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Tommaso Clerici
Cosa rende il pugilato così letterario
19 gen 2023
19 gen 2023
Lo abbiamo chiesto allo scrittore ed editor Antonio Franchini.
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Tommaso Clerici
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Dopo dieci round di azione, l’arbitro alza il braccio di Gene Tunney: è il nuovo campione mondiale dei pesi massimi per decisione unanime dei giudici. Il pubblico del Sesquicentennial Stadium di Filadelfia rumoreggia deluso: lo statunitense di origini irlandesi, dato per sfavorito alla vigilia, è riuscito nell’impresa di battere sul ring Jack Dempsey, un’icona della boxe che di lì a un anno avrebbe appeso i guantoni al chiodo. Siamo nel 1926 e l’incontro tra i due pugili esprime le inquietudini della società dell’epoca.Tunney è un incontrista dallo stile difensivo, che fiacca lentamente i suoi avversari. Si definisce «uno studente della scienza del ring»; colto, amico di diversi artisti e scrittori. Dempsey è un picchiatore, un atleta aggressivo, famoso per i suoi KO, descritto talvolta come un assassino - tra le quattro corde ovviamente. Se Tunney rappresenta l’ideale borghese e virile del miglioramento di sé e dell’autocontrollo, Dempsey soddisfa la fantasia di virilità e indipendenza della società americana dei primi decenni del Novecento. È anche per questa dialettica che il match registra un pubblico da record, sopra i centomila spettatori, e un incasso di quasi due milioni di dollari. Tunney resta campione per due anni, senza venire mai amato dall’opinione pubblica: per il suo stile difensivo, ma anche perché si presenta come uno snob che ama poco il tifoso medio di pugilato. A Tunney non viene perdonato il matrimonio con una donna dell’alta società del Connecticut, il corso su Shakespeare tenuto a Yale, l’amicizia intima con Bernard Shaw. In occasione di un loro viaggio sulle Alpi, Sherwood Anderson, ammiratore di Dempsey, immagina così Shaw e Tunney: «Uno pensava: “Eccomi, sono un uomo di pensiero. Ho un caro amico che fa il pugile. Davvero fantastico!”. E c’era l’altro che pensava: “Sono un pugile, ma non un bruto. Sono un uomo di pensiero. Il fatto che sia in compagnia di questo scrittore lo prova”». Anderson è convinto che «i veri pugili come Dempsey hanno cervelli migliori di Tunney, e i veri artisti e scrittori sono essi stessi uomini d’azione […] Ho osservato pittori all’opera che sembravano pugili in procinto di salire sul ring». Per Anderson, nonostante all’apparenza siano attività diverse, pugilato e scrittura finiscono per assomigliarsi: «Gli scrittori straordinari non hanno bisogno di frequentare pugili straordinari: essi sono pugili straordinari». Non è l’unico ad aver suggerito un parallelismo tra pugilato e arti marziali. L’autrice francese Adrienne Monnier descrive così la performance di un musicista: «Quando suona è terribile, boxa con il pianoforte; lo tempesta di colpi e persevera furiosamente finché non mette al tappeto lo strumento, il pubblico e sé stesso. Alla fine è tutto rosso, si asciuga la fronte; scende dal ring con la testa abbassata, le spalle ciondolanti, le sopracciglia aggrottate, i pugni ancora serrati». Secondo l’autore giapponese Yukio Mishima, «la letteratura e le arti marziali sono identiche; la logica letteraria e la logica dell’azione non sono che un effimero tentativo di opporsi alla morte e all’oblio». Ci sono stati anche scrittori che hanno indossato i guantoni, mettendosi alla prova sul ring in prima persona. Giulio Trasanna negli anni Cinquanta raccontava: «Incrociai i colpi con il boxeur e fu qualcosa di pauroso e di eccitante. […] Pulivo dalla bocca il sangue vergine, ero un uomo nuovo. Ero cioè diventato uomo per la prima volta». Ernest Hemingway era notoriamente un grande appassionato di pugilato, tanto da sfidare alcuni colleghi (è nota una sua sessione di sparring con Ezra Pound), allenarsi con pugili professionisti e dichiarare, con un’ovvia provocazione: «Il mio scrivere è nulla. La mia boxe è tutto». Un’altra massima di questo tipo è stata attribuita a Jack London, che diceva: «Preferirei di gran lunga essere campione del mondo dei pesi massimi che Re d’Inghilterra o Presidente degli Stati Uniti». Abbiamo approfondito il tema – il rapporto tra letteratura e pugilato, e quindi anche tra i loro protagonisti - con Antonio Franchini, editor e scrittore; tanti tra i maggiori successi editoriali degli ultimi anni sono passati per le sue mani (Saviano, Ammaniti, Scurati).È autore di Gladiatori,pubblicato nel 2005, che racconta uno spaccato degli sport da combattimento italiani (contiene anche la testimonianza di un giovane e al tempo semisconosciuto Alessio Sakara), tra nitidi ritratti di fighter e vivide atmosfere delle palestre di periferia. In un altro suo libro dal titolo Quando vi ucciderete, maestro?, Franchini va all’origine del rapporto tra letteratura e boxe. Scrive: «Che fino a un certo punto il desiderio di dedicarsi alle discipline del combattimento, come quello di volgersi alla letteratura, nasca da qualche frustrazione che può placarsi solo nell’esercitare un dominio è un fatto scontato. […] Per tutti i suoi significati simbolici la boxe è stata fin troppo amata dagli scrittori. Il pugilato è letterario perché è estremo, perché è sempre contiguo alla disfatta ma non esclude il miraggio della gloria, e perché, come la scrittura, è un’apoteosi della solitudine». Gli sport da combattimento ricorrono continuamente, e sotto diverse forme, nella produzione letteraria di Franchini. Quando cominciamo a parlare mi spiega: «Ho iniziato da sedicenne, con la lotta libera e greco-romana. Dopo un periodo in cui mi sono dedicato alla pesistica ho scelto di cimentarmi con serietà e dedizione in alcune discipline di striking, in particolare savate, boxe e kickboxing, quando avevo già 27 anni. Qualche tempo dopo sono passato al judo e al jiu jitsu tradizionale, sono cintura nera in entrambi, che oggi pratico anche in versione brazilian. E infine ho sperimentato una serie di arti marziali orientali giapponesi, cinesi e filippine come l’Aikido, il Wing Chun e il Kali». Perché un intellettuale decide di entrare per la prima volta in una palestra?[reply]Mi ha spinto un desiderio mistico. L’esperienza fisica e d’intelletto del combattimento ha sempre fatto parte della mia vita. La figura archetipica del guerriero ha esercitato su di me un fascino potente sin dal principio. Sono cresciuto negli anni Settanta, sospesi tra un’immensa popolarità delle arti marziali orientali grazie ai film di Bruce Lee, la stessa popolarità che forse oggi è stata raggiunta da UFC e dal suo alto tasso di spettacolarità, e un estremo sospetto, dato che la cultura giovanile dell’epoca era improntata al pacifismo, con un rifiuto netto della violenza.[/reply] Che cosa l’ha conquistata praticandoli?[reply]Il loro contenuto intellettuale, la creatività che esprimono. Nelle discipline di lotta è particolarmente evidente: c’è una scienza, una sapienza del corpo per cui muovendolo di pochi centimetri si passa da una sconfitta bruciante a una vittoria incredibile, ribaltando una posizione o liberandosi da una presa. Un singolo movimento salva oppure condanna. In questo ho sempre visto un elemento di creatività artistica, così come sono artistici i movimenti di un pugile, forse ancora di più rispetto al lottatore. Quando si lotta si ha un repertorio vastissimo di tecniche a cui si può ricorrere, nel pugilato invece ci sono solo tre colpi: jab, gancio e montante. Variandoli nel confronto tra due atleti si crea uno spettacolo che dura per dieci o dodici round. È un fenomeno abbastanza impressionante.[/reply]E gli sport da combattimento come hanno influito su di lei?[reply]Mi piacerebbe dirti che mi hanno dato sicurezza, disciplina, senso del sacrificio, ma non voglio darti una risposta retorica. Mi hanno donato un senso inesausto di meraviglia. Ancora adesso quando vedo in azione lottatori o pugili molto bravi mi sorprendo come se fosse la prima volta, mi meraviglio per la bellezza e l’efficacia dei loro movimenti. Ed è proprio questo che io chiedo all’arte, intesa in senso ampio: di emozionarmi per lo stile, ma anche per i contenuti.[/reply]

Antonio Franchini: editor, scrittore, praticante di arti marziali e sport da combattimento (Credits: Il Libraio.it)

Da dove è nata l’esigenza di raccontare il fighting in alcuni dei suoi libri?[reply]Sono discipline che connettono a una realtà estrema, permettendo a chi gli si avvicina di vivere un’esperienza difficilmente accessibile per gli uomini di oggi. Antonio Scurati teorizza il fatto che viviamo un’epoca di inesperienza, dove è difficile – appunto - fare esperienze forti, che vale la pena raccontare. Io invece, come un giorno mi ha fatto notare proprio il mio amico Scurati, ho “inseguito per tutta la vita l’illusione della realtà”. Ma è perché sono convinto che alla fine la realtà non sia un concetto completamente illusorio. Quando qualcuno indossa i guantoni e prova davvero cosa significa andare incontro ad un pugno, o la furia di una proiezione, sperimenta una realtà molto tangibile, il suo corpo accede a una forma di conoscenza profonda. È un’esperienza così intensa e formativa che genera conoscenza, e perciò merita di essere raccontata e condivisa. Ecco perché ne ho scritto.[/reply]Oggi trova ci sia spazio per il fighting nella cultura e nella società italiana, sia a livello di produzione artistico-letteraria che come pratica sportiva? [reply]Il combattimento fa parte di una dimensione ancestrale, costitutiva e intima dell’essere umano. Siamo determinati da ciò che ha segnato la nostra formazione e storia evolutiva. La banalizzo: la paura del buio deriva dal fatto che per millenni al calar del sole siamo stati indifesi, esposti ai predatori, ed è un istinto che è ci è rimasto, ha segnato la nostra psiche. Beh, l’essere umano fino a gran parte dell’Ottocento ha combattuto. Saper tirare di spada, sapersi difendere faceva parte del bagaglio culturale di quel periodo, permetteva alle persone di sopravvivere. Abbiamo smesso di combattere da appena un secolo circa. Resta nel nostro DNA. L’uomo ha imparato prima a combattere e poi a scrivere, non c’è dubbio. Dante Alighieri era un soldato, Eschilo ha combattuto in prima persona contro i persiani a Maratona, e sulla sua lapide ha voluto menzionare questo aspetto, non l’attività da tragediografo per cui è passato alla storia.[/reply]Perché gli sport da combattimento in Italia subiscono uno stigma? Forse ha a che fare con l’influenza che la cultura cristiano-cattolica ha sempre avuto nella nostra società?[reply]Perché sono falsamente connessi a un’idea di violenza gratuita. No, non penso ci sia quel tipo di influenza, dato che nel Cristianesimo troviamo un culto delle armi piuttosto radicato, basti pensare alle crociate. Sono fenomeni che hanno riguardato sia l’Oriente che l’Occidente. Siamo abituati a considerare le discipline marziali come orientali, ma è un errore: la codifica delle tecniche di combattimento appartiene nella stessa misura a entrambe le tradizioni. La differenza è che in Oriente nel corso dell’Ottocento ci sono state alcune figure fondatrici delle arti marziali più note che le hanno promosse non solo come un processo di apprendimento del combattimento, ma le hanno poste come pilastro dell’educazione della gioventù e dell’uomo nuovo. L’intenzione non era quella di insegnare uno sport, ma uno stile di vita. Ed è per questo che le discipline in oggetto sono sopravvissute alla modernità, cosa che in Occidente non è avvenuta.[/reply] Perché in Italia esiste così poca letteratura sportiva di qualità? [reply]Secondo me ne abbiamo in buona quantità considerando il contesto, abbiamo avuto molti scrittori eccellenti di pugilato, da Brera alla Audisio fino a Grossi. Ovviamente la nostra tradizione è relativa rispetto, ad esempio, a quella americana. Un Norman Mailer in Italia non è mai esistito. Ma sai perché? Perché non c’è mai stato neanche un Muhammad Ali, un fenomeno che ha segnato un’epoca, una musa ispiratrice con i guantoni capace di stimolare una produzione letteraria simile a quella americana. Senza questo tipo di personaggi è più difficile, considerando anche che negli Stati Uniti lo sport in generale - e la boxe in particolare - hanno sempre influenzato profondamente la società, e viceversa. Ne è stata una rappresentazione fedele, ricca di spunti e contenuti culturali che hanno stimolato molti autori.[/reply]

Franchini (con il kimono bianco) in un momento di lotta con Fernando Moya, cintura nera di brazilian jiu jitsu.

Come si spiega il fascino che la boxe ha sempre suscitato in scrittori e artisti di diverso tipo?[reply]Lo scrittore di solito è affascinato dalla quotidianità, dalle piccole cose, oppure da tutto ciò che è estremo ed eccessivo, di cui il pugilato rappresenta il massimo grado. Per questo spesso chi scrive ne è sedotto. Chi si interessa di confronti tra esseri umani prima o poi si imbatte nella boxe: due uomini che combattono ad armi pari in un contesto ritualizzato assumono un significato metaforico imponente.[/reply] Mi descrive la connessione tanto intima che hai riscontrato tra due figure – lo scrittore e il pugile - così diverse?[reply]Ci sono somiglianze impressionanti, anche con il modo di confrontarsi con la tradizione. Entrambi si iscrivono immediatamente a un filone che ne guiderà l’opera, ricercano loro predecessori che gli assomigliano, dei padri spirituali. Mike Tyson che va sulla tomba di Sonny Liston stabilisce un contatto: Liston – come scrive Mailer – era il ritratto del nero cattivo, proprio come spesso è stato rappresentato Tyson, che non a caso vede in Liston un suo predecessore. Per gli scrittori è lo stesso.[/reply] Pensa che Hemingway sia stata la figura più rappresentativa di questo discorso? [reply]Hemingway rappresenta per molti il trionfo dell’epicità e di ciò che viene vissuto in prima persona, però ha passato la sua vita a scrivere sulla letteratura. Quindi simboleggia un assoluto punto di fusione tra le due dimensioni. Lo abbiamo visto ritratto con i guantoni perché aveva già una visione moderna di autorappresentazione, in anni in cui a uno scrittore non sarebbe mai venuta in mente una cosa del genere, ma non era certo un pugile. Anzi, il rapporto vero di Hemingway con il pugilato non si vede nelle foto, piuttosto nella pagina.[/reply] Nel suo libro scrive anche: «Al cinema, la boxe è l’unico sport che abbia dato vita a un genere». Che cosa rende il pugilato così cinematografico? [reply]La boxe, evocando il trionfo e la vittoria, consente la narrazione di ciò che è molto più importante del successo, ovvero la sconfitta. Il racconto del pugilato è il racconto della sconfitta. Il cinema e l’arte in generale lavorano sulle disfatte, sulle storie di rivalsa, laddove ci sia sofferenza c’è anche sostanza per una narrazione. In un altro ambito Tolstoj diceva che la letteratura racconta le famiglie infelici, non quelle felici.[/reply] La cito ancora: «I pugili sono molto più “artisti” di qualsiasi artista: le depressioni, i deliri di onnipotenza di alcuni pesi massimi sono stati grandiosi come gli eccessi di Caravaggio o di Van Gogh». Finiamo quindi con l’arte: cos’hanno in comune Caravaggio e Mike Tyson? [reply]La mancanza di un senso del limite e della misura. Caravaggio è il pittore che riscatta la prostituta, l’assassino, il baro e ne fa oggetti d’arte splendidi. Tyson è l’uomo più forte del mondo – il campione dei pesi massimi – che non trae appagamento ed equilibrio dalla sua condizione, ma solo sentimenti negativi che alimentano la sua anima infestata dai fantasmi.[/reply]Più cervello che muscoli[reply]Gene Tunney difende con successo il titolo del mondo in due occasioni, una di nuovo contro Dempsey in una sfida passata alla storia come “il match dal lungo conteggio”, che ha salvato Tunney da un KO tecnico. A quel punto decide di ritirarsi dopo aver sofferto di amnesia. Tunney è una di quelle figure simbolo dell’intelligenza che un pugile deve necessariamente avere per imporsi. Sul ring la strategia e la lucidità surclassano l’impeto e la forza bruta, al contrario di quello che si crede. Non bisogna stupirsi che attirasse scrittori e artisti, sempre alla ricerca di un capitale umano, emotivo, esperienziale a cui ispirarsi. Le storie sul pugilato e i loro protagonisti forniscono spunti in abbondanza, perché riguardano le inquietudini degli uomini e i modi in cui alcuni di loro si mettono alla prova alla ricerca del proprio posto nel mondo. [/reply]

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