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Tommaso Clerici
La boxe è troppo pericolosa?
13 feb 2024
13 feb 2024
La morte di un pugile giapponese ha riacceso il dibattito.
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Tommaso Clerici
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IMAGO / ITAR-TASS
(foto) IMAGO / ITAR-TASS
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Lo scorso 26 dicembre il pugile giapponese Kazuki Anaguchi si è accasciato sul ring e non si è più rialzato. Si è spento a causa di un ematoma subdurale - un'emorragia tra due meningi del cervello - durante co-main event di un titolo mondiale trasmesso su ESPN e disputato a Tokyo. Alla fine della sfida ha perso conoscenza e, trasportato in ospedale, è stato operato d'urgenza, ma non si è mai svegliato dal coma. È morto il 3 febbraio, aveva 23 anni.

L'anno scorso lo stesso versamento di sangue a livello cerebrale aveva afflitto anche il pugile italiano Daniele Scardina. Scardina è stato salvato dai medici, ma inevitabilmente quando accade qualcosa del genere si riaccende il dibattito sulla pericolosità del pugilato. A proposito del malore di Scardina, Giulio Zoppello, a poche ore dall'accaduto, aveva scritto su Esquire: "A dispetto dell'incremento delle misure di sicurezza, della prevenzione, della tecnologia che fa passi da gigante, sul ring si continua a morire o a riportare danni terribili, senza che si riesca a trovare una sorta di mediazione tra la dura legge di questo sport e la necessità di preservarne l'identità, in un certo qual senso anche il pericolo".

Sono discussioni cicliche, in cui la posizione più radicale è sempre quella di chiede l’abolizione della boxe. Il noto oncologo e politico Umberto Veronesi, per esempio, nel 2013 scrisse: "La boxe è l'unico sport che ha come finalità quella di fare male all'avversario. Tutti gli altri sport estremi sono puntati a un risultato di vittoria che non implica il danno dell’atleta, anzi lo vuole evitare. La boxe non è molto diversa dalle lotte tra gladiatori, che consideriamo espressione di un’epoca di barbarie".

Chi invece difende il pugilato sostiene che a livello statistico sul ring si muore meno di quello che tanti si aspettano: negli anni Novanta, negli Stati Uniti si è registrata poco più di una morte ogni 10 mila pugili. Secondo la CNN, dal 1890 al 2011 sono morti 1.604 pugili, circa 13 decessi all’anno. Altre statistiche indicano 500 morti in un secolo su 40mila incontri all’anno; nell’ultimo trentennio le morti sarebbero state 28, una ogni 42.857 match. Certo, non si può ridurre l'impatto della boxe solo alla morte, che è solo il caso più drammatico ed estremo. Ci sono infatti anche le storie di quegli atleti che hanno pagato lo scotto anni dopo aver smesso con la boxe, vittime di danni cerebrali silenti che si sono scatenati con il tempo - e di cui abbiamo già parlato. In questi casi bisogna sempre ricordare che il pugno sferrato da un pugile equivale all’impatto con una palla da bowling di sei chili che si muove a trenta chilometri orari.

L'importanza delle regole a difesa della salute

Ma è possibile salvaguardare la boxe e gli altri sport di combattimento eliminando i danni cerebrali che comportano? La comunità scientifica è concorde nell'affermare che con il tempo e con il progresso, l'incidenza di lesioni neurologiche, traumi cerebrali e affini sia diminuita grazie a protocolli sanitari aggiornati e a una crescente prevenzione e monitoraggio. Non è detto, però, che questo possa bastare.

Una ricerca pubblicata a fine 2023 e chiamata A Systematic Review and Meta-Analysis Investigating Head Trauma in Boxing, cheha preso in analisi e confrontato i risultati di 84 indagini scientifiche sul tema, ha osservato che circa il 20% dei pugili professionisti sviluppa una lesione cerebrale traumatica cronica nel corso della propria carriera, e fino al 40% dei pugili professionisti ritirati ha avuto una diagnosi riguardo a lesioni cerebrali croniche. Dei 631 pugili esaminati in un’altra indagine presa in esame, 147 presentavano danni al cervello, mentre 125 su 411 oggetto di un'altra pubblicazione, mostravano forme di atrofia cerebrale (ovvero un cervello dalle dimensioni ridotte). In altre indagini, in 46 pugili su 71 sono state osservate demenza o amnesia, 36 su 70 avevano forme di disturbi cognitivi e 57 su 109 hanno mostrato anomalie nell'elettroencefalogramma. Questi sono solo numeri, ma tutti abbiamo presente il deterioramento a cui è andato incontro Muhammad Alì, a cui è stato diagnosticato il morbo di Parkinson nel 1984, è stato la prova vivente dei danni che può fare la boxe, come ammesso dal suo stesso medico personale.

Per farmi un'idea più precisa ho deciso di sentire Mario Ireneo Sturla, medico chirurgo, specialista anche in Medicina dello Sport, che coordina e supervisiona il pugilato italiano ed internazionale come consulente e membro di diverse commissioni e federazioni. Sturla è stato medico di bordoring in più di 700 incontri con titoli del mondo in palio.

«Sono quello che salva i pugili, che trascorre con loro le notti in ospedale. Ripeto: sono quello che salva i pugili, lo scriva, non quello che ferma gli incontri, e lo specifico perché a volte il medico viene visto come un guastafeste», mi dice quando lo raggiungo al telefono.Gli chiedo se il pugilato si può considerare uno sport sicuro, o meno: «Qualsiasi attività sportiva include una serie di fattori di rischio», risponde. «Il mio compito e obiettivo nel pugilato è sempre stato quello di ridurli al minimo grazie alla prevenzione. I pugili sono gli sportivi più controllati in assoluto, perché oltre agli accertamenti necessari al tesseramento, svolgono visite anche prima e, se necessario, dopo i match».

«Quello sui cui la comunità medico-scientifica non può incidere è la gestione del pugile nei periodi al di fuori degli incontri e dei controlli medici», mi dice Sturla «Se ad esempio un pugile o il suo team non mi comunicano che l'atleta ha fatto uno sparring in cui ha accusato colpi duri una settimana prima dell'incontro – e non me lo dicono magari per paura che il match venga rimandato - io non posso saperlo e quindi non sono davvero aggiornato sul suo stato di salute quando lo visito. La madre di ogni infortunio è sempre l'ignoranza, intesa come mancanza di conoscenza».

Molto dipende insomma da come un pugile viene gestito in palestra, ovvero da quanto il suo team sia sensibile e consapevole dell’importanza di una corretta programmazione dello sparring, dei tempi di recupero, del mantenere un atleta monitorato e in salute. Non a caso la dottoressa Margaret Goodman, neurologa che ha lavorato a bordoring in più di 500 combattimenti, ha dichiarato al Guardian che: «Il 99% dei danni cerebrali deriva dagli sparring. Troppi pugili si presentano a un match con i sintomi di una commozione cerebrale».

Ovviamente questo non esclude che la boxe abbia delle sue peculiarità che la rendono intrinsecamente più pericolosa. Il pugilato di fatto rimane uno sport da contatto con due bersagli: la testa, che per evidenti motivi di efficacia è la più colpita, e il corpo. In questo senso è la disciplina da combattimento più stressante per l'organismo se si pensa che nella kickboxing tanti colpi vengono portati alle gambe dell’avversario, nelle MMA ci sono le fasi lottatorie, e così via. Inoltre, i guantoni nella boxe (che pesano 10 once) nascono per proteggere le ossa della mano dalle fratture, e per questo sono più imbottiti di quelli, ad esempio, usati nelle MMA. Questo comporta che i colpi sferrati con i guantoni ci impiegheranno più tempo a mandare KO un atleta, magari facendolo contare più volte, aumentando esponenzialmente i danni cerebrali subiti. I guantini da MMA invece, da solo 4 once, rendono i colpi più simili a quelli a mano nuda e quindi più pesanti, per cui ai fighter basta poco per finire knockout - con il match che viene interrotto subito, senza conteggi - ed evitare una punizione più dura.

Certo, c'è ancora molto lavoro da fare per rendere la boxe più sicura, me lo conferma anche il dottor Sturla. «Vedo ancora persone che fanno l'angolo agli atleti e non sanno posizionare la borsa del ghiaccio. Oppure a volte devo discutere le mie decisioni con gli allenatori, con gente che ha più a cuore guadagnare soldi piuttosto che la salute del proprio pugile. Anche gli arbitri a volte sbagliano. Qualunque sia la posta in palio, che sia un titolo europeo o un mondiale, il medico guarda oltre: se c'è un motivo serio per annullare un match, lo si fa senza esitazioni. E la stessa attenzione vale per il campione così come per l'esordiente o il mestierante. La dignità viene riconosciuta a tutti, sempre. Insomma, è questione di buon senso, di conoscenze e di trovare la giusta dose negli allenamenti, negli sparring, nell'alimentazione, eccetera. Fermo restando che il miglior incassatore è chi non prende colpi».

A che punto siamo, invece, con la ricerca scientifica?«Posso farle degli esempi generali. Sono stati identificati dei marcatori genetici che, se presenti, indicano la predisposizione di certi soggetti a sviluppare più facilmente danni cerebrali, demenza senile, Alzheimer, malattie neurodegenerative. Basta un esame del sangue per capirlo e saper quindi indirizzare le persone a un certo tipo di attività sportiva o meno. Ma in Italia questi marcatori non vengono ancora usati. Si stanno facendo anche esperimenti sull'utilizzo di alcuni farmaci nel trattamento dei traumi cranici, con risultati incoraggianti».

«Non è sempre immediatamente chiaro quello che accade nel cervello, anzi. Al di là delle manifestazioni più gravi – e anche in questi casi può passare del tempo dal trauma agli effetti che comporta - non tutti i colpi comportano delle conseguenze subito evidenti, e infatti si parla di colpi subconcussivi e di sindrome da secondo impatto, cioè quando una persona non si è ristabilita a pieno e accusa nuovi impatti dannosi a livello cerebrale» prosegue il dottor Sturla. «In questi casi si fanno esami a livello molecolare perché il cervello può apparire perfettamente ristabilito quando non lo è. La testa è bugiarda, come si dice. E la sindrome da secondo impatto è mortale nel 50% dei casi».

Chiedo al dottore, per la sua esperienza, quali sono i segnali che lo inducono a pensare che un pugile sia in grave difficoltà e che quindi il match vada fermato. Risponde: «Lo vedo da come appoggia le braccia nel minuto di intervallo tra una ripresa e l'altra, da come muove le gambe, da come estroflette i piedi, dalla deambulazione, dal numero dei clinch, fino all'esame della pupilla che però è uno step successivo».

Ma quali sono i protocolli vigenti per tutelare la salute dei pugili? «Tanti e di diverso tipo. Ad esempio sia nei dilettanti sia nei professionisti, quando un incontro finisce per KO, il pugile che lo ha subìto è obbligato al ricovero in ospedale per una serie di accertamenti e per stabilire i tempi e i modi di recupero. Mi è capitato che un incontro molto acceso finisse ai punti ma che decidessi di fermare per tre mesi entrambi i pugili. Sono decisioni a discrezione del medico».

Chiedo al dottor Sturla del taglio del peso, una pratica che incide parecchio sullo stato di salute dell’atleta: «Il nostro corpo è composto all’85% da liquidi, il cervello umano galleggia in alcuni di questi», conclude l’esperto. «Un pugile che sale sul ring disidratato marcia speditamente verso traumi cranici, emorragie cerebrali, eccetera. Un cazzotto di lieve entità diventa più pericoloso in modo esponenziale».

Va detto che le regole e i protocolli rendono la boxe importante da un punto di vista dell'alfabetizzazione medica di una parte di popolazione che altrimenti farebbe fatica ad accedere a un certo tipo di informazioni. Lo ha detto esplicitamente un altro medico, Mike Loosemore, esperto in medicina dello sport e dell'esercizio fisico e medico della Nazionale inglese di boxe: «I benefici della boxe sono innumerevoli. È uno sport completo, simmetrico, che combina sforzi aerobici con quelli anaerobici e fa benissimo anche alla mente. Porta dal medico, per le visite sportive, soggetti ai margini della società che altrimenti non si farebbero visitare. Educa i giovani, li salva dalla strada. Ha svoltato tante vite».

Il dibattito intorno all'abolizione della boxe

Certo, questo argomento difficilmente convincerà i più radicali nel dibattito sull'abolizione della boxe, soprattutto davanti a un evento traumatica come una morte o un coma. In questo senso, la boxe dovrebbe fare anche dei passi in avanti a livello di struttura e comunicazione, invece di rimanere sulla difensiva. La scoperta dell’encefalopatia traumatica cronica nei giocatori di football, ad esempio, ha generato uno scandalo nella NFL, che l'ha spinta a intervenire nel corso degli anni. Il punto è che non ci si aspettava che uno sport sì da contatto, ma in cui la collisione con l’avversario è il mezzo e non il fine dell’attività, avesse effetti così devastanti, e forse nella boxe è mancato un evento che avesse la stessa portata mediatica e che producesse quindi gli stessi effetti. Forse si potrebbe citare morte di Kim Duk Koo, pugile coreano, avvenuta nel 1983 dopo essere finito KO al quattordicesimo round per mano di Ray Mancini. In seguito all’episodio, il regolamento è stato rivisto, portando il numero dei round a un massimo di dodici. Forse un po' troppo poco rispetto a quello che andrebbe fatto, e infatti secondo alcuni la morte sul ring ormai sarebbe ormai stata accettata come un’eventualità.

A questo tipo di problemi si aggiunge poi il fatto che non esista una lega unica a controllo del pugilato mondiale, bensì diverse Federazioni, anche molto diverse tra loro, e questo comporta che ci siano regolamenti, interessi e prassi diverse.

È difficile capire quale sia il punto di equilibrio tra l'introduzione di riforme che rendano la boxe più sicura e lo snaturamento di uno sport che ha affascinato e continua ad affascinare proprio per la sua pericolosità. La boxe resta uno degli sport - se non lo sport - più celebrati in letteratura, cinema, pittura, arte, come sottolineato dallo scrittore ed editor Antonio Franchini. Negli Stati Uniti per anni ne ha permeato la società, e viceversa, ad esempio con l’avvento dei pesi massimi di colore in una società bianca e razzista. Un altro scrittore, Antonio Monda, ha definito la boxe “violenta, barbara, crudele, persino animalesca, ma profondamente, imprescindibilmente, tragicamente umana. Un luogo dello sport dedicato all’epica pura, che non è fatto da santi, ma da uomini capaci di gesti eroici e spregevoli”.

Queste parole torneranno ogni volta che si riaccenderà il dibattito su cosa fare della boxe, ma io preferisco ricordarne altre, quelle di Carla De Chiara, madre del pugile italiano Fabrizio De Chiara, deceduto nel 1996, a 25 anni, dopo aver perso il titolo italiano dei pesi medi per KO. «La boxe non è da abolire. Mio figlio non ha mai avuto questa volontà, e io, di rimando, credo in quello che faceva Fabrizio», disse all’Unità «Era un pugile per scelta, non per necessità. Sapeva quello che faceva ed era consapevole dei pericoli. Quando è morto Ayrton Senna, nessuno ha mai pensato di abolire la Formula Uno. Adesso, a me e a mio marito, non ci resta altro da fare che vivere di quello che Fabrizio ci ha lasciato».

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