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Giorgio Di Maio
Il primo periodo "umano" di Alcaraz
14 nov 2023
14 nov 2023
Il fenomeno spagnolo sta vivendo un piccolo momento di flessione.
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Giorgio Di Maio
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Foto di ChrysleneCaillaud / Panoramic
(foto) Foto di ChrysleneCaillaud / Panoramic
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È giusto parlare di crisi quando sei il secondo migliore nella tua professione? Quasi sempre il concetto è una forzatura giornalistica, utile per un po’ di sensazionalismo, per dare più notizie di quante ce ne siano in realtà. Di certo non è giusto parlare di “crisi” per Carlos Alcaraz, talento generazionale che sta trascinando il tennis in una nuova epoca. Numero due del mondo con un distacco netto sul terzo, Daniil Medvedev. Eppure guardandolo giocare ci si accorge che qualcosa non funziona, e la sconfitta di ieri con Alexander Zverev non ha fatto che aumentare i dubbi sul suo recente stato di forma. Alcaraz è alla quarta sconfitta nelle ultime nove partite disputate. Un ruolino di marcia certo non disperato, ma da grandi poteri derivano grandi responsabilità; quel brusio partito dalla sconfitta con Medvedev allo US Open ora è diventato un coro sempre più numeroso: cosa sta succedendo al campione di Wimbledon? In questo ultimo periodo Alcaraz ha dato segno, per lo meno, di essere umano, ma in che modo?

La prima cosa da fare è “pesare” le sue sconfitte. La prima è con Tommy Paul, arrivata ai quarti del Masters 1000 di Toronto poi vinto da Sinner. Un 6-3 4-6 6-3 a favore dell’americano in un match molto duro, ma che non deve stupire particolarmente. Al di là della differenza di ranking, Paul è storicamente un giocatore ostico per Alcaraz, tanto che sono 2-2 negli scontri diretti. Lo è grazie alla sua completezza da fondocampo e alle buone capacità difensive. Sempre nell’estate americana Alcaraz raccoglie due sconfitte da Djokovic, al termine di una delle più belle finali dei Masters 1000 degli ultimi anni, e da Daniil Medvedev, non esattamente due scarsi, per usare un eufemismo. Ci sono delle differenze.

La partita con Djokovic, una delle più belle dell’anno, è stata equilibratissima e il serbo sembrava animato dal desiderio di riparare almeno in parte la durissima botta inferta da Alcaraz a Wimbledon. Djokovic aveva bisogno di dimostrare qualcosa a sé stesso. La sconfitta con Medvedev invece è stata un fulmine a ciel sereno. Una sconfitta che ha guastato la festa degli organizzatori e di molti appassionati che pregustavano dall’annuncio dei tabelloni la finale tra Djokovic e Alcaraz, il vecchio maestro e il giovane rivale.

Dalla semifinale con Medvedev, agnello sacrificale alla vigilia, Alcaraz è sembrato uscirne con meno certezze di prima, come se avesse realizzato improvvisamente di non essere più un bambino, tennisticamente parlando. Il tennis di Carlos Alcaraz è jazz, tra l’improvvisazione propria dei grandi sassofonisti a violenti fraseggi di tromba. E per giocare un tennis del genere serve una condizione fisica eccezionale ma soprattutto una mente sempre libera. Alcaraz sorride sempre in campo, si auto-incita, cerca di immergersi in una condizione di sacra leggerezza che lo aiuta a esprimere il suo tennis.

Contro Medvedev il sorriso si è spento nel secondo set, stritolato dal tennis cerebrale del russo. La sconfitta con Sinner aveva sorpreso per l’arrendevolezza mostrata nel secondo set alle prime difficoltà, e anche con due tennisti incostanti ma molto talentuosi come Grigor Dimitrov e Roman Safiullin Alcaraz era sembrato molto più appesantito dei suoi avversari. In particolare Safiullin, tennista sottovalutato, aveva fatto sembrare Alcaraz a Bercy un tennista senza armi, incapace di rispondere al suo fuoco incrociato da fondocampo.

Nella nostra guida alle ATP Finals si era già ipotizzata una possibile defaillance di Alcaraz, anche perché non si può non considerare come queste siano le prime Finals dello spagnolo in assoluto. Contro Zverev, demolito allo US Open nemmeno tre mesi fa, Alcaraz e il suo free tennis si sono scontrati ancora una volta con la natura primordiale di questo sport. In questo caso il servizio: è molto difficile perdere una partita in cui servi costantemente sopra i 200 km/h e lo fai bene come Zverev ieri.

Una partita in cui Alcaraz ha vinto il primo set di puri nervi e volontà del fenomeno, ma che poi ha finito per perdere proporzionalmente ai suoi errori di dritto. Addirittura nel post-match ha tenuto una vena polemica inusuale per lui, rimarcando la differenza della velocità della superficie di Torino rispetto alla lentezza dei cementi di fine stagione come Paris-Bercy e Shanghai. Ha chiaramente ragione, su questo come sulla differenza i peso delle palline che rischiano di provocare infortuni. Una lamentela ormai così diffusa che è difficile immaginare non abbia prossime conseguenze. Alcaraz si è anche lamentato della superficie troppo veloce, e poi ha ammesso di sentirsi stanco - è un momento della stagione difficile a livello fisico, ed è anche per questo che lo scorso anno lo spagnolo aveva rinunciato a Torino.

Domani Alcaraz giocherà contro Andrey Rublev, uscito sconfitto dal derby russo con Medvedev, e partirà favorito, anche se Rublev su queste superfici è un avversario pericoloso, e in fiducia. Nell’ultima sfida c’è Medvedev. Per un tennista col talento di Alcaraz tutto è possibile: può serenamente vincere le prossime due partite e arrivare a qualificarsi per i prossimi turni. Ma non sarebbe nemmeno assurdo che possa uscire da Torino senza vittorie. Va fatto un discorso generale, e cioè che in nessuno sport come nel tennis pesano gli stati di forma e le condizioni di gioco. Dunque diventa disonesto basare troppo i giudizi su una manciata di partite.

Chiaro, come detto prima l’essere numero due del mondo implica anche un livello di attenzione differente. E per certi versi è anche giusto chiederne il conto. Curiosamente Alcaraz ha iniziato il suo match subito dopo la premiazione di Novak Djokovic come numero uno del mondo di fine anno per l’ottava volta. Una coincidenza che ricorda come dopo lo US Open il giovane spagnolo aveva una possibilità enorme di scalzare proprio il serbo dal titolo di numero uno di fine anno. Alcaraz si è sgretolato sotto la pressione di dover dimostrare di essere il migliore, e l’ennesimo traguardo di Djokovic sta lì a ricordare quanto sia sottile questo filo che permette a tennisti di quel livello di mantenere il controllo totale del proprio tennis. In un certo senso Alcaraz si è scoperto adulto dopo lo US Open, con uno Slam in più e un regicidio compiuto a Wimbledon troppo grosso per passare inosservato come un “semplice” giovane in rampa di lancio. Una volta mangiato il Titano è diventato lui stesso il Titano, e non è detto che sia già pronto per reggere quel tipo di peso e aspettativa. Ha ancora 19 anni.

Con i giovani tennisti si innesca sempre un ciclo di glorificazione e distruzione, da futuro fenomeno dominatore del tennis quando si raggiungono i primi traguardi a scarso perdente sopravvalutato al primo periodo nero. Della Next-Gen ci è passato Sinner e ci è passato recentemente Rune, elogiato ovunque ad inizio anno e poi degradato da Wimbledon in poi per una crisi nerissima di risultati. Paradossalmente molte delle critiche arrivate a Sinner e Rune e chiunque altro della Next-Gen, inclusi altri come Shelton e Musetti, sono “colpa” della precocità proprio di Alcaraz, che ha imposto uno standard per cui ad ora nessuno dei giovani si è ancora avvicinato e che molti superficialmente non considerano, in uno sport in cui percorsi tanto diversi hanno portato allo stesso fine, vincere Slam.

Gli standard altissimi imposti da Alcaraz sono ora un masso pesantissimo da trasportare anche per lui, e starà ad Alcaraz stesso dover rispondere da fenomeno e patrimonio del tennis mondiale quale è, magari imponendone di nuovi. Un periodo difficile come tanti ne sono capitati ai campioni di questo sport e che non fa che ricordarci come bisogna diffidare di chi profetizza futuri certi da venti Slam per chiunque. Nel tennis, anche la partita dopo è un enigma.

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