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Armand Duplantis come esperienza religiosa
25 set 2025
E altri momenti notevoli direttamente dai Mondiali di Tokyo.
(articolo)
17 min
(copertina)
IMAGO / Chai v.d. Laage
(copertina) IMAGO / Chai v.d. Laage
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C’è un inizio e una fine. Sempre. Da lì, da uno di quei due capi, si parte solitamente per raccontare ciò che sta nel mezzo. Poi ci sono le eccezioni, le storie prese di sbieco, di lato, da lontano. Ecco, i Mondiali di atletica leggera di Tokyo non si possono raccontare se non partendo dall’alto.

Perché ritrovarsi ad abbassare lo sguardo e trovarci sotto Armand Duplantis, lo sappiamo, è difficile. Se non impossibile. Eppure era da lì che l’ho ammirato mentre superava i 6 metri e 30 e batteva il suo ennesimo record del mondo. Il quattordicesimo, per l’esattezza.

Seduto nella porzione del secondo anello dello stadio nazionale di Tokyo che sovrasta asticella e materasso del salto con l’asta ho potuto constatare come anche per lui, come già accadde per Roger Federer, sia forse il caso di tirare in ballo l’esperienza religiosa.

So che può sembrare esagerato, ma l’aura mistica dei suoi ultimi tre salti è stata in grado di trascendere lo sport e farci entrare in un territorio altro: etereo, immateriale come l’aria, che è poi il vero elemento - impalpabile eppure reso così concreto dai numeri della misura da saltare - in cui si muove questa disciplina. L’aria, quindi, come strumento di comunicazione tra noialtri fedeli di una notte, tutt’intorno, e lui, sulla pedana, sacerdote di un rito il cui altare è stato posto a sei metri e trenta centimetri d’altezza. Raramente ho assistito (o meglio, contribuito) a una tale concentrazione di energia diretta verso una sola persona. Insomma, quella cosa dell’aria che si fa elettrica, della moltitudine che si compatta, del protagonista che brilla di luce propria e insieme di luce riflessa. Capita, alle volte, quando va bene, in quelle messe cantate moderne che chiamiamo concerti. Una di queste volte - e lo dico da non credente - è stata il giorno dell’elezione di Papa Leone XIV, vissuta dentro piazza San Pietro.

Poi vallo a spiegare che il salto con l’asta con la religione non c’entra. Ma se per religione s’intende una comunità di persone che crede nella stessa cosa, pregando che accada la stessa cosa: eccoci. Poi ci sono anche i miscredenti, per carità. Come i tre giamaicani tutti imbandierati davanti a me che, una volta finita la gara - cioè quando il greco Karalis si è schiantato sull’estremo tentativo di superare i 6 metri e 20 per rimanere in corsa per l’oro - hanno preso i loro zaini e se ne sono andati. Chissà che avevano di così importante da fare. O quelli - non pochi, da quel che ho visto - che sono passati dalla tv ai social vomitando insulti verso Duplantis per il fatto che “ormai è una noia” e supera il suo stesso record un centimetro alla volta, “solo per guadagnare di più, rifilandoci la solita pantomima”. Certo, ogni record vale 150mila dollari (sponsor esclusi), e i guadagni extra non dispiaceranno allo svedese, ma credo che in quel momento a contare di più sia la gioia di rivivere e far rivivere l’emozione della prima volta.

Andiamo da sempre in cerca, tra una madeleine e l’altra - che sia un piatto di famiglia, una canzone, un film, un primo bacio - del ricordo di ciò che ci ha fatto stare bene quando avevamo ancora tutta la vita davanti.

E mentre noi, nei nostri tentativi - spesso goffi (riferimento cinematografico ineludibile: la scena delle aragoste in Io e Annie) - di ricreare quei momenti passati, ci allontaniamo dall’originale, perdendo inevitabilmente pezzi, lui il suo record può - almeno per ora - ricrearlo sul momento, riviverlo pienamente, renderlo di nuovo realtà, ingannando il tempo senza barattare secondi, mesi, anni, ma un centimetro alla volta. Guardarlo da lassù, dentro uno stadio tutto per lui (le altre gare erano già concluse), mi ha fatto capire che quel superarsi un centimetro alla volta sarà pure un regalo al suo conto in banca, ma lo è anche a chi tifa, a chi c’è nel qui e ora. E a chi non fa piacere ricevere un regalo?

Il finale del salto con l’asta, poi, è stato un tutto un susseguirsi di gesti gentili e non richiesti, in qualche maniera inattesi e quindi più facilmente in grado di generarne altri. A Mondiali finiti, posso dirlo con certezza, in nessun’altra disciplina ho ritrovato la camarederie degli astisti, sempre pronti a spronarsi, consolarsi e abbracciarsi, a ridere di gusto dopo essersi detti chissà cosa, a pochi secondi da un salto che poteva valere una medaglia o una carriera per una cosa detta proprio da chi quella medaglia avrebbe potuto togliertela. E così, eccoli tutti in fila ad incitare il pubblico, battendo le mani mentre in tre si giocano il bronzo, o quando il greco Karalis tenta il tutto per tutto. O lo stesso Karalis, che vedendo Duplantis seduto accanto a lui mentre prova a rinfrescarsi con un ventilatorino nella calura settembrina giapponese, gli prende il ventilatore portatile di mano e inizia a puntarglielo addosso cercando di capire dove ne ha più bisogno. Un piccolo gesto che fa sorridere e insieme intenerire il pubblico a cui esce uno di quegli “ohhh” striduli di solito riservati alla vista di bambini e cuccioli. degli astisti, sempre pronti a spronarsi, consolarsi e abbracciarsi, a ridere di gusto dopo essersi detti chissà cosa, a pochi secondi da un salto che poteva valere una medaglia o una carriera per una cosa detta proprio da chi quella medaglia avrebbe potuto togliertela. E così, eccoli tutti in fila ad incitare il pubblico, battendo le mani mentre in tre si giocano il bronzo, o quando il greco Karalis tenta il tutto per tutto. O lo stesso Karalis, che vedendo Duplantis seduto accanto a lui mentre prova a rinfrescarsi con un ventilatorino nella calura settembrina giapponese, gli prende il ventilatore portatile di mano e inizia a puntarglielo addosso cercando di capire dove ne ha più bisogno. Un piccolo gesto che fa sorridere e insieme intenerire il pubblico a cui esce uno di quegli “ohhh” striduli di solito riservati alla vista di bambini e cuccioli.

Questa scena si svolge poco prima del secondo tentativo di record (poi fallito) da parte dello svedese, di cui il pubblico segue ogni movimento, anche impercettibile, in cerca di un segnale, una premonizione: è stupefacente il dialogo senza parole che ne segue. Quando Duplantis fa qualcosa, letteralmente qualsiasi cosa, come prendere un asciugamano, alzare un braccio o cambiare posizione, il pubblico applaude; se è immobile, quando il pubblico applaude, lui - di rimando - fa qualcosa. Arrivato all’ultimo tentativo, quando per regolamento avrebbe diritto ancora a qualche minuto di tempo, un boato dagli spalti particolarmente forte lo fa alzare di scatto e dirigere verso la pedana. Il volume tutt’intorno si alza ancora di più (e non è un’impressione, sul campo, tra i vari schermi, ce n’è uno che misura i decibel).

Poi il salto, il silenzio sospeso, l’asticella che si muove, pure troppo, rispetto al solito, ma non cade, mentre lui rimbalza sul materasso e si lancia tra le braccia di uno dei suoi avversari, sommerso poi dagli altri. L’euforia è collettiva: gli svedesi mostrano vessilli e bandiere, i giapponesi saltano, si ricompongono e poi saltano di nuovo, infischiandosene infine della compostezza e cercando mani straniere, non importa di che nazionalità, per “scambiarsi un gesto di pace”: un high five.

Nel frattempo Duplantis, con quell’aria da divo del cinema francese che ha scelto un’altra carriera, ha già fatto un inchino che ha mandato in delirio il pubblico, è già corso in tribuna a baciare la sua svedesissima fidanzata Desiré.

Lì per lì nemmeno ci faccio caso: per una volta, anche se è tutto finito, non se ne sta andando quasi nessuno. Non è accaduto né mai accadrà per tutta la durata dei Mondiali, con la stragrande maggioranza dei giapponesi che un secondo dopo la fine dell’ultima gara schizzavano verso l’uscita direzione metropolitana come se uno starter per me impercettibile innescasse la loro partenza simultanea.

Oltre a Duplantis e alle gioie collettive ci sono state quelle più ristrette, nazionali se non addirittura private, come il gruppetto di quattro ragazze britanniche scatenate -nel disinteresse generale - durante le prove di eptathlon a cui partecipava una loro amica. I giapponesi, invece, hanno un debole particolare per i loro eroi senza speranza. E gli eroi senza speranza fanno di tutto per ricambiare quell’affetto, con due loro portacolori che a un certo punto si mettono davanti per un paio di giri nella finale dei diecimila metri - come capita nel ciclismo quando un concorrente passa per il paesino dove è nato e cresciuto - tirando il gruppo tra gli schiamazzi di un pubblico impazzito che, o non sa o fa finta di non sapere che quel momento durerà poco e i due finiranno inghiottiti dal gruppo, a decine di metri da chi si giocherà davvero la medaglia.

Ma i giapponesi, la cui gioia davanti a un loro atleta in pista o in pedana è quasi bambinesca, sanno essere anche spietati con i loro beniamini. Rachid Muratake si presentava tra i favoriti nella finale dei 110 ostacoli, con il secondo tempo stagionale (che qui gli avrebbe garantito l’oro per tre centesimi). Arrivato quinto, fuori dal podio, è stato subito braccato per un’intervista in cui lo si vede da subito in difficoltà a parlare e con il naso che gli cola che lo fa assomigliare a un vecchio cartone animato giapponese. Incalzato dall’intervistatore, Muratake crolla in un pianto a dirotto, si accascia su se stesso e non riesce più a dire nulla di sensato (o almeno credo, visto che parlava in giapponese, ma erano più singhiozzi che altro), il giornalista, al posto di farlo riprendere, di dargli il tempo di respirare, o - ancora meglio - permettergli di andarsene, lo incalza e gli piazza il microfono in mezzo alle lacrime. Io mi sono immaginato qualcuno in regia che, implacabile, esortava via auricolare l’intervistatore a non mollare, un po’ come in Truman Show, quando il creatore del programma insiste nel voler far vedere in diretta la scena del naufragio del povero Truman in fuga, costretto a rimanere in video suo malgrado, anche fino alla morte se mai ce ne fosse stato bisogno.

Tra le altre bizzarrie locali, anche il fatto che i Mondiali di Atletica non sono stati in città l’evento più atteso in questi giorni, visto che in concomitanza, nella capitale, si è tenuto uno dei tre grandi tornei annuali di sumo, che ha attirato molte più attenzioni: ogni TV, dai bar ai negozi di elettrodomestici, fino agli spogliatoi dei sentō (i bagni pubblici dove i giapponesi vanno a rilassarsi, fare il bagno, socializzare) erano sintonizzate sul sumo. E così i Mondiali di atletica sono rimasti confinati in qualche poster nelle grandi stazioni e in improbabili video promozionali sulla metropolitana a metà strada fra Final Fantasy e la grafica dei vecchi giochi arcade.

In uno c’è un aereo che atterra in campo mentre una giavellottista sta lanciando, con l'attrezzo che supera in lunghezza il velivolo appena parcheggiato. In un altro, Duplantis deve superare una specie di piramide infuocata alta, ovviamente, 6 metri e 30; nel più paradossale si vede una saltatrice in alto pronta in pedana. Dal nulla compaiono tre giocatori della Nazionale di pallavolo esattamente sotto l’asticella, con tanto di scritta in stile videogioco a indicarne l’altezza: 2,05 per il più alto, che è anche la misura a cui è posta l’asticella. Lei parte e i tre pallavolisti simulano di seguirla con lo sguardo, ma se per due di loro l’effetto è più o meno riuscito, il terzo sembra non aver capito dove deve guardare, creando un effetto comico non voluto. A salto effettuato, e riuscito, partono sullo schermo sbrilluccichii e fuochi d’artificio in stile muro terminato in Mario Bros e simili.

Sugli stessi schermi passano intanto le notizie più giapponesi possibili, come quella che a un gruppo di studiosi di Tokyo sarebbe stato assegnato il premio Ig Nobel (il Nobel al contrario, nato con intento satirico, dato alle ricerche più assurde, surreali e inutili) per aver disegnato (non ricreato, proprio disegnato) le strisce delle zebre su delle mucche locali dimostrando che in questo modo verrebbero meno attaccate dai parassiti e dalle mosche dei bovini. «Ogni vincitore dell’Ig Nobel ha fatto qualcosa che inizialmente fa ridere le persone, e poi le fa pensare», ha detto durante la premiazione il fondatore del premio, Marc Abrahams. Sarà.

Video a parte, dentro lo stadio restano istantanee di giornate irripetibili (anche se, bisogna ammetterlo, non c’è la stessa magia delle Olimpiadi, anche se ci hanno provato, usando anche come colore ufficiale un viola quasi identico a quello di Parigi 2024). E quindi, in ordine sparso, un po’ di istantanee: “Pedro” di Raffaella Carrà in versione disco sparata a tutto volume tra un evento e l’altro, il tabellone dello stadio nostalgico con in un angolo l’orologio analogico per i 45 minuti delle partite di calcio, il martello di Zhang che si va a schiantare contro un microfono polverizzandolo, l’atteggiamento e la mise démodé, con tanto di fascetta colorata in testa, del fondista indiano Singh, che sembrava sbucato fuori da una di quelle vecchie cassette con Jane Fonda che insegnava ginnastica nell’era del boom del fitness fai da te. E poi il gruppone di giamaicani che dal primo all’ultimo giorno ha fondato un’inespugnabile enclave caraibica gialloneroverde piazzandosi davanti alla linea d’arrivo (quei biglietti costano una fortuna già per una sola sera), l’esultanza sorridente della vulcanica Tara Davis-Woodhall dopo l’oro nel lungo, i sei atleti del team rifugiati (da Sudan, Sud Sudan ed Etiopia) in gara tra gli applausi; i cognomi degli atleti tradotti in giapponese, ma non l’iniziale del nome, che è rimasta in alfabeto latino (il motivo sarebbe che, a differenza delle sillabe, i suoni delle lettere singole del nostro alfabeto non sono trascrivibili), i costi relativamente ridotti del cibo dentro lo stadio (e la bontà estrema del tramezzino con il maiale chiamato Amai Yuwako), la finale dell’asta femminile con sei concorrenti su otto il cui cognome iniziava per M (Moon, Morris, Moser, McTaggart e le due gemelle Moll).

E poi ancora l’ostacolista italiana Carraro che per lo speaker diventa Carrora, l’arrivo di Usain Bolt in borghese; Tamberi che, prima di schiantarsi tre volte contro l’asticella nello stadio che lo vide oro olimpico, tiene al pubblico una lezione su come si battono le mani a tempo; le rimonte in extremis nel peso femminile e quella, con l’ultimo salto, di Dallavalle (che quasi mi perdevo, visto che - erroneamente convinto che non ce l’avrebbe fatta - mi stavo spostando per vedere la finale dei 200 metri femminili da un settore migliore, cosa che non si potrebbe fare, ma visto che molti vanno via prima, si può tentare la fortuna, a parte nella zona all'altezza dell’arrivo, totalmente off-limits, con grosse barriere di protezione, pannelli schermati e uno staff motivatissimo), la finale dei 100 metri vista e poi festeggiata insieme a un gruppo di giamaicani in versione low cost, non sulla linea dell’arrivo, ma nel più economico settore esattamente di spalle ai velocisti, dietro ai blocchi di partenza.

Poi, ci sono state, ovviamente, le due meravigliose medaglie di Nadia Battocletti, prima non africana ad arrivare a podio nella stessa edizione sia su cinquemila che sui diecimila metri, ai cui successi fanno in qualche modo da contraltare le delusioni di Tamberi e Jacobs laddove trionfarono quattro anni fa, ma anche le due sfortunate batterie delle staffette azzurre della 4x100, che si sono dissolte nello stesso identico punto, come se quel riquadro di pista fosse maledetto per l’Italia. Per gli uomini, fatale è stato lo scontro in fase di slancio tra Jacobs e il sudafricano Dambile poco prima del primo passaggio di testimone. Una ventina di minuti più tardi, Vittoria Fontana si è infortunata perdendo completamente la testa. Seppur ormai già in netto ritardo era a meno di un metro dalla seconda staffettista Gloria Hooper, ma proprio non riusciva a liberarsi del testimone, che le è stato quasi strappato di mano mentre lei crollava a terra fino a dover essere portata via in sedia a rotelle.

Insomma, sembrava fosse successo già abbastanza, invece nell’ultima giornata di gare, complice un forte acquazzone, per un attimo si ferma tutto. Si decide in fretta e furia di rinviare l’inizio del lancio del disco e di bloccare le saltatrici in alto proprio quando sono in ballo le medaglie. In pista, invece, la 4x400 maschile prende il via comunque nella bufera, con gli americani che sembrano poter fare il vuoto, ma il Botswana recupera e alla fine vince dentro un boato che per un attimo fa pensare di essere a Gaborone e non a Tokyo. Fuorché gli americani, beffati nel finale, festeggiano tutti, a cominciare dai giapponesi.

Lo speaker, inebriato dalla gara, commenta un replay dal basso dove si vede quasi solo la pioggia battente a velare le gambe degli atleti, alza il volume e urla: «Guardate queste immagini, non ci si allena per cose del genere. O almeno, io non credo proprio che qualcuno lo faccia». Pochi minuti dopo, otto persone dello staff del Botswana, con tanto di tuta ufficiale e badge, fanno il loro personale giro di campo fuori dal campo, completando l’anello che congiunge le tribune a passo di danza aiutati dalle note che escono da una cassa bluetooth. Cantano una canzone a me incomprensibile e ballano felici, sorridenti, quasi in trance, trascinandosi dietro tutti quelli che incontrano: molti scattano foto fino a ritrovarsi dall’altra parte dello stadio, altri iniziano a ballare con loro. Finita la 4x100 maschile, è il turno di James Blake (argento con il Canada) a inscenare un fuori programma. Non solo, come molti, sale in tribuna, ma la supera, ed entra anche lui nel largo anello che fa da corridoio interno, ritrovandosi a tu per tu con venditori di birra e noodles, tifosi che escono dal bagno e si trovano davanti un vicecampione del mondo ancora in tenuta da gara e volontari spiazzati che non sanno come comportarsi. Dopo qualche foto con quello che sembra un amico e tanti sconosciuti, Blake rientra in campo.

Anche il salto in alto femminile, nel frattempo, è finito. Il pubblico inizia a sfollare mentre in pista inizia una specie di cerimonia di chiusura che definire sobria è già uno slancio di entusiasmo. La bandiera della World Athletics viene così issata e poi passata, a mo’ di testimone, dalle autorità giapponesi al vicesindaco di Pechino, che è dove si svolgeranno i prossimi Mondiali. Sfila in mezzo ai festanti volontari vestiti di viola anche sir Sebastian Coe (presidente di World Athletics, che è come si è ribattezzata la IAAF qualche tempo fa). Intanto i lanciatori del disco, alla stregua di bambini dimenticati a giocare al parco dopo la pioggia, continuano la loro gara fatta di scivoloni, cadute e dischi scaraventati contro la rete. Una gara ai limiti dell’irregolare e una pedana che proprio non si è trovato il modo di mantenere asciutta, con i volontari in giro a cercare più asciugamani possibile per almeno provare a tamponare un eccesso d’acqua che non sembra più a che fare con la pioggia, sempre più tenue, ma con una qualche stregoneria, come nella celebre scena di Fantasia in cui Topolino perde il controllo delle scope impazzite che continuano a svuotare secchi d’acqua fino ad allagare tutto. In qualche modo si arriva alla fine: a un certo punto si sono ritrovati in testa anche due fratelli, i lituani Mykolas (che arriverà secondo) e Martynas Alekna. Vincerà, come da pronostico, lo svedese Stahl, mentre l’ultima medaglia assegnata dell’intera manifestazione, quella di bronzo, è anche la prima di sempre per Samoa.

Il clou, però, almeno per me, è stata la serata di Mattia Furlani. Non solo per quel che ha fatto, ma perché non capita tutti i giorni di vedere un italiano vincere una medaglia d’oro stando seduti dietro a un campione olimpico: Gelindo Bordin, uno dei miei miti d’infanzia. Proprio lui che alla maratona di Seul 1988 fece impazzire di gioia un bambino di dieci anni che davanti alla TV pensava (e lo pensa ancora, dopo tutto ‘sto tempo) che le Olimpiadi siano tra le cose più belle mai create dall’uomo.

Comunque, ero a tanto così dal dirgliele quelle cose, d’altronde quando mi ricapita. Poi ho pensato che chissà in quanti gliele hanno ripetute negli anni, a tal punto che magari è diventata una scocciatura. Mentre decido se farmi avanti o no, Bordin (che indossa ancora la stessa marca di scarpe che indossava a Seul) inizia a commentare con il vicino di posto il salto con l’asta femminile. Quando la ceca Svabikova supera agevolmente i 4 metri e 75, ecco che Bordin se ne esce con «la ceca non ci vede una mazza, ma ha saltato bene». Ecco, non che si debba essere tutti comici di mestiere. Però boh, com’è che dicono? Mai incontrare i propri eroi.

Seguirà in realtà anche una piccola, grande perla di saggezza che è in effetti la chiave della vittoria di Furlani, in difficoltà nei primi salti. Forse perché voleva strafare, secondo Bordin: «Matti!!! Devi saltare 8.35, mica 9 metri!».

In quel momento ci sono due atleti a 8.33 - il giamaicano Gayle e il cinese Shi - e uno a 8.30, il campione olimpico in carica Ehammer. La gara è ancora lunga, ma l’ex maratoneta azzurro si rivelerà, oltre che ottimo consigliere, un oracolo. Da quel momento l’unico che farà più di 8.33 sarà Gayle, che si migliorerà di un solo centimetro. Al quinto tentativo ecco che Furlani piazza l’8.39 che vale l’oro. Un altro giro di salti non cambia lo stato delle cose e subito dopo parte dentro lo stadio Sarà perché ti amo, ormai nostro inno non ufficiale nelle grandi competizioni (a Parigi veniva sparata dagli altoparlanti a praticamente ogni oro azzurro prima di “Fratelli d’Italia”).

Parafrasando il poeta e la sua “Sfiorivano le viole”, i Ricchi e Poveri s’incontrarono, come Novaro incontrò Mameli, e insieme scrissero un pezzo tuttora in voga. Mentre io aspetto. Aspetto i prossimi Mondiali, tra due anni, a Pechino.

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