
Antonella Palmisano è il raro caso di un'atleta spinta dagli affetti e che, grazie a questi, a 34 anni, è ancora tra le migliori. Il suo argento nella 35 km al Mondiale di Tokyo 2025 porta i riflessi dell’oro, se mettiamo in conto la distanza non congeniale rispetto alla sua 20 km e il modo in cui è arrivato. Eppure è una medaglia di cui si è parlato di meno, come si è parlato di meno di quella d'oro - d'oro davvero - alle Olimpiadi di Tokyo del 2021, entrate nella storia dello sport italiano per quelle di Gianmarco Tamberi, Marcell Jacobs o della staffetta 4x100. La marcia, durante le Olimpiadi giapponesi, di medaglie d'oro ce ne aveva regalate addirittura due, se contiamo anche quella di Massimo Stano, eppure oggi in pochi se lo ricordano.
Ho intervistata Antonella Palmisano anche su questo tema, qualche giorno prima del duro sfogo sul suo profilo Instagram in cui si è lamentata proprio di come viene trattata la marcia, non solo dai media ma persino dalla stessa federazione italiana.

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A mente fredda il bilancio del Mondiale qual è?
È positivo, torno a casa con la medaglia e non è scontato. Arrivavo da un anno, come quello passato, in cui è stato difficile ritrovare la motivazione o la fiducia nel lavoro, anche per via di come sono andati i Giochi Olimpici di Parigi. Mi è stata molto d'aiuto Maria [Perez; è una campionessa olimpica spagnola, nda], mi ha fatto ritrovare la spinta giusta o banalmente mi ha aiutato con le scarpe. A 34 anni sono ancora lì, davanti, con le prime anche in una distanza che non ho mai amato e per cui ho sempre discusso pure con mio marito [Lorenzo Dessi, il suo allenatore, nda]. Gli dicevo che non ero fatta per le distanze lunghe o che mentalmente non mi piacevano, non ero abituata e propensa. Invece, alla fine, il lavoro e quel pizzico di voglia di portare a casa il risultato e il riscatto, mi hanno aiutato a conquistare un ulteriore medaglia che, vedendo tutto il mio palmarès, mi fa essere veramente felice di quello che è stato il percorso. Rimane il sassolino della 20 km. Quest’anno l’ho provata due volte e non mi ha regalato quelle emozioni che cercavo, visto che è la mia gara.
Perché quest'anno hai deciso di fare la 35 km? Com'è nata questa scelta?
Lorenzo ha capito che per farmi provare le cose devo viverle come sfide. Siamo partiti facendo l’Europeo a squadre come un training in vista della 20 km che avrei avuto poco dopo. Poteva essere un modo per aiutare la resistenza, Lorenzo mi diceva: “Viviamola come allenamento e poi decidiamo”. Ho fatto il record italiano non facendo fatica: erano condizioni completamente diverse, sono arrivata sempre seconda, ma con un clima favorevole perché c'erano 18 gradi. Non ho sofferto, c'è stato un cambio di ritmo nel finale, è stata una gara gestita in maniera tranquilla e prudente. All'arrivo mi ha detto: «Hai visto che come allenamento, non preparandola, sei in grado di fare questo? Pensa se la dovessi allenare seriamente che cosa potresti fare». Poi ho fatto la 20km che non è andata bene, perché ho accusato la prima 35. Ho dovuto accettare di non avere più sicurezze da quella che è sempre stata la mia distanza.
Come pensi che negli anni sia cambiata la tua marcia e la gestione della gara?
La mia è una lunga carriera, mi sono accorta che l'ho affrontata a step o comunque il tempo mi ha aiutato a crescere e a vederla sempre in modo diverso. Ho fatto tre Olimpiadi e se dovessi guardarmi indietro le ho affrontate tutte e tre in maniera differente: si inizia sempre con quell’ansia, quella paura di non essere all'altezza. Poi, quando cominciano ad arrivare i risultati, prendi più consapevolezza di quello che sei. A Tokyo avevo quella consapevolezza giusta per vincere, nonostante venissi da un infortunio a un piede, ma ero molto determinata. Adesso che sono passati altri quattro anni, mi sento quasi sicura. C’è la giusta dose di preoccupazione con una fiducia nel lavoro svolto fino ad adesso. Pian piano impari a conoscerti e non è mai venuta meno, in tutti questi anni, la voglia di essere lì insieme alle prime, di poter dire la mia, di sognare una medaglia. Quello non è mai cambiato, penso che sia la componente decisiva. Negli anni forse la mia marcia era più dinamica, mettevo la braccia in maniera diversa, ora anche con l'utilizzo di queste nuove scarpe mi sono accorta che qualcosa è cambiato. Nel mondo dicono che la mia tecnica è da prendere da esempio e mi sono resa conto che da quando ci sono queste scarpe non mi sento quella di sempre. Credo di non avere più il passo aperto e queste braccia che spingono in avanti, ma la marcia è cambiata.
La citava prima, come nasce il legame con Maria Perez? E che che valore ha essere amica di una rivale?
Il valore che gli attribuisco è l'essenza e l'emblema dello sport. Non c'è solamente invidia: un agonismo negativo non aiuta. C'è quella competitività che porta a rispettare il compagno, ad emularlo. Adesso non posso nascondere che sia la più forte: ha vinto due Mondiali di fila, è arrivata seconda [individuale; oro nella staffetta mista, nda] a Parigi 2024. C'è questo rispetto, seppur lei dica: «Io mi ispiro a te perché la tua tecnica per me è bellissima, non ha errori e sei una campionessa olimpica individuale». Poi, è nata l'amicizia che in questi ultimi due anni mi ha aiutato tantissimo. Ci sono i momenti no anche per noi top e quando trovi qualcuno che è disposto ad aiutarti o che in un qualche modo ti stimola hai fatto bingo. Gli allenamenti li fai con il sorriso, non vai solamente a soffrire. Il nostro legame si è fortificato a partire da Tokyo 2021: lei non era in ottima forma, abbiamo iniziato a sentirci, le dissi che mi aspettavo di vederla lì a lottare per una medaglia. In più mi è stata tanto vicino quando mi sono operata l'anno successivo.
Avete anche un gruppo Whatsapp dove condividete i vostri tempi, è vero?
Sì. Lei dice sempre: «Non ho paura di dirti quello che faccio - a parte che ci alleniamo insieme in tanti periodi - ma mi fido ciecamente e so che quello che fa bene a me non lo fa a te». Non ci nascondiamo, c'è trasparenza, è un modo di confrontarsi per migliorare. Ci prendiamo anche un po' in giro, perché per arrivare al Mondiale io facevo i miei 130 km, lei 90-100 e ci abbiamo scherzato su. Non lo usiamo solamente per parlare di tempi ma anche per sentirci quotidianamente.
Lei è amica pure di Massimo Stano [per un periodo, si allenavano insieme, nda]. Lui ora è fermo per problemi fisici, l’ha sentito?
Noi abbiamo condiviso forse 10 anni di allenamenti. Bene o male siamo sempre stati abituati a essere insieme nelle gare importanti. Tokyo è stata la prima affrontata dove non c'era. È stato il primo a scrivermi subito dopo la 20 km che anche a lui piace di più. Mi ha detto di non colpevolizzarmi di nulla e che a mente fredda avrei capito il valore di quanto fatto. Quando ci allenavamo insieme, l’uno era lo stimolo dell’altro.
È la prova che l’amicizia nello sport è possibile…
Sì, lo vorrei scrivere a caratteri cubitali: il nostro esempio [lei e Perez, nda] ha veramente fatto il giro del mondo e tanti sono stati i messaggi. Perché se hai rispetto devi essere invidioso? Poi ovvio ci deve essere feeling.
Siete tornati a Tokyo: ai Giochi Olimpici invece si corse a Sapporo. Sono riaffiorati dei ricordi?
La mente è andata lì, per quanto, nei mesi prima, avessi lavorato su me stessa. Mi dicevo di costruirmi dei nuovi ricordi, di non stare ancorata nel passato e di vivere il presente, perché poi avrei fatto l'errore più grande… ovvero associare Tokyo a una vittoria a tutti i costi. Una volta in Giappone sono riaffiorate tante cose, ma un Mondiale è diverso. Il clima era differente: Sapporo per me è stata una gara facile, non ho sofferto la disidratazione, il caldo o l'umidità perché erano le 16.30 ed eravamo in una zona di quasi completa ombra. Qui c’erano 40 gradi con un 80% di umidità: il preadattamento mi ha quasi messo un po' di tensione in più rispetto a quello che era stato a Sapporo. Questo mi ha aiutato a pensare: «Vedi, è completamente diverso, non pensare alla vittoria, ambisci alla medaglia, ma siamo in un contesto nuovo».
Proprio i Giochi Olimpici di Tokyo sono ormai visti come lo spartiacque per il movimento dell’atletica azzurra, lei ha percepito questo cambiamento?
Io purtroppo di questo cambiamento non me ne sono accorta. È stato bello dopo le Olimpiadi… abbiamo fatto la storia con cinque medaglie… siamo stati trascinati da quell'ondata, però poi tutti si sono scordati ed è tornato come prima. Sono passati quattro anni e io faccio ancora fatica. Il DT [La Torre, nda] a fine manifestazione ha fatto un bilancio delle medaglie e non ha citato la mia e quella di Leonardo Fabbri e questo non lo posso tollerare da un DT che è attento a tutto. Parliamo della marcia e del peso che non hanno una grossa visibilità... forse la marcia ancora meno visto che non è presente nel circuito di Diamond League. Nella tappa di Zurigo hanno iniziato a mettere i salti nelle piazze: perché non provare anche con la nostra specialità? Non abbiamo bisogno di una pista, di biglietti. La marcia non necessita di essere praticata da persone con certi tipi di strutture fisiche: è una disciplina che può essere fatta senza costi. A distanza di quattro anni abbiamo conquistato 7 medaglie e poi viene dimenticato tutto, cos’è cambiato? Nulla, abbiamo portato solamente quella medaglia in più. Magari può sembrare quasi scontata ma posso assicurare che, a 34 anni, in un clima del genere dove ho patito gli ultimi 12 km per crampi e quello che avevo, non lo è. Non valorizzare la marcia non fa bene perché tra l’altro sta subendo continui cambiamenti. Il prossimo anno passeremo alla distanza della mezza maratona (21,097 km) e maratona (42,195 km), ma a Los Angeles già non ci sarà più la maratona e ci sarà solamente la mezza. Mi chiedo i futuri marciatori che stabilità possano avere.
Esclusa la sua medaglia, delle altre azzurre quali l’hanno colpita?
La maratona sicuramente [con il bronzo di Iliass Aouani, nda] e Mattia Furlani che mi ha totalmente travolta. Nonostante sia giovane ha avuto quella lucidità, dopo i primi salti, e quella determinazione da provare a dare il massimo all’ultimo tentativo. Poi, anche Nadia [Battocletti, nda]. Questa nuova generazione, questi ragazzi stanno cambiando il loro modo di pensare, sono ambiziosi: con questi risultati c’è un’energia che va a ruota.
Dopo Tokyo, ha fatto Parigi ed è stata costretta al ritiro. Nell’ultimo post Instagram, dopo il Mondiale hai scritto che i Giochi Olimpici del 2024 le hanno lasciato “una ferita profonda e un enorme senso di vuoto”. Cosa è successo subito dopo, ma soprattutto come si ritrovano le motivazioni?
Subito dopo sono stati tre mesi in cui non volevo fare nulla. Le scarpe purtroppo le ho dovuto mettere perché avevo promesso di gareggiare a Madrid, a fine ottobre. Lì c'è stata una svolta, sono stata qualche giorno prima a casa da Maria. Ci siamo allenate insieme e mi sono distratta da quell’ossessione olimpica. È stato difficilissimo perché a Parigi avevo i migliori pensieri ed ero arrivata con una sicurezza mai avuta. Finire quella gara con un ritiro e sapere di dover aspettare altri quattro anni per i Giochi…. non riuscivo proprio ad accettarlo e a perdonarmi un qualcosa che comunque non è stata colpa mia ed è fuori dal mio controllo. Stando con Maria e facendo quella gara, ho sentito di nuovo battere il cuore per questa disciplina. Nei mesi prima, se facevo gli allenamenti, finivo e piangevo. Ho capito che, invece, nonostante tutto, questo mi piace. Non vorrei lasciarlo e soprattutto non vorrei finire con un ritiro che non mi perdonerei mai. Piano piano impari a curare le ferite e a circondarti di persone che ti aiutano. Per me è stato così: abbiamo costruito un team, in questi due anni, che è stato molto propositivo. Non ero l'unica a pensare di poter vincere una medaglia, ma eravamo insieme.
Ora lo devo chiedere, c’è l'intenzione di arrivare a Los Angeles?
Mi dico di pensare anno per anno, perché nel 2025 la 20 km non mi ha regalato cose positive. Il prossimo, testarda come sono, non vorrei limitarmi a pensare alla 42 km. Ci sono gli Europei con la 42 km ma c'è anche la 21, quindi non è detto che se inizio ad allenarmi e non trovo sensazioni positive non mi butti sulla 21. Poi per Los Angeles….il tempo va avanti, io non avrò più 34 anni e gareggiare senza sicurezze non mi piace. Se devo arrivare lì devo essere sicura di fare una buona 21 km.
Ha parlato anche di un desiderio di maternità, da donna non è facile…
Spesso penso di stare togliendo qualcosa nella mia vita e che alcune volte sono anche egoista nel continuare a pensare di voler marciare. Quel momento deve arrivare senza che io lo viva come una rinuncia e ad oggi sarebbe così. Mi rendo conto che le due cose non possono andare di pari passo, da donne non siamo agevolate. Non mi sento però di prendere una decisione così, forse perché si ha paura di lasciare tutto, di cambiare vita e di non sentirsi pronta nemmeno per quello.
E tra l’altro l’allena suo marito, come si fa?
Il primo anno è stato quello più facile perché dovevamo conoscerci entrambi. Adesso, al secondo, non nascondo che sia stato più burrascoso. Un po’ per la distanza, per i tanti chilometri e per una preparazione diversa. Abbiamo appreso i difetti l'uno dell'altro, da atleta e da allenatore. Alcune volte è stato veramente difficile non trascinare le cose anche a casa. Bisogna rispettare quei momenti, lasciare un po' di tempo per trovarsi, per parlare e andare avanti. Difficile: non so se lo rifarei se dovessi tornare indietro. Allo stesso tempo dopo che arrivi a un risultato, dopo tanta fatica, si crea una complicità e una fiducia che va oltre tutto.
Gli affetti sono il fulcro di tutto?
Sì, perché comunque ho sempre pensato che non c'è solamente l'atletica e bisogna coltivare i rapporti e i momenti che fanno parte del tuo lavoro che sappiano distrarti e aiutare ad andare oltre. Il mio team fa tanto in questo, dal biologo al nutrizionista fino a una new entry, un ragazzo giovane che ci ha aiutato nella preparazione della forza e che ha portato vitalità ed energia. È stato un cammino totalmente diverso… poi l'anno scorso io e mio marito siamo diventati zii: abbiamo questo nipotino che non fa che correre da una parte all'altra e ci ha regalato qualcosa di unico. Diciamo sempre: «Ringrazio la mia famiglia», e alla fine è vero, sono gli affetti che rappresentano casa.
A proposito, celebri sono anche i fermagli fatti da sua mamma…
La tradizione è nata nel 2010, mi affacciavo alla prima importante competizione che era una Coppa del Mondo. Da piccola non ho mai avuto un'infanzia felice, con mio padre che mi mi bloccava qualsiasi uscita e che non credeva in questo futuro da sportiva. Volevo continuare, nonostante tutto, volevo scrivere pagine di storia, avevo veramente un pensiero fisso e volevo farlo con qualcosa che mi rappresentasse. Avevo chiesto a mia mamma [sarta, nda] se poteva realizzare qualcosa da mettere nei capelli. Avevo pensato che mi piacciono i fiori, mi piaceva il girasole, volevo qualcosa che lo rappresentasse. All'inizio erano ancora un po' grezzi, il primo era tutto azzurro, come la maglia azzurra. Vinsi: sono stata la prima atleta donna di una categoria giovanile a imporsi un'importante competizione. Dissi: «Mamma, hai visto che i fiori portano fortuna?». Poi ha cominciato a sbizzarrirsi e l'anno dopo il fermaglio aveva i colori della della bandiera dell'Italia, uno strato tutto azzurro. Poi, hanno cominciato a prendere la forma di oggi, metà fiore con i colori della bandiera italiana e l’altra metà con quelli della bandiera della Nazione che ospita le competizioni. Sono diventati veramente delle vere creazioni.
Parlava della sua infanzia, ha fatto fatica a fare sport?
Ho dovuto un po' impormi, far capire quello che veramente volevo e chi volevo essere. Non è stato facile perché, venendo da un paesino [Mottola, in Puglia, nda] per mio padre lo sport non era qualcosa di femminile o comunque aveva questa concezione che la donna doveva rimanere in casa, a fare le faccende. Per questo motivo non ho mai potuto decidere quale scuola superiore fare, mi sono limitata a scegliere quella che avevo nel paesino. Non si poteva uscire, prendere i mezzi, essere autonomi e decidere della propria vita. Con l'aiuto di mamma, dei miei nonni, che poi mi hanno sempre portata da tutte le parti e anche con qualche bugia sono riuscita a fare le prime gare importanti come il campionato italiano. C’erano pomeriggi in cui mi chiudeva in casa perché scopriva che avevo fatto gli allenamenti. Eppure sono riuscita ad affrontare un campionato italiano a distanza di pochissimi mesi dal momento in cui ho iniziato con la marcia e sono riuscita a vincerlo. Questo l’ha colpito, perché ha iniziato a pavoneggiarsi. Quando sono entrata nel gruppo sportivo [Fiamme Gialle, nda] che è stato la mia salvezza, a 19 anni, lì ha veramente cominciato a cambiare idea. Le discussioni sono state sempre presenti perché ho quasi avuto l’obbligo di vincere. Non c'è stato mai un momento in cui si è rilassato, solamente forse all'Olimpiade quando ho ottenuto l’oro, ricordo una chiamata in cui dissi: «Adesso hai qualcosa da dire?», perché ogni volta ha qualcosa da dire. Dopo la 35 km di Tokyo, ho avuto una sua chiamata che è stata molto dura. Mi ha detto: «Sei arrivata seconda e ti sei accontentata». Ero con Maria, è stato un momento non facilissimo, ma avevo lei che mi ha supportata. A 34 anni non vuoi che tuo padre ancora ti dica cosa è giusto o sbagliato, vuoi che accetti quello che fai. Non sempre si vince, ci sono alcuni che sono più forti di te. È una lotta continua contro il suo pensiero, però sono abbastanza testarda da decidere per me.
Ma con la marcia si sopravvive?
Come dicevo prima, è una specialità che non richiede neanche una struttura vera e propria, non richiede di essere sempre in pista, di pagare ingressi, entrate o di avere attrezzatura sportiva che ti aiuti o migliori la performance. La marcia necessita di una strada senza buche, bella asfaltata, delle scarpe e degli integratori. È veramente accessibile a tutti e non so come fare a portare le persone a capire quanto veramente sia facile mettersi le scarpe, camminare. I gruppi di sportivi in questo ci aiutano perché se vuoi fare l'atleta professionista non ti puoi limitare semplicemente a bere acqua o non avere un nutrizionista. Le Fiamme Gialle hanno veramente un vasto bacino di marciatori e adesso anche la polizia. Grazie allo stipendio riesci ad effettuare l'attività anche senza sponsor: certo, devi investire tutto quello che hai in questa specialità, è vero, però se lo fai è necessario.
L’augurio che si fa?
Bella domanda. Da donna penso ad una maternità. L'augurio che mi faccio è che possa placare il mio animo e che riesca a pensare anche da donna e non solo da atleta.