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Dario Costa
L'oblio di Blake Griffin
31 ott 2018
31 ott 2018
La stella dei Detroit Pistons ha iniziato alla grande la nuova stagione, ma il mondo sembra essersi dimenticato di lui.
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Dario Costa
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All’inizio della scorsa stagione, la vita di Blake Griffin aveva preso una piega tutt’altro che spiacevole: fresco di firma su un contratto che gli avrebbe garantito 173 milioni di dollari per i successivi cinque anni, svincolatosi dall’opprimente presenza del caro nemico Chris Paul, era finalmente diventato l’uomo simbolo degli L.A. Clippers post-Lob City.


 

I problemi fisici, spada di Damocle che pendeva da sempre sulla sua testa, lo avevano costretto ad un mese d’assenza di sosta forzata, ma dal ritorno in campo a fine dicembre le cifre racimolate sembravano il preludio alla sesta convocazione per l’All-Star Game. Dopo nove anni a Los Angeles, inoltre, Griffin era ormai perfettamente a suo agio nel mood cittadino, tra amicizie notturne più o meno piccanti con il sottobosco hollywoodiano e una promettente carriera alternativa da stand up comedian.


 

Fino a quel fatidico 29 gennaio, ogni mattina, appena sveglio, la giornata sorrideva a Blake. Poi, a rovinare il copione pressoché perfetto, è arrivato Jerry West.


 

No more parties in Detroit


Non è dato sapere quanto a Blake Griffin fosse familiare il concetto di crudeltà, predisposizione d’animo di cui viceversa Jerry West si è dimostrato profondo conoscitore. Perché occorre essere crudeli per infliggere a un altro essere umano il trattamento riservato dal front office dei Clippers al loro miglior giocatore. Il video lanciato sul jumbotron di uno Staples Center dagli spalti vuoti, aperto solo per mostrare a Griffin il domani che la franchigia immaginava avrebbero affrontato insieme, è ormai entrato nella sfera delle leggende metropolitane. Quel sogno di un pomeriggio di mezza estate, diventare il più grande giocatore nella storia di Clippers - con tanto di maglia ritirata - si sarebbe in realtà rivelato parte integrante di una exit strategy ben congegnata.


 

E tanto meno è dato sapere quanto Griffin, che probabilmente predilige la stand up comedy alla Divina Commedia, avesse cognizione del concetto di “legge del contrappasso”. Così come nell’opera del Sommo Poeta il barone Bertran de Born finisce scaraventato all’inferno per scontare una pena crudele che ribalta e gli ritorce contro i peccati commessi durante la vita terrena, Griffin viene ceduto e la sua nuova destinazione è quanto di più antitetico, non solo in termini geografici, alla città degli angeli.


 

Sullo scambio che lo spedisce a Detroit c’è la firma di Jerry West, che da consulente pare essere riuscito nell’opera di persuasione del proprietario dei Clippers. Steve Ballmer si convince che il rinnovamento è ormai irrinunciabile e passa innanzitutto dall’addio a Griffin e al suo abnorme contratto. L’appiglio è la mancanza di una no trade clause, optional di serie negli accordi che riguardano le superstar della lega, ma che per qualche oscuro motivo Jeff Schwartz, agente tra i più scafati sulla piazza, non ha negoziato. Per il giocatore è un brutto colpo e i mesi successivi trascorrono tra perniciose polemiche sul moderato gradimento della nuova città di residenza e risultati sportivi alquanto deludenti. I Pistons sono all’ultimo capitolo della saga, peraltro poco avvincente, che vede Stan Van Gundy nel ruolo di deus ex machina.


 



A giudicare da queste immagini può non sembrare, ma il roster dei Pistons 2017-18 comprendeva altri quindici giocatori oltre a Griffin e Drummond.


 


A pesare, per Blake, più dei risultati deludenti è l’oscuramento mediatico di cui si sente vittima. Da un lato Detroit non è piazza tra le più seducenti per media e tifosi, anche perché la squadra sosta fuori dalla élite della Eastern Conference da quasi dieci anni. Dall’altro la NBA è ormai una macchina che macina e produce nuovi talenti e personaggi a ciclo continuo: un singolo passaggio a vuoto può far piombare nell’anonimato stelle fin lì conclamate. Il passaggio ai Pistons vale come viatico alla marginalizzazione: il cambio d’allenatore e l’arrivo di Dwayne Casey non bastano certo a scuotere una realtà che sembra destinata a languire nella mediocrità per gli anni a venire. Non c’è luce in fondo al tunnel imboccato da Griffin: che fare quindi per provare a non farsi annientare dalle tenebre?


 


Sindrome da accerchiamento


Griffin, nato e cresciuto in Oklahoma, non è certo estraneo alle leggende che caratterizzano la mistica del vecchio West (a riprova ecco la disinvoltura con cui interpreta il ruolo di cowboy in uno degli sport girati per KIA Motors). L’attitudine con cui ha iniziato la nuova stagione ricorda un po’ la classica storia del pistolero solo contro tutti che, senza reali possibilità di fuga da una situazione disperata, dà fondo a tutte me munizioni a disposizione. Come John Wayne/David Crockett in The Alamo, Griffin ha sciorinato il meglio del proprio repertorio balistico nel tentativo di resistere a un fato esiziale. In questo senso il career high conquistato contro i Philadelphia 76ers potrebbe rappresentare il suo manifesto programmatico per i mesi a venire.


 



50 punti, tra cui quelli che hanno deciso la contesa, 14 rimbalzi e 6 assist in faccia ai quotatissimi Embiid e Saric.


 


Prima del ritorno alla normalità contro Boston, Griffin era l’ottavo miglior marcatore della lega con 28.4 punti a partita, a cui aggiungeva 10 rimbalzi e 4.6 assist in 36 minuti di media tirando con il 50.5% dal campo e uno strabiliante 55.6% da dietro la linea dei tre punti (il 58.8% nei tiri dal palleggio, che rappresentano il 63% delle sue conclusioni dalla lunga distanza, dato che la dice lunga sulla fluidità della manovra offensiva dei Pistons). Si tratta ovviamente di un campione alquanto limitato e mitigato dal passaggio a vuoto nell’ultima gara contro i Celtics, ma è comunque innegabile come l’ex prima scelta al Draft 2009 si sia presentato al via della sua seconda stagione a Motor City con le marce alte innestate.


 

Il suo nome, però, compare di rado accanto a quelli di LeBron, Steph, Giannis e Kawhi. Nella serata giusta, Blake rimane una delle esperienze più eccitanti in cui ci si possa imbattere su un campo da basket, ma il mondo là fuori ormai sembra preferisca guardare altrove. D’altronde, per come funzionano le logiche NBA, quelle sono le prestazioni che ci si attende da chi occupa uno spazio tanto importante nel libro paga della propria squadra. Il primo scampolo di stagione ha inoltre visto Detroit andare oltre le più rosee previsioni vincendo le prime quattro partite consecutivamente; tuttavia, è opinione diffusa che anche qualora Griffin riuscisse a mantenere questo rendimento eccellente, le cifre rimarrebbero sterile attestato di un talento fuori dall’ordinario. Il contesto di squadra, infatti, non offre prospettive di crescita significative e, parafrasando un celebre modo di dire, quello che l’NBA e i Pistons paiono destinati ad avere nei prossimi anni è il Blake Griffin che si meritano, non quello di cui avrebbero bisogno.


 


Reboot, reboot


Eppure, alla soglia dei trent’anni, le qualità per reinventarsi non mancherebbero. Passatore con pochi eguali tra i lunghi della lega e tiratore dagli ampi margini di miglioramento dalla lunga distanza (aspetto del gioco a cui si dedica con continuità solamente dalla scorsa stagione), Griffin è capace di correre il campo e giocare il pick and roll sia come portatore di palla che come rollante. A leggerlo così parrebbe perfetto per il ruolo di stretch 5 così prezioso nell’NBA contemporanea. Se è vero che le gambe non sono quelle d’un tempo e i voli sopra il ferro si fanno più rari e difficili, Griffin può sopperire con una tecnica personale e una comprensione del gioco che, proprio in ragione della spettacolare esplosività messa in mostra durante i primi anni a L.A., sono spesso passate quasi inosservate. Calato in un sistema di pallacanestro funzionale e debitamente motivato, infine, l’ex-Clipper potrebbe rivelarsi difensore molto più efficace e costante rispetto alla nomea non proprio positiva di cui ha goduto fin qui, al netto di un limite fisico - la scarsa apertura delle braccia rispetto all’altezza - che non si può risolvere.


 



Non solo verticalità ma anche applicazione, la ricetta per un Griffin utile anche nella propria metà campo.


 


A frapporsi tra Griffin e il potenziale reboot della sua carriera ci sono però diversi elementi, tanto da trasformare la possibile ricerca di un nuovo inizio in un’autentica corsa a ostacoli. Con 193 gare di regular season saltate in nove stagioni, la fragilità fisica rappresenta senza dubbio il primo grande punto di domanda. Dal crack della rotula che gli è costata l’intera stagione da rookie fino all’ultima lesione del legamento mediale-collaterale subita poco prima di essere scambiato, la gamma d’infortuni collezionati varia dalla frattura dell’alluce destro a quella della mano, sempre la destra, maturata durante una discussione notturna in un ristorante di Toronto con un membro dello staff dei Clippers i cui contorni non sono mai stati del tutto chiariti. È quindi evidente come, a prescindere da quale sarà la sua collocazione in campo, il destino di Griffin dipenda innanzitutto dalla tenuta di muscoli e ossa.


 

Il secondo elemento che rema contro il possibile rilancio del trionfatore dello Slam Dunk Contest 2011 è il quadro complessivo di squadra in cui si trova e, salvo clamorose svolte di mercato, si troverà ad operare anche per i prossimi anni. I Detroit Pistons costruiti da Van Gundy e ora ereditati da Casey non si caratterizzano certo per flessibilità tattica, tantomeno l’organico a disposizione dell’ex coach dei Raptors appare adattabile alle esigenze di una pallacanestro sempre più improntata alla velocità d’esecuzione e al gioco in transizione. Nella scorsa stagione, con un roster praticamente identico a quello attuale, i Pistons sono risultati 24° per numero di possessi (96.81), metro non infallibile ma di certo significativo, e le prime rilevazioni della stagione appena iniziata, seppur positive, li vedono arrancare al 26° posto (99.72).


 

L’emblema dello stato precario in cui versano i Pistons è forse la convivenza con Andre Drummond, l’altra stella di Detroit, che si prospetta complicata. Fenomenale rimbalzista da doppia doppia di media assicurata, l’ex-Huskie è il secondo giocatore più pagato della squadra dietro al compagno di reparto. L’impressione è che per Griffin il rapporto con il suo centro si trasformerà presto in una versione aggiornata di quanto andato in onda ai Clippers con DeAndre Jordan, ovvero un abbinamento fallato da ambiguità di fondo. I buoni responsi del box score, infatti, si tramutano inevitabilmente in ostacolo per quella duttilità di cui ormai nessuna squadra con ambizioni concrete può fare a meno. Non bastasse, la schizofrenica politica contrattuale con cui Van Gundy ha marcato il doppio ruolo di allenatore e GM concede poco spazio di manovra per eventuali trade: oggi Detroit vanta - si fa per dire - il decimo monte ingaggi della lega. Reggie Jackson e John Leuer, titolari di contratti che chiameranno rispettivamente 35 e 20 milioni di dollari nei prossimi due anni, sono oggettivamente impossibili da inserire in eventuali scambi, così come lo stesso Drummond, a libro paga per 25 milioni l’anno fino al 2021, nell’ottica attuale assume per i dirigenti delle altre ventinove squadre le sembianze di un suppellettile di design: intrigante, carissimo e, all’atto pratico, inutile.


 

Per concludere, il terzo elemento che innegabilmente oscura il sol dell’avvenire di Blake Griffin è il mostruoso contratto sottoscritto due estati fa e per via del quale oggi risulta il quinto giocatore più pagato dell’intera NBA. Oltre all’evidente sproporzione tra il valore assoluto del giocatore e lo stipendio percepito, a rendere davvero poco appetibile la sua presenza in squadra sono i 39 milioni di dollari che percepirà nell’ultima annata del contratto, quella che termina nel 2022. A quel punto della sua carriera il cinque volte All-Star sarà alla sua tredicesima stagione da professionista e avrà compiuto 33 anni: considerati anche i precedenti, il livello di logorio fisico accumulato appare facile da prevedere.


 


Il Grande Gatsby


L’impegno quinquennale, anche calato nel contesto di una oliato congegno che genera soldi come l’NBA, porta con sé un’illogicità con pochi precedenti. Non per il diretto interessato, ovviamente, che al termine di quel contratto avrà accumulato guadagni derivanti dall’attività agonistica, senza quindi conteggiare sponsorizzazioni o entrate di altra natura, per un totale di circa 265 milioni di dollari. Un’autentica montagna di soldi sulla cui cima Blake, quando deciderà di appendere canotta e pantaloncini al chiodo, potrà sedersi soddisfatto. E forse allora il suo futuro, anche immediato, più che a John Wayne/David Crockett assomiglierà a quello del protagonista del Grande Gatsby, cioè il prototipo dell’uomo realizzato, ricco ma inesorabilmente solo e frustrato.


 

Ciò che per Jay Gatsby rappresentava Daisy Fay, amore perduto e oggetto di vano tentativo di riconquista attraverso il successo e la ricchezza, per lui potrebbe forse essere il concetto astratto e spesso inafferrabile rubricato alla voce “rispettabilità NBA”. La stima da parte di colleghi e addetti ai lavori, in primis, ma soprattutto l’affetto e l’ammirazione degli appassionati sparsi in tutto il mondo sono beni immateriali, privi di prezzo pagabile in denaro. Per quanto sfuggevoli, sarà la loro probabile assenza a determinare il posto di Blake Griffin nella storia del gioco.


 

 

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