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Valerio Moggia

L’assoluzione di Mendy non è il punto

Cosa ci dice la sua vicenda sulla cultura dello stupro nel calcio.

Benjamin Mendy non è colpevole né di stupro né di tentato stupro: lo scorso 14 luglio il difensore francese del Manchester City ha visto chiudersi anche l’ultimo processo a suo carico, dopo quello che lo aveva assolto da altre sette simili imputazioni lo scorso gennaio. Una sentenza del genere non può ovviamente non generare discussioni, in un senso o nell’altro: molte denunce da donne diverse, che avevano fatto pensare fin da subito a un caso inattaccabile. Cosa è successo allora in quelle notti nella sua casa di Manchester? È realistico pensare davvero a un complotto ordito da un gruppo di donne?

 

La verità non la sapremo mai, quella che conosciamo è la cosiddetta verità processuale. Il caso è stato giudicato da una giuria popolare, che non è tenuta a fornire alcuna motivazione, ma solamente a esprimere un verdetto di colpevolezza o non colpevolezza. Nel dicembre 2022, Manolo Portanova è stato condannato in primo grado per stupro in Italia: la sentenza è stata emessa da un giudice, che nei giorni successivi ha dovuto pubblicarne le motivazioni, ovvero illustrare la verità emersa nel processo e i motivi che legittimano la sentenza di colpevolezza dell’imputato. Questa cosa, con Mendy, non succederà. Così come non ci sarà alcun ricorso in appello (come invece ha fatto la difesa di Portanova), dato che nel Regno Unito il verdetto di una giuria è inappellabile. Quindi è semplicemente inesatto (come hanno fatto alcuni giornali) dire che le accuse contro di lui sono “false”: in realtà la giuria non le ha ritenute sufficienti a dimostrarne la colpevolezza. Il motivo per cui questo è avvenuto, però, non è noto.

 

Tuttavia, l’opinione pubblica si è già divisa, e in particolare quella dei calciatori. Sotto a un post su Instagram che annunciava il verdetto in favore del difensore francese sono comparsi innumerevoli like di noti colleghi calciatori: Kieran Trippier, Marcus Thuram, Ousmane Dembélé, Dominik Szoboszlai, Antonio Rüdiger, João Cancelo, Jérôme Boateng, Georginio Wijnaldum, Neymar, Moise Kean, Virgil van Dijk, Nicolò Zaniolo, David Alaba, Vinícius Júnior. Un campionario del meglio del calcio mondiale, interamente schierato a supporto del collega. Sul proprio profilo Instagram, Pogba ha pubblicato una foto di se stesso con Mendy con la caption: “Molto felice per te, bro”. Vinicius è andato oltre, pubblicando sul suo profilo Twitter un lungo messaggio su come la “cultura di distruggere la reputazione calciatori” avesse fatto “un’altra vittima”: “La mia domanda è: cosa verrà fatto per riparare il danno?”.

 

Come ha notato anche Sarah Shephard su The Athletic, è strano vedere così tanti calciatori, una categoria di solito molto restia ad esprimersi su temi sociali, pronti a dire la propria su un caso che non li riguardava direttamente. Eppure ci si potrebbe chiedere quale sia il problema. Mendy è stato assolto, non c’è nulla di male se i suoi colleghi ne sono lieti. O no? 

 

Le false accuse

Benjamin Mendy non è stato il primo calciatore accusato di stupro e nemmeno l’ultimo, dato che dopo il suo arresto altri casi simili sono emersi in giro per il mondo. Eppure è quello che più di tutti ha calamitato l’attenzione generale, sia per la fama del giocatore (un campione del mondo del 2018, sotto contratto con uno dei club più forti d’Europa) sia per il gran numero di denunce contro di lui. Per alcuni, è diventato il simbolo di una cultura maschilista e prevaricatrice ben presente tra i giocatori di calcio; per altri, l’emblema della vulnerabilità dei calciatori famosi a ragazze in cerca di ricatti che possono valere una fortuna.

 

«Non possiamo accettare che questo accada a noi atleti. Chi ci difenderà nel momento del bisogno, e non quando il danno è già stato fatto?» si è sfogato Memphis Depay dopo la chiusura del caso Mendy. Da queste parole appare chiaro che l’attaccante olandese non sta parlando solo di uno specifico processo, ma di qualcosa di più grande: «Chi difende noi atleti?» ha aggiunto subito dopo, a rimarcare il punto. Depay sottintende un timore evidente: che in quanto sportivi famosi siano esposti al pericolo di false denunce da parte di donne arriviste. La fondatezza di questo timore, per il momento, è di scarsa rilevanza, rispetto all’esistenza stessa del timore. E sembra di scarsa rilevanza anche il fatto che poche ore dopo l’assoluzione Mendy abbia immediatamente trovato una squadra in Ligue 1, il Lorient. Certo, il Lorient non è il Manchester City, ma non bisogna dimenticare che il terzino francese veniva da due infortuni gravi al ginocchio tra la stagione 17/18 e 18/19 (dopo essersi già rotto il crociato al Marsiglia, nella stagione 15/16), e al di là del processo difficilmente sarebbe riuscito a rimanere in una squadra così competitiva come quella di Guardiola.

 

In ogni caso non è un problema solo del calcio. È generalmente diffusa, nella cultura maschile, la convinzione che le donne possano rappresentare un pericolo, che basta una denuncia per molestie per rovinarti la vita. Questa narrazione è emersa con ancora maggiore forza negli anni successivi alla nascita del movimento MeToo e al caso Weinstein. Ma, almeno in Europa, è probabile che i calciatori abbiano un potere persuasivo e sociale maggiore di un produttore di Hollywood e dei suoi consociati. Il sito Versus ha definito «motivo di preoccupazione» la reazione di tante figure come Depay al verdetto su Mendy. «Nel migliore dei casi, – riporta il comunicato – è una richiesta fuori luogo e irresponsabile di maggiore protezione per un gruppo di uomini che ha già più privilegi, potere e ricchezza di tanti altri. Nel peggiore, è una bigotta chiamata alle armi per giovani e impressionabili tifosi ad unirsi attorno all’idea che le donne devono essere temute».

 

Quest’ultimo punto dovrebbe interessarci particolarmente. I calciatori sono spesso modelli di comportamento per i giovani tifosi: hanno una grande responsabilità sulle loro spalle, quella di poter influenzare le generazioni che si stanno affacciando al mondo. E a proposito di questo sarebbe utile ricordare il contesto che avvolge questi casi. Nel Regno Unito, solamente l’1% dei casi di stupro denunciati si conclude con una condanna. I casi sono due: o in Gran Bretagna esiste una quantità eccezionalmente alta di donne che denunciano stupri inventati di sana pianta, o c’è qualcosa che non funziona nel meccanismo giuridico o nel modo in cui vengono condotte le indagini. Secondo la criminologa Katrin Hohl, il motivo principale di questo dato è che i continui tagli alla Giustizia e le pressioni governative per ottenere processi veloci hanno portato alla creazione di un sistema minato alle fondamenta, in cui le indagini sono spesso affidate ad agenti inesperti e non adeguatamente formati su come indagare un caso di stupro, e in cui le stesse vittime non ricevono adeguato supporto psicologico nel corso dell’indagine. 

 

È quanto meno discutibile, poi, il motivo per cui una donna dovrebbe inventare un falso stupro subito da un calciatore. La risposta più frequente, a questo punto, è che lo fanno per soldi: denunciare e poi farsi pagare per ritirare le accuse, scommettendo sul bisogno del giocatore di non infangare il proprio nome. Ma il caso Mendy sembra dimostrare che la reputazione del giocatore fosse già stata compromessa nel momento stesso in cui è stato accusato: a quel punto, pagare l’accusatrice può avere scarso effetto. Inoltre, come abbiamo visto, i dati dimostrano che, almeno nel Regno Unito, è molto più facile ottenere un verdetto di non colpevolezza che una condanna. Ciò significa che un calciatore innocente accusato di stupro ha tutto l’interesse ad andare a processo per ottenere una piena assoluzione, e che pertanto un ricatto di questo tipo avrebbe scarse possibilità di successo. 

 

Per dire, le donne che hanno portato in tribunale Mendy non hanno ottenuto nulla, e anzi i resoconti giornalistici del processo descrivono delle persone emotivamente molto provate da quanto passato in aula. Per fare un altro esempio, il caso contro Ryan Giggs si è sciolto quando la sua ex-compagna e accusatrice, Kate Greville, ha deciso di non collaborare più con la polizia, dicendo di sentirsi “logorata” e “violata” da tutto il processo.

 

Una cultura della stupro

Nel 2015, il Brighton decise, dopo un’accusa di stupro che aveva coinvolto quattro giocatori del suo settore giovanile, di mandare tutti i suoi ragazzi a un corso educativo sul consenso sessuale. Si trattava del programma PIP (Protect, Inform and Prevent) organizzato dall’associazione Life Center e da Liberton Investigations. A quel tempo, la pagina che illustrava il corso sul sito di Liberton ne chiariva le finalità, rivelando alcune cose sorprendenti: «il corso avrà lo scopo di prevenire le attività e le accuse di sesso non consensuale, attraverso il lavoro con gli sportivi affinché essi accrescano la comprensione della propria vulnerabilità rispetto alle accuse di attività sessuale ingiustificata». Non era un corso necessario a comprendere che ‘no significa no’, ma a imparare a difendersi dalle adescatrici: «È un sogno per molte giovani donne essere romanticamente legate ad atleti, in particolare calciatori». E ancora: «Nella società odierna c’è un grande impeto nei confronti della polizia e del Crown Prosecution Service, da parte dei politici e di gruppi lobbistici, affinché aumenti il numero delle accuse per stupro e reati sessuali». Quella pagina del sito è stata rimossa, ma si può recuperare attraverso Wayback Machine.

 

Il concetto portato avanti dal programma PIP, a cui il Brighton decise di affidarsi otto anni fa per educare i propri giovani calciatori, rende bene l’idea del modo in cui il sistema del calcio maschile vede le donne. Ed è esattamente quel modo a cui allude Memphis Depay: un potenziale pericolo per la carriera. Questo pensiero si integra, paradossalmente, con la consapevolezza da parte di tanti calciatori di poter avere accesso a qualsiasi donna, in virtù del loro status. «Il modo in cui mi si avvicinano non è dovuto al mio aspetto, ma al calcio»: lo ha detto Benjamin Mendy al processo, spiegando come sia abituato, da quando ha 18 anni almeno, ad andare a letto con molte donne. Non è un dettaglio da tabloid, ma uno degli elementi su cui è stata costruita la sua difesa: un calciatore non ha bisogno di stuprare una donna. «Avremmo potuto avere qualsiasi donna in quel locale. Siamo calciatori, siamo ricchi e abbiamo denaro: questo piace alle ragazze»: questo non lo ha detto Mendy nei giorni scorsi, ma Ched Evans alla polizia gallese nel 2011.

 

Ched Evans non è mai stato un calciatore famoso, e il motivo per cui ha ricevuto notorietà internazionale è perché quell’anno, mentre giocava in Championship con lo Sheffield United, lui e il suo amico e collega Clayton McDonald, vennero accusati di stupro ai danni di una ragazza di 19 anni. Il caso contro di loro pareva solidissimo: la ragazza si era presentata la mattina seguente dalla polizia, i due giocatori avevano confermato di aver avuto un rapporto a tre con la giovane, diversi testimoni avevano affermato di averla vista poco prima dello stupro ubriaca fino al punto da non riuscire a reggersi in piedi, e quindi sicuramente incapace di dare un reale consenso al rapporto. Dopo un’iniziale condanna, il 13 ottobre 2016 il Tribunale di Cardiff dichiarò Evans e McDonald non colpevoli. Questa storia sconcertante è stata raccontata con dovizia di fonti e di particolari da Pippo Russo nel suo Calcio e cultura dello stupro. Il caso Ched Evans.

 

Ma questa è solo una parte della vicenda. Il suo contorno è quello che successe a X, la vittima, il cui nome è sempre stato omesso dai media, come stabilito dalla legge. Un nome che invece venne fuori su Twitter, dando inizio a un incubo: la ragazza venne bersagliata da insulti e minacce online (soprattutto da tifosi dello Sheffield), dovette cambiare nome due volte e abbandonare il suo luogo d’origine per poter vivere una vita tranquilla. Nel frattempo, la reputazione di X veniva demolita dalla difesa di Evans, che la fece passare per una ragazza abituata a ubriacarsi e ad avere numerosi rapporti sessuali occasionali. Quando si parla del rischio di “carriera rovinata”, forse bisognerebbe pensare anche a questo. Allora, come spiegato da Pippo Russo nel suo libro, il meccanismo processuale venne forzato a favore del calciatore, ammettendo eccezionalmente testimonianze di soggetti terzi che non avevano nulla a che vedere con il caso, nonostante una legge del 1999 lo vietasse. Questi testimoni sono intervenuti a garantire l’ottima reputazione dell’imputato e oggi questa pratica è diventata usuale, nei processi per stupro contro i calciatori nel Regno Unito. A testimoniare a favore di Mendy è comparso Pep Guardiola, mentre per Giggs lo ha fatto Alex Ferguson.

 

Questo è un piccolo quadro di quella che viene chiamata rape culture, cultura dello stupro. Che non significa che tutti i calciatori (o tutti gli uomini) sono stupratori, ma che esiste una diffusa cultura per cui gli atti di prevaricazione sessuale, dalle molestie allo stupro propriamente detto, vengono normalizzati, tollerati e, in alcuni casi, addirittura incentivati. Come quando nel 2018 diversi tifosi dell’Inter augurarono letteralmente lo stupro a Chloe Sanderson, moglie di Davide Santon, o quando nel 2016 alcuni tifosi arrivarono ad augurare lo stupro alla figlia di Jamie Vardy, che all’epoca aveva 16 mesi (sì: mesi). Ma non c’è bisogno di andare a casi così estremi, basta pensare a quello che è successo nel 2021 alla giornalista sportiva Greta Beccaglia, palpata da un tifoso fuori dallo stadio di Empoli. Una volta individuato, il responsabile si è scusato, ma al tempo stesso ha cercato di giustificarsi dicendosi deluso per il risultato della partita: «Non volevo parlare con nessuno, solo andare alla macchina». Il contesto sportivo è stato implicitamente usato come attenuante per la molestia. Un anno dopo, l’uomo è stato condannato a un anno e sei mesi di prigione, e Beccaglia ha raccontato di avere ricevuto numerosi messaggi di minacce sui social, tra cui ovviamente un augurio di stupro.

 

Questo contesto – che non è solo del mondo del calcio ma in esso è particolarmente forte per una serie di ragioni storiche e sociali – rende emotivamente molto scomodo denunciare molestie, se non addirittura stupri che coinvolgono atleti, anche più di quanto non lo sia con persone comuni. In contesti ancora più specifici, come ad esempio quello britannico, i dati ci dicono che quasi nessun processo per stupro si conclude con una condanna dell’imputato, e secondo gli esperti ciò ha profonde ragioni sistemiche, che hanno a che vedere con i meccanismi della giustizia più che con le accuse in sé. Considerato tutto ciò, parole come quelle di Depay, o anche molti commenti che si leggono online e che sentenziano come “false” le accuse (senza nemmeno considerare cosa è realmente avvenuto in aula) sono, riprendendo Versus, irresponsabili.

 

L’idea di un “complotto femminile” contro i maschi, e di una società che oggi favorisce questo genere di accuse (contro ogni evidenza statistica che ci arriva dai tribunali), è un vecchio pallino della destra radicale, un fenomeno da curare attraverso un ritorno a una società più rigidamente patriarcale e maschio-centrica. Adesso, però, rischia di trovare nel calcio il megafono perfetto per diffondersi su larga scala, alle nuove generazioni di tifosi e cittadini.

 

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Valerio Moggia, nato a Novara nel 1989, è appassionato di calcio, storia e fenomeni sociali. Dal 2017 cura il progetto Pallonate in Faccia, un sito che si occupa di temi politici e storici legati al calcio; dal 2021 è anche un podcast. Nel 2020 ha pubblicato per UltraSport “Storia Popolare del Calcio. Uno sport di esuli, immigrati e lavoratori”. Nel 2022, per lo stesso editore, ha pubblicato “La Coppa del Morto. Storia di un Mondiale che non dovrebbe esistere”.