Alessandro Dal Lago è un sociologo italiano che nel corso della sua lunga carriera si è occupato di arte contemporanea, cultura ultras, migrazioni e molti altri temi della contemporaneità. Negli ultimi anni si è interessato alle MMA, ne ha scritto in un saggio dal titolo “Della Brutalità” e sta lavorando a un libro in tema.
Nel suo saggio, Il Senso Della Brutalità, (1) lei parla di arti marziali miste come di una rappresentazione del lato “civile, sportivo, commerciale e spettacolare di una cultura essenzialmente violenta, comune a tutto l’occidente, ma di cui gli Stati Uniti sono ovviamente la massima espressione”. Molti invece vedono ancora come una deriva, un’esagerazione, qualcosa di troppo violento ed esterno alla nostra società civile.
No, di esterno no. Le arti marziali miste riprendono degli stili di combattimento che, uno per uno, sono violenti: il full-contact, il karate, la boxe thailandese, non è che sono sport pacifici. La gente si fa male parecchio. Oppure mi viene in mente uno stile di combattimento a mani nude, della Birmania, il Lethwei, che è una delle cose più cruente che abbia mai visto (2). Quindi, se queste cose in qualche modo sono ammesse da tante culture, è ragionevole che ci sia uno sport che le riassuma.
Più che di deriva, parlerei di un cambiamento di stile. Nel senso che una cultura fondamentalmente militare come quella contemporanea - soprattutto americana, ma anche europea - in qualche modo promuove, o facilita, questo tipo di sport. Un esempio banale, ho visto che si stanno diffondendo adesso incontri a mani nude a cui partecipano uomini e donne, con tanto di arbitri e campionati, in modo del tutto legittimato (3). Io parlerei di una sorta di approfondimento di stili che hanno a che fare con una cultura della guerra.
Mi sembra che ci sia un paradosso nel fatto che è anche una cultura profondamente medicalizzata a promuovere cose come gli incontri a mani nude, che sono meno dannosi per gli atleti.
Sì, ma anche nelle MMA si usano guantini che apparentemente fanno più male, perché i colpi sono laceranti, ma che non riproducono l’effetto di rintronamento che nel pugilato causa lesioni di lungo periodo (4). Ma il problema non è quello secondo me. Ripeto, gli incontri di boxe thailandese mi sembrano altrettanto violenti. Il punto è lo stile, che è basato sulla legittimazione degli incontri di strada. Per me è una cosa spiegabile solo all’interno di una cultura in cui la differenza tra pace e guerra tende ad essere un po’ confusa.
Ci sono altri aspetti in cui questa confusione trapela in superficie?
Io sono stato molto colpito dal fatto che da alcuni anni l’esercito americano organizza degli incontri di MMA. Questi incontri preparerebbero agli scontri con i terroristi, perché l’avversario non combatte in modo regolare, eccetera. Fanno partecipare senza distinzioni di peso uomini e donne, perché dicono che non si sa mai chi si incontra nelle strade, che tipo di insurgent o terrorista (5).
È interessante, perché è come se questo tipo di conflitti moderni (credo intenda quello tra Stati Uniti e forze ribelli in Iraq o Afghanistan, ndr) o quello israelo-palestinese, sono tali che non c’è più una guerra combattuta in uniforme, in modo regolare, ma è un tipo di combattimento a mani nude, faccia a faccia, tra militari e civili, che tende a obliterare le differenze tradizionali tra pace e guerra.
Ed è in questo tipo di esperienza che si radica secondo me il successo clamoroso delle MMA negli ultimi anni.
Qual è il collegamento tra questa realtà e quella del pubblico mainstream, che non per forza ha simpatie militari? È qualcosa di inconscio, che fa parte della contemporaneità?
Ci sono due aspetti. Da una parte c’è una moltiplicazione dei simboli della guerra nella cultura non-militare. Probabilmente il momento chiave è l’11 settembre 2001, in cui c’è questa espansione e questa penetrazione dei simboli militari. Ieri ho accompagnato un amico a comprare dei pannolini e persino in un negozio di articoli per bambini c’erano delle tutine mimetiche. Da alcuni anni i simboli militari sono diventati pervasivi, questo è un aspetto che va tenuto presente e che motiva il successo presso i giovani di questo tipo di sport.
L’altro aspetto è quello spettacolare. La gente va a vedere questi incontri tenendo conto che una card, un programma, dura tre o quattro ore. Sono spettacoli che durano molto tempo e che sono basati sulla violenza e sul sangue. Un elemento è la pervasività della cultura del combattimento, un altro è lo spettacolo un po’ grandguignolesco che è offerto dalle arti marziali miste. Sono due cose diverse ma collegate.
Non c’è una contraddizione tra questo secondo aspetto, lo spettacolo sanguinoso come ragione del successo delle MMA, e l’evoluzione recente della stessa che ha avuto bisogno di alcune regole per correggerne la violenza ed essere accettata?
Le due cose non sono in contraddizione, c’è una tensione tra di loro. Per me la questione è l’innalzamento del livello della violenza accettabile e, contemporaneamente, però, il conflitto culturale che si stabilisce intorno al livello dell’asticella stessa. La regolamentazione serve a renderlo uno spettacolo accettabile, ma ha più un valore morale che non reale. Serve un po’ a rassicurare la società esterna. È impossibile togliere dalla pratica di questo sport sia la violenza più estrema, sia le infrazioni al codice morale. C’è una tensione continua. È un gioco che si stabilisce tra spettacolo e sport violento in cui però mi sembra di capire che l’asticella venga sempre più alzata.
Lei sa spiegare perché l’asticella del codice morale tende ad alzarsi?
La cosa interessante è il fatto che questa legge morale in qualche modo viene determinata anche da esigenze spettacolari. Il fatto che i primi incontri, quelli del 1993, fossero organizzati da John Milius (6) la dice lunga. È il cinema in qualche misura che ha contribuito a rendere popolari, sto parlando anche di film sull’argomento, come il buon cinema di David Mamet (7).
È lo spettacolo a decidere quali siano i limiti morali di tutto questo. Quindi, da una parte c’è questa tendenza ad allargare la sfera della violenza legittima, per motivi spettacolari, e dall’altra il gioco dialettico tra lo spettacolo, lo sport e la società. Ma secondo me il limite tende ad essere sempre più allargato, anche se regolamentato.
Il limite ultimo qual è, la morte?
In questo tipo di sport la morte incombe sempre. Altrimenti non ci sarebbero le regole limitative. Il problema è che l’allargamento della cultura fa dipendere sempre più il limite da un agente esterno, che è l’arbitro. Oggi gli arbitri sono più competenti rispetto ad anni fa, meno lassisti - sto pensando all’ultimo combattimento di Ronda Rousey che l’arbitro ha interrotto prima ancora che cadesse per terra (8). Più si allarga il limite, più la morte aleggia, e tanto più è necessario che ci sia un intervento esterno che sia competente.
Jonathan Gottschall, nel saggio Il professore sul ring. Perché gli uomini combattono e a noi piace guardarli (Bollati Boringhieri) parla di una “scimmia interiore che vuole uccidere”, che è parte della natura di ognuno di noi. Joyce Carol Oates, invece, sottolineava come la boxe si basasse sulla scelta contro natura di correre rischi fisici, e sulla rottura del tabù della violenza.
Sono due posizioni estreme. Non amo l’espressione “scimmia interiore”, perché sembra ci sia un riconoscimento della nostra natura animale ma in realtà è moralistico: come a dire, lasciamola sfogare così la società funziona meglio. Non mi entusiasmano questi discorsi, ma neanche il tabù. Per me quello fondamentale è quello che io chiamo la stilizzazione:cioè, la boxe è innaturale perché subordina la vittoria in un confronto fisico all’uso di certi movimenti e non di altri.
Ho trovato in alcuni testi del ‘700, per esempio, delle istruzioni su come condurre un incontro di pugilato che erano terribili. Dicevano: be’, anche se non potete portarvi bastoni colpite l’avversario alla gola. Oppure: insaponatevi i capelli così impedite all’avversario di tirarveli. Progressivamente c’è stata una stilizzazione, che è una cosa innaturale, perché lo scopo è sempre pestarsi, ma senza tirare calci eccetera. Le MMA non aboliscono la stilizzazione ma le moltiplicano, a seconda degli stili.
Più che di un confronto tra violenza innata e tabù della violenza, parlerei di un confronto tra tendenza a sopraffare l’avversario e stilizzazione. La stilizzazione vuol dire semplicemente che persino in un incontro violento come quello delle MMA l’atleta ha introiettato una serie di comportamenti limitanti. Tanto più il limite della violenza, l’asticella, si alza, tanto più le inibizioni si moltiplicheranno.
Può essere significativo il fatto che l’esplosione recente delle MMA (9) coincida con il ritorno dell’occidente verso politiche sempre più autoritarie?
Sì, direi che ci sono delle connessioni. Io ho notato ad esempio che la nascita delle MMA, al di là delle storie in Brasile, Giappone, delle varie perigranazioni di questo sport, coincide con la fine del bipolarismo, con la pace nucleare. Con il ritorno della guerra combattuta, guerra di strada. Non nucleare, ma combattuta con i soldati, per capirci. E questo ha prodotto una cultura violenta di tipo autoritario che oggi è diffusissima.
Per alcuni la fusione di stili e di influenze è in contrasto con le ideologie nazionaliste. Ma c’è una tendenza a tifare gli atleti della propria nazione. E dopo l’incontro tra Khabib Nurmagomedov e Conor McGregor, nel Madison Square Garden si sono scontrati gruppi di dagestani e di irlandesi, come prolungamento dell’incontro.
Qui c’è una costante. Il sovranismo o neonazionalismo è sempre giocato su due livelli: da una parte c’è la riaffermazione della propria identità nazionale, culturale, dall’altra questa rivendicazione avviene su un terreno comune.
Irlandesi e dagestani, nel tuo esempio, si sono pestati paradossalmente dopo aver assistito a uno sport in cui le regole sono comuni. Saltando di palo in frasca: quando Salvini promuove una politica di respingimenti si rivolge a Orban, che dice la stessa cosa ma non lo aiuta per niente. C’è sempre un doppio livello: da una parte ci si scontra ma dall’altra si condivide la stessa cultura. È come la cultura degli ultrà, si odiano e ci sono grandi rivalità o alleanze però cantano le stesse canzoni con le parole cambiate. È un classico dei conflitti in cui si condivide la stessa cultura militare, o dell’ostilità, anche se si presume di difendere la propria identità.
Un anno fa il Guardian metteva in relazione MMA ed estrema destra in Europa e in Nord America. È solo la violenza ad attirare la destra verso questo mondo o ci sono altri valori? Tutti gli atleti con cui ho parlato io si dicono apolitici (10).
In origine non era così, come nel mondo degli ultrà. A me viene in mente il film di Kathryn Bigelow, Point Break. Nel film questi surfisti che si mettono a rapinare le banche vengono presentati come post-fricchetoni, gente della cultura degli anni ‘70-’80. In realtà questo mito dell’azione estrema, del misurarsi con l’onda di 30 metri, di lanciarsi dall’aereoplano... sono tutte mitologie di destra.
Però in origine venivano confuse, mescolate. Oggi con il passare del tempo questa mescolanza è finita, così come è successo nella cultura ultrà che per il 90% ormai è di estrema destra, e quello che è emerso è il machismo. Ma qui bisogna distinguere tra cultura politica e cultura partitica. Io penso che siano sinceri i fighter quando dicono di non avere un’appartenenza partitica precisa, però dal punto di vista dei simboli la loro cultura politica è indubbiamente di destra.
Le arti marziali, però, un po’ come la cultura ultrà, sono state rivendicate anche dalla cultura di sinistra. Come strumento di lotta, di aggregazione, di rivendicazione sociale.
Assolutamente sì. Però è inevitabile che alla fine sia la cultura di destra a prendere il sopravvento e a rendere marginali queste esperienze nella cultura di sinistra. Perché i valori sono abbastanza diversi. Uno può dire: noi organizziamo incontri di boxe per insegnare ai giovani a gestire la violenza. Però sempre di violenza si tratta, e le culture politiche che esaltano la violenza individuale sono di destra.
In origine è vero che c’erano questi aspetti comuni, adesso mi sembra che in una cultura direttamente e indirettamente militarizzata ci sia sempre più un approfondimento degli aspetti di destra. Questo non significa che coincida con partiti precisi, piuttosto con un mood culturale prevalente.
Nel documentario in 5 parti Fighting in the age of lonliness gli autori, Felix Biederman e Jon Bois, collega la nascita e l’esplosione delle mma con il mondo “corporate” e la paranoia da politicamente corretto, che ha marginalizzato gli individui più fuori controllo, dandogli come quasi unica speranza lavorativa e unico senso di vita l’ottagono.
A me questa teoria del politicamente corretto contro cui sarebbero nate queste nuove forme non ha mai convinto, perché il politicamente corretto in questi mondi (del combattimento, delle arti marziali ndr) non c’è mai stato. A me sembra un conflitto tradizionale tra elementi machisti ed elementi non machisti: se in un certo periodo storico erano abbastanza mescolati, oggi un ragazzo che si fa di erba difficilmente si dà alle arti marziali miste, sono due mondi diversi. Io ho superato i 70 anni e ricordo la cultura degli hippy, ma quella era la cultura delle collanine, non dello scontro fisico. Però c’è sempre stata una dialettica tra le due cose, un confronto aperto, evidente.
Piuttosto che di uno scontro tra la cultura corporate - che poi non coincide con il politicamente corretto - e il combattimento, mi sembra più ragionevole il discorso del “fighting against loneliness”. Anche pensando al rapporto che le donne hanno con le arti marziali. Penso a un mondo diverso che a me interessa comunque moltissimo, quello della pornografia (la pornografia come un altro modo estremo di usare il proprio corpo): come negli ultimi anni il femminismo sta riscoprendo il valore liberatorio della pornografia, così le donne rivendicano il proprio ruolo nelle arti marziali. Ma in tutto questo l’elemento essenziale secondo me è la promozione di se stessi come protagonisti del mondo. Non tanto contro il politicamente corretto, ma contro i processi di de-individualizzazione che oggi sono diffusissimi. Questo è interessante: il mettersi alla prova - sia uomini che donne, nello sport, nel sesso - è diventato un elemento dominante. E l’aspetto essenziale è l’individualismo secondo me.
Prima parlavamo della componente spettacolare delle MMA, come si spiega il legame con il mondo dello spettacolo? Il fatto che l’UFC sia stata acquistata da un’agenzia di Hollywood, la WME (11)?
Io notavo che agli incontri di cartello assistono personaggi come Di Caprio, Charlize Theron. Perché è uno sport spettacolare, molto più spettacolare del pugilato. C’è sangue, c’è violenza, c’è sofferenza, c’è stile, c’è cavalleria ma anche cattiveria. È oggettivamente lo spettacolo sportivo per eccellenza oggi.
Il successo delle MMA non potrebbe avere anche a che fare con la difficoltà sempre maggiore nella società di provare emozioni magari più normali, quotidiane. E quindi con il bisogno di provare sensazioni estreme, di assistere a spettacoli estremi, per provare qualcosa?
È possibile. Ma la gente va a vedere gli incontri di arti marziali come i romani andavano a vedere gli incontri tra gladiatori, non c’è una grande differenza. Si parteggia per l’uno o per l’altro, ci si emoziona…
Ma cosa spinge, oggi, una persona che in Italia magari dieci anni fa avrebbe praticato calcio e guardato solo calcio a praticare o guardare uno spettacolo che è oggettivamente forte?
Oggi si può ammettere di vedere sport che sono violenti e sanguinosi perché sono legittimati culturalmente e nessuno storce la bocca. Il movimento di legalizzazione cominciato dall’UFC è culminato nel fatto che oggi di MMA si parla sul Guardian, sul Corriere della Sera. Vuol dire che questo spettacolo è uno spettacolo legittimato e a parte alcuni, che dicono ancora “ah ma è uno sport senza regole”, ormai tutti hanno capito che è uno sport violento ma con delle regole.
La legittimazione, le regole e il resto fa sì che non ci sia niente da sorprenderci o meravigliarsi. Quando vedi incontri di cartello con cinquantamila, sessantamila persone, in un’arena significa che questo spettacolo è diventato iper-legittimo nella nostra cultura. Sotto sotto uno si giustificherà dicendo che va a vedere la bravura, l’abilità eccetera: poi però va a vedere l’ascesa e la caduta dei propri eroi, il sangue che schizza e, contemporaneamente, sa che nessuno lo potrà sanzionare moralmente.
Sto leggendo in questo periodo le autobiografie dei campioni di MMA delle prime generazioni e molti hanno una cultura religiosa, è interessante questo aspetto no? È divertente, molti dicono: combatto perché credo in Dio. E ci sono anche altri aspetti interessanti, che valgono per tutti gli sport di combattimento: noi ci pestiamo a sangue, ci facciamo male, ma condividiamo la stessa cultura. C’è un aspetto di reciprocità: io rischio, ma anche lui rischia, c’è una partecipazione binaria e democratica.
Non c’è un’aspirazione delle MMA a sostituirsi alle altre discipline, come la migliore possibile? È una cosa che collego alla cultura del monopolio, delle grandi corporazioni, che secondo me fa parte del suo essere estremamente contemporanea.
Be’ sì, l’UFC e anche le altre organizzazioni sono multinazionali dello spettacolo del combattimento. La mia impressione è che la boxe sia stata emarginata dalle MMA, e mi sembra anche che molti atleti delle singole discipline si buttino nelle MMA per ragioni economiche. Quindi sì, mi pare che le MMA hanno una tendenza monopolizzatrice. È vero anche che però persistono gli stili prevalenti (12), che c’è chi predilige i colpi, chi la lotta a terra...
La commistione degli stili delle MMA si fa in nome di un aspetto che lei sottolinea nel suo saggio: l’efficacia. Un altro valore celebrato continuamente dalla società contemporanea.
Certo, perché è uno sport che può dare vita ad incontri che si risolvono spesso in modo rapido. Per cui l’efficacia tecnica è fondamentale. L’efficacia è naturale, uno poteva aspettarsi che un incontro di boxe poteva durare un’ora (non quelli di Tyson), gli incontri di MMA sono tendenzialmente brevi. In questo senso persino uno come McGregor sembra un fighter “di ieri”, perché privilegia spesso l’apparenza e lo spettacolo, il gioco, alla realtà nuda e cruda. Una come Amanda Nunes invece è evidente che privilegia l’efficacia al resto.
Vorrei chiudere con due domande sulla cultura ultras. La prima è se secondo lei c’è una differenza tra cori razzisti e discriminazione territoriale. E se escono dalla dialettica simbolica amico/nemico che lei aveva teorizzato (13).
No, non ne escono, ma l’accentuano moltissimo. Io il mio libro l’ho scritto nell’89, trent’anni fa, e dicevo che l’elemento essenziale era l’opposizione territoriale. Ci sono due aspetti: uno è la motivazione, l’altro è l’espressione. La motivazione non è necessariamente razzista, tranne che in alcuni casi. Molto spesso c’è la logica dello sfottò, dell’opposizione, che deraglia. Dopodiché la cosa degenera in presenza di tifoserie più marcate dal punto di vista ideologico. Ma più spesso c’è l’ellisse, l’iperbole, c’è il fatto che allo stadio la gente cambia. Allo stadio si gioca un altro gioco.
Qual è stato il cambiamento più grande degli ultimi anni? La disgregazione dei grandi gruppi organizzati, la depoliticizzazione o comunque la mancanza di una politicizzazione chiara e il ritorno di gruppetti di destra come anti-politica?
Ci sono vari aspetti. C’è stata una progressiva crisi dei movimenti di sinistra che erano presenti negli stadi e quindi sono emersi i gruppetti di destra che sono più organizzati. Poi c’è un altro elemento essenziale, che sono i diritti televisivi. Che hanno reso molto più appetibile la corsa alle risorse delle curve, e quando i gruppetti hanno scoperto che girava tanto denaro (merchandising, biglietti, la possibilità di prendere soldi dalle società) tutto è degenerato.
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(1) - Pubblicato sul numero 3 del 2016 della rivista Etnografia e Ricerca Qualitativa (il Mulino).
(2) - In cui, ad esempio, sono ammesse anche le testate.
(3) - La promotion più importante è la Bare Knuckle Fighting Championship è nata nel giugno del 2018, oggi ha nel roster anche ex-fighter UFC, come Artem Lobov e Jason Knight che si affronteranno il prossimo 6 aprile, e l’ex pugile Paul Malignaggi, campione del Pesi Welter WBA tra il 2012 e il 2013. La storia dei combattimenti a mani nude ovviamente è molto più antica.
(4) - Anche se le morti in un ring di MMA sono meno di quelle che avvengono nella boxe (in uno studio di qualche tempo fa si contavano 60 morti avvenute negli incontri di boxe, contro una sola dovuta a dei colpi subiti in un incontro di arti marziali miste) la questione delle “concussions” nelle MMA è ancora aperta e non è escluso che porti un giorno a dei cambi di regolamento. Recentemente il caso del veterano Wanderlei Silva ha destato molta preoccupazione, come quelli di Josh Emmett, Max Holloway (che dopo aver dovuto annullare un evento per dei sintomi da concussion è tornato a combattere senza mostrare ulteriori problemi) e Tony Ferguson, tutti fighter attivi. Va segnalata anche una morte molto recente nel mondo amatoriale, sulle cui ragioni però non c’è ancora chiarezza.
(5) - Ci sono più tornei interni alle forze armate americani in cui si sfidano i rappresentanti di basi diverse, che derivano dal programma All-Army Combatives ideato da Matt Larsen nel 1998. Il primo torneo risale al 2005 e uno dei primi vincitori, Tim Kennedy, è stato un fighter professionista anche in UFC. Le regole non corrispondono esattamente alle Unified Rules che regolano gli incontri professionistici di MMA dal 2000, ci sono piccole variazioni sia riguardo l’abbigliamento (i combattenti indossano le divise militare, con la zip aperta e coperta da nastro adesivo, ad esempio) sia i colpi (in un regolamento che ho trovato online, ad esempio, le gomitate sono permesse solo al corpo). Oggi il più prestigioso sembra essere quello che si tiene a Fort Bragg (in Carolina del Nord). Dalle mie ricerche sembra che ci siano 8 categorie di peso diverse, anche se non c’è una divisione femminile. Perché, come ha scritto nel 2011 un corrispondente di Bloody Elbow che ha parlato con Larsen: “in guerra non c’è una divisione femminile”.
(6) - Regista di Conan il Barbaro (e tra le altre cose anche co-sceneggiatore di Apocalypse Now), che è stato direttore creativo del primo evento Ultimate Fighting Championship. Soprattutto, a Milius si deve l’idea del ring ottagonale, che aveva già usato proprio per una scena di Cononan il Barbaro. Per rendere l’idea di quanto fosse consapevole l’esigenza di scioccare il proprio pubblico in quegli anni: tra le idee poi scartate per il primo evento UFC, ma inizialmente prese in considerazione, c’era persino quella di scavare un fossato intorno all’ottagono e metterci dentro degli alligatori.
(7) - David Mamet, regista e sceneggiatore, è appassionato di MMA fin dall’inizio. Nel suo Redbelt recita anche il fighter Randy Couture.
(8) - Contro Amanda Nunes, il 30 dicembre 2016 (durante l’evento UFC 207). L’incontro è durato appena 48 secondi e ha di fatto chiuso la carriera di Ronda Rousey nelle MMA. Medaglia di bronzo di Judo alle Olimpiadi cinesi del 2008, Rousey è stata la prima donna messa sotto contratto dall UFC nel 2012, convincendo - anche per il proprio potere mediatico - il presidente Dana White ad andare contro le sue stesse convinzioni maschiliste e ad aprire una divisione femminile. Di fatto, tra il 2012 e il 2015 è stata la faccia dell’UFC insieme a Conor McGregor.
(9) - Con il contratto con Fox prima e Espn poi, la cessione per 4 miliardi di dollari all’agenzia WME/IMG.
(10) - Mi riferisco alle interviste a Marvin Vettori e a Carlo Pedersoli Jr.
(11) - E alcune celebrità (Serena Williams, Tom Brady, ma anche non sportivi: Ben Affleck, Michael Bay, Stallone, The Weeknd) hanno investito somme non inferiori a 250 mila dollari.
(12) - È vero che i singoli fighter provengono da formazioni specifiche in un’arte marziale delle tante che confluiscono nelle MMA, ma parlando con gli atleti più giovani e leggendo le loro interviste sembra si stia andando sempre di più incontro a una formazione per le MMA diversa da quella delle altre discipline.
(13) - Nel libro Descrizione di una battaglia (Il Mulino, 1990).