Dopo dieci round di azione, l’arbitro alza il braccio di Gene Tunney: è il nuovo campione mondiale dei pesi massimi per decisione unanime dei giudici. Il pubblico del Sesquicentennial Stadium di Filadelfia rumoreggia deluso: lo statunitense di origini irlandesi, dato per sfavorito alla vigilia, è riuscito nell’impresa di battere sul ring Jack Dempsey, un’icona della boxe che di lì a un anno avrebbe appeso i guantoni al chiodo. Siamo nel 1926 e l’incontro tra i due pugili esprime le inquietudini della società dell’epoca.
Tunney è un incontrista dallo stile difensivo, che fiacca lentamente i suoi avversari. Si definisce «uno studente della scienza del ring»; colto, amico di diversi artisti e scrittori. Dempsey è un picchiatore, un atleta aggressivo, famoso per i suoi KO, descritto talvolta come un assassino – tra le quattro corde ovviamente. Se Tunney rappresenta l’ideale borghese e virile del miglioramento di sé e dell’autocontrollo, Dempsey soddisfa la fantasia di virilità e indipendenza della società americana dei primi decenni del Novecento. È anche per questa dialettica che il match registra un pubblico da record, sopra i centomila spettatori, e un incasso di quasi due milioni di dollari.
Tunney resta campione per due anni, senza venire mai amato dall’opinione pubblica: per il suo stile difensivo, ma anche perché si presenta come uno snob che ama poco il tifoso medio di pugilato. A Tunney non viene perdonato il matrimonio con una donna dell’alta società del Connecticut, il corso su Shakespeare tenuto a Yale, l’amicizia intima con Bernard Shaw. In occasione di un loro viaggio sulle Alpi, Sherwood Anderson, ammiratore di Dempsey, immagina così Shaw e Tunney: «Uno pensava: “Eccomi, sono un uomo di pensiero. Ho un caro amico che fa il pugile. Davvero fantastico!”. E c’era l’altro che pensava: “Sono un pugile, ma non un bruto. Sono un uomo di pensiero. Il fatto che sia in compagnia di questo scrittore lo prova”».
Anderson è convinto che «i veri pugili come Dempsey hanno cervelli migliori di Tunney, e i veri artisti e scrittori sono essi stessi uomini d’azione […] Ho osservato pittori all’opera che sembravano pugili in procinto di salire sul ring». Per Anderson, nonostante all’apparenza siano attività diverse, pugilato e scrittura finiscono per assomigliarsi: «Gli scrittori straordinari non hanno bisogno di frequentare pugili straordinari: essi sono pugili straordinari». Non è l’unico ad aver suggerito un parallelismo tra pugilato e arti marziali. L’autrice francese Adrienne Monnier descrive così la performance di un musicista: «Quando suona è terribile, boxa con il pianoforte; lo tempesta di colpi e persevera furiosamente finché non mette al tappeto lo strumento, il pubblico e sé stesso. Alla fine è tutto rosso, si asciuga la fronte; scende dal ring con la testa abbassata, le spalle ciondolanti, le sopracciglia aggrottate, i pugni ancora serrati». Secondo l’autore giapponese Yukio Mishima, «la letteratura e le arti marziali sono identiche; la logica letteraria e la logica dell’azione non sono che un effimero tentativo di opporsi alla morte e all’oblio».
Ci sono stati anche scrittori che hanno indossato i guantoni, mettendosi alla prova sul ring in prima persona. Giulio Trasanna negli anni Cinquanta raccontava: «Incrociai i colpi con il boxeur e fu qualcosa di pauroso e di eccitante. […] Pulivo dalla bocca il sangue vergine, ero un uomo nuovo. Ero cioè diventato uomo per la prima volta». Ernest Hemingway era notoriamente un grande appassionato di pugilato, tanto da sfidare alcuni colleghi (è nota una sua sessione di sparring con Ezra Pound), allenarsi con pugili professionisti e dichiarare, con un’ovvia provocazione: «Il mio scrivere è nulla. La mia boxe è tutto». Un’altra massima di questo tipo è stata attribuita a Jack London, che diceva: «Preferirei di gran lunga essere campione del mondo dei pesi massimi che Re d’Inghilterra o Presidente degli Stati Uniti».
Abbiamo approfondito il tema – il rapporto tra letteratura e pugilato, e quindi anche tra i loro protagonisti – con Antonio Franchini, editor e scrittore; tanti tra i maggiori successi editoriali degli ultimi anni sono passati per le sue mani (Saviano, Ammaniti, Scurati).
È autore di Gladiatori, pubblicato nel 2005, che racconta uno spaccato degli sport da combattimento italiani (contiene anche la testimonianza di un giovane e al tempo semisconosciuto Alessio Sakara), tra nitidi ritratti di fighter e vivide atmosfere delle palestre di periferia. In un altro suo libro dal titolo Quando vi ucciderete, maestro?, Franchini va all’origine del rapporto tra letteratura e boxe. Scrive: «Che fino a un certo punto il desiderio di dedicarsi alle discipline del combattimento, come quello di volgersi alla letteratura, nasca da qualche frustrazione che può placarsi solo nell’esercitare un dominio è un fatto scontato. […] Per tutti i suoi significati simbolici la boxe è stata fin troppo amata dagli scrittori. Il pugilato è letterario perché è estremo, perché è sempre contiguo alla disfatta ma non esclude il miraggio della gloria, e perché, come la scrittura, è un’apoteosi della solitudine».
Gli sport da combattimento ricorrono continuamente, e sotto diverse forme, nella produzione letteraria di Franchini. Quando cominciamo a parlare mi spiega: «Ho iniziato da sedicenne, con la lotta libera e greco-romana. Dopo un periodo in cui mi sono dedicato alla pesistica ho scelto di cimentarmi con serietà e dedizione in alcune discipline di striking, in particolare savate, boxe e kickboxing, quando avevo già 27 anni. Qualche tempo dopo sono passato al judo e al jiu jitsu tradizionale, sono cintura nera in entrambi, che oggi pratico anche in versione brazilian. E infine ho sperimentato una serie di arti marziali orientali giapponesi, cinesi e filippine come l’Aikido, il Wing Chun e il Kali».
Perché un intellettuale decide di entrare per la prima volta in una palestra?
Che cosa l’ha conquistata praticandoli?
E gli sport da combattimento come hanno influito su di lei?
Antonio Franchini: editor, scrittore, praticante di arti marziali e sport da combattimento (Credits: Il Libraio.it)
Da dove è nata l’esigenza di raccontare il fighting in alcuni dei suoi libri?
Oggi trova ci sia spazio per il fighting nella cultura e nella società italiana, sia a livello di produzione artistico-letteraria che come pratica sportiva?
Perché gli sport da combattimento in Italia subiscono uno stigma? Forse ha a che fare con l’influenza che la cultura cristiano-cattolica ha sempre avuto nella nostra società?
Perché in Italia esiste così poca letteratura sportiva di qualità?
Franchini (con il kimono bianco) in un momento di lotta con Fernando Moya, cintura nera di brazilian jiu jitsu.
Come si spiega il fascino che la boxe ha sempre suscitato in scrittori e artisti di diverso tipo?
Mi descrive la connessione tanto intima che hai riscontrato tra due figure – lo scrittore e il pugile – così diverse?
Pensa che Hemingway sia stata la figura più rappresentativa di questo discorso?
Nel suo libro scrive anche: «Al cinema, la boxe è l’unico sport che abbia dato vita a un genere». Che cosa rende il pugilato così cinematografico?
La cito ancora: «I pugili sono molto più “artisti” di qualsiasi artista: le depressioni, i deliri di onnipotenza di alcuni pesi massimi sono stati grandiosi come gli eccessi di Caravaggio o di Van Gogh». Finiamo quindi con l’arte: cos’hanno in comune Caravaggio e Mike Tyson?
Più cervello che muscoli