnato perché sa essere “amico di tutti”. Le origini del soprannome, in realtà, parrebbero assai più misteriose, ma questo nulla toglie alla facilità di Buddy nel relazionarsi con chi gli sta attorno. Dai veterani come Iman Shumpert, poi volato a Houston, ai rookie come Marvin Bagley, reduce da una prima parte di stagione piuttosto complicata, all’amico del cuore Bogdan Bogdanovic, con cui ha trascorso le vacanze estive tra Belgrado e il festival Coachella, tutti sembrano stravedere per il compagno con la maglia numero 24. E lui sembra avere sempre una battuta pronta per tutti, armato della voglia di scherzare e tenere alto il morale della squadra.

Anche la sua attività sui social è improntata al buon umore e alla positività (e pure alla monotonia, va detto):

Il tweet che Hield pubblica, identico, ogni giorno, dal suo account “Buddy Love !!!”.

Per quanto gli piaccia ridere e far divertire i compagni, ad ogni modo, Hield prende maledettamente sul serio il concetto di atleta professionista. Autentico topo da palestra sin dai tempi dell’high school a Wichita, dove l’allenatore doveva portarlo via di peso dal campo dopo ore di allenamento extra, il ragazzo sfoggia un’etica lavorativa contagiosa. In un certo senso, quindi, Buddy è il compagno di squadra ideale: allegro ma scrupoloso, affettuoso coi compagni ma inflessibile in allenamento. O, più semplicemente, come qualcuno l’ha definito prendendo a prestito l’epitome dei due atteggiamenti in apparenza contrastanti, Hield è per metà Shaq e per metà Kobe. Almeno dal punto di vista dell’attitudine il paragone sembra azzeccato, per quanto riguarda le caratteristiche tecniche, invece, occorre guardare altrove, un po’ più a nord lungo la costa californiana.

Play like Klay

Sin dagli esordi in NBA, il benchmark per Hield, più che Curry, è stato l’altro Splash Brother Klay Thompson. Al di là delle sparate di Randevivé, i paragoni con Thompson non sono certo una novità. Oltre al vago comune denominatore geografico (il padre di Klay è originario delle Bahamas), però, le somiglianze non appaiono poi così evidenti. Rispetto alla guardia degli Warriors, Hield ha bisogno di avere più la palla tra le mani (le conclusioni senza mettere palla a terra rappresentano il 53.9% del complessivo per Klay e il 41.1% per Buddy). Il dato rimane comunque eccellente, laddove Thompson ha in questi anni stabilito standard di efficienza nel gioco senza palla oggettivamente inarrivabili.

Per quanto sia migliorato, poi, Buddy non possiede neanche lontanamente l’acume difensivo con cui il tre volte campione NBA si è più volte preso cura del più pericoloso tra gli esterni avversari, in particolare nei passaggi cruciali della post-season, momento in cui sa alzare la qualità delle sue prestazioni.

Occorre però anche sottolineare come Klay abbia avuto la possibilità di sublimare le proprie caratteristiche in un contesto idilliaco e unico come quello di Golden State e al fianco di un Hall of Famer come Curry, mentre Buddy ha goduto di fortuna decisamente minore, usufruendo solo da qualche mese a questa parte di una situazione quantomeno decorosa a livello di organizzazione e identità tattica.

L’impressione è che l’ipotesi più rosea sia che Hield si trasformi in una sorta di “versione ridotta” di Thompson. Il che, visto come funziona l’NBA contemporanea, potrebbe significare comunque vivere una carriera lunga e prosperosa sia in termini economici che di successo di squadra. Più che un domani da All-Star, insomma, il destino di Buddy sembra poter essere quello del classico giocatore di sistema, destinato ad essere efficace tanto quanto lo sono i meccanismi della squadra in cui milita.

Da eroe di culto a giocatore di ruolo

I Kings non dispongono della loro scelta al prossimo Draft, finita a Boston via Philadelphia, motivo per cui agganciare i tanto agognati playoff è stato l’obiettivo primario della stagione fin dall’inizio - pur fallendolo nelle ultime settimane. Allo stesso tempo, però, considerata l’età media del roster corre anche l’obbligo di sviluppare i giovani talenti accumulati proprio grazie al decennio abbondante di risultati disastrosi.

Il compito affidato agli uomini guida della franchigia, insomma, non è dei più semplici. Per il momento Divac e soci hanno resistito all’impulso di mandare tutto all’aria con uno di quei colpi di testa che ne hanno a lungo caratterizzato l’operato. I Kings, però, essendo i Kings, potrebbero facilmente trovare il modo di rovinare quello che in questi mesi è sembrato l’incipit di una storia nuova e intrigante. Una mossa di mercato insensata, l’inasprirsi delle tensioni tra staff tecnico e front office, la proprietà che con le sue uscite improbabili destabilizza l’ambiente - a Sacramento tutto può succedere.

In questo caso, rigettato nel caos ma accresciuto nella consapevolezza dei propri mezzi, Hield potrebbe accontentarsi di ciò che ha già dimostrato di saper fare: colpire dalla lunga distanza e costruirsi una comoda carriera come specialista. Nell’NBA di oggi, con il salary cap in continua espansione e il tiro da fuori crocevia tra successo e fallimento, un buon contratto per uno con il suo range di tiro non sarebbe difficile da trovare. Viceversa, qualora ai Kings riuscisse l’impresa di pazientare e migliorarsi stagione dopo stagione, consolidando l’appartenenza alla parte nobile della Western Conference e rimpolpando il roster con incastri adatti al progetto di Joerger, Hield potrebbe continuare a lavorare su margini di crescita che appaiono limitati ma ancora possibili.

Il giudizio pendente sul suo successo passerà con ogni probabilità dalla capacità di colmare quel gap tra l’ideale di cult hero generato dalla clamorosa March Madness del 2016 e l’effettivo potenziale a livello professionistico.

Le quattro settimane che hanno trasformato Buddy da illustre sconosciuto a eroe di culto.

Il suo itinerario futuro nella lega, infine, dipenderà molto probabilmente anche dalle scelte contrattuali. Attualmente guadagna poco meno di 4 milioni di dollari a stagione, entrando di misura nella top ten dei giocatori meglio pagati della franchigia. L’accordo che lo lega ai Kings gli darà la possibilità di giocarsi le sue carte da restricted free agent nell’estate del 2020. Salvo prolungamenti, qualora lui e la squadra dovessero trovare continuità di prestazioni e risultati, Buddy potrebbe trovarsi di fronte al più classico dei quesiti: andare a caccia del miglior ingaggio o restate nella squadra che l’ha saputo valorizzare?

I tifosi dei Kings - e in fondo anche lui, che pare aver eletto Sacramento a propria dimora - sperano che le due opzioni possano coincidere.

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