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Giorgio Di Maio
L'abdicazione
17 lug 2023
17 lug 2023
Dopo 3661 giorni Djokovic ha perso una partita sul centrale di Wimbledon, non una partita qualsiasi.
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Giorgio Di Maio
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3661: tanti erano i giorni che separavano Novak Djokovic dall’ultima sconfitta sul campo Centrale di Wimbledon, il tempio sacro dello sport più sacro. A riuscire a batterlo è stato quello che da tutti era indicato come il Messia, il tennista arrivato per raccogliere l’eredità dei Big-3 e portare il tennis in una nuova era.

È da quando è iniziato il suo viaggio che Carlos Alcaraz se ne frega dei domini e della storia. Chiunque sia il suo avversario, Alcaraz è spavaldo e mostra il suo tennis di contrapposizioni, fatto di sorrisi e tocchi dolcissimi, o di muscoli, “Vamos” a pieni polmoni e colpi devastanti da qualsiasi lato. Una varietà di gioco che mette tutti d’accordo, tra gli appassionati più duri e i nostalgici del tennis di una volta. Quando aveva vinto a New York, agli US Open, ci aveva lasciato il primo segno di futuro. L’assenza di Djokovic, però, aveva reso quella vittoria meno significativa. Flushing Meadows è sempre lo Slam dell’imprevisto. La finale di ieri, vinta al quinto set di una partita densa di colpi di scena, ha preso invece le sembianze di un’incoronazione reale.

Oggi forse non è facile ricordarcelo, ma avevamo presentato questo Wimbledon come uno dei più scontati di sempre. Per la forma eccezionale di Novak Djokovic, e per la natura conservativa di una superficie come l’erba, su cui davvero in pochi oggi sembrano saper giocare. L’assenza di veri sfidanti, acuita dal forfait del finalista uscente (Nick Kyrgios) e di un Berrettini in convalescenza, rendeva questo Wimbledon simile a tanti Roland Garros di Nadal tra il 2005 e il 2010. Un periodo in cui però il livello medio dei top player era superiore all’attuale e su una superficie più “comprensibile” ai possibili avversari.

Uno sport individuale come il tennis ha sempre bisogno di storie, e quella di quest’anno è la storia del vecchio maestro contro i due giovani e talentuosi sfidanti. Dopo la semifinale vinta con Sinner, però, era ancora difficile immaginare grosse sorprese. I numeri di Djokovic erano dittatoriali: come si può andare contro un fenomeno storico tanto imponente? In più la sfida recente al Roland Garros pareva chiudere ulteriormente il pronostico. Alcaraz era sembrato all’altezza del confronto nello sprint ma non nella maratona: su 5 set il tennis sa essere uno sport molto diverso, e nella richiesta agonistica della distanza i Big-3 hanno respinto sempre tutti i tentativi di regicidio. Sul set pari, ad Alcaraz erano addirittura venuti i crampi per lo sforzo. Era crollato su sé stesso, accartocciato in una tensione che, per la prima volta, l’aveva divorato nel condividere il campo con un Djokovic buono ma nemmeno così eccezionale. Uno di quei momenti in cui il campione serbo sembra avere l’Ambizione del Re Conquistatore resa famosa da One Piece di Eiichiro Oda. Un’abilità che permette con la sola forza della volontà, a uno su un milione, di poter condizionare le persone e le cose circostanti.

Se su terra, nella superficie teoricamente più amica, aveva perso, allora Alcaraz sarebbe stato spacciato su erba.

Queste premesse non dobbiamo cancellarle, dobbiamo invece tenerle presenti proprio per capire la portata dell’impresa di Alcaraz.

In uno sport solitario come il tennis, in cui non ci si può nascondere da nessuna parte, Novak Djokovic ha affinato l’arte di spedire l’avversario dentro un buco nero da cui non potrà mai uscire. Era successo già contro Hubert Hurkacz negli ottavi di finale, tramortito e battuto con un solo break (l’unico subito nel torneo) in quattro set, con due tie-break vinti in un modo che si può classificare solo come magia nera. Quella magia nera che ancora mancata a due tennisti élite come Andrej Rublev e Jannik Sinner, entrambi risucchiati in un vortice fatto di palle break sbagliate. In questa fase della carriera Djokovic è diventato il Re delle sconfitte competitive, dell’uomo che alla fine di una partita lottata ma finita 6-4 6-0 con cinque killer point mancati nel secondo (storia vera e triste) ti viene ad abbracciare e dire “Bravo, meritavi di più”. Quella pietà terrificante, scritta nelle tavole della Legge, che per chi non viene da Manacor e Basilea è sempre presente, salvo rarissime eccezioni.

E le somiglianze c’erano tutte anche nella finale di ieri, con tanto di 6-1 iniziale che somigliava tanto a un KO. La crudele riproposizione di uno spartito già visto tante volte, con la solita statistica assurda a favore. Era dal 1980 (McEnroe) che chi vinceva il primo set della finale di Wimbledon per 6-0 o 6-1 vinceva il match. Dopo un primo set drammatico Alcaraz ha continuato a fare il suo tennis, sempre fiducioso di voler fare la sua partita tra gli alti e bassi insiti nel suo tennis ad alto rischio. Nel viaggio dell’Eroe la prova decisiva è stata il tiebreak del secondo set.

Il serbo non perdeva un tie-break dalla partita con Enzo Couacaud in Australia: è il suo segno, quello del gioco punto a punto, dove la concentrazione e la supremazia mentale assumono un’importanza ancora maggiore. Ieri Djokovic ha perso il tiebreak in un mondo che non gli appartiene: sopra 3-1 e buttando un set point sul suo colpo migliore, il rovescio.

Alcaraz a quel punto è riuscito nell’arte che a Djokovic riesce meglio, quella di azzannare l’avversario in difficoltà. Ha prima ottenuto un break veloce all'inizio del terzo set, e poi lo ha tramortito con un secondo break allucinante, in un game strano, nauseante, durato un intero set, nel quale Djokovic è stato costretto a servire per mezz’ora di seguito, per poi perdere il servizio. Qualcosa di veramente devastante.

Per la prima volta Djokovic è sembrato veramente avere l’età dichiarata sulla sua carta d’identità. Alcaraz ha fatto cadere l’inganno. Abbiamo visto cose che non gli appartengono: un rendimento al servizio scadente, un atteggiamento fin troppo passivo e una sequenza di errori non forzati visti soltanto nel 2017 (annus horribilis di Nole). Il fatto che gli errori più sanguinosi della partita siano arrivati col rovescio, il rovescio migliore della storia del tennis, è un dettaglio ancora più inquietante.

Le due palle break nel quarto set sembravano la fine, almeno per chi negli ultimi vent’anni non ha visto il tennis. Djokovic però è stato capace di un’ultima, estrema resurrezione. Ha salvato le due palle break e ha strappato il servizio ad Alcaraz due volte per portarsi a casa il quarto set. Uno spartito che ricordava sinistramente quello della finale dell’Australian Open 2020, in cui Thiem era avanti due set a uno contro un Djokovic che sembrava aver perso tutte le energie fisiche e mentali del suo tennis. Uno spartito che sembrava somigliare a tutte quelle volte in cui una volta toccato il fondo Djokovic si dà una spinta poderosa per rimontare.

Nella mistica del quinto set però si fondano tante delle mitologie della storia del tennis, e cosa c’è di più intenso di un 20enne che superando tutti gli ostacoli si prende il quinto set sul Centrale di Wimbledon contro un ventitré volte campione Slam?

Djokovic non avrà giocato la finale migliore della sua vita, ma quel quinto set è il momento in cui Alcaraz ha dimostrato di essere fatto di una pasta diversa. Ci ha dimostrato, in maniera molto visibile, la differenza che passa tra i grandi giocatori e i campioni. Qualcosa di cui ci riempiamo la bocca, nei nostri discorsi da bar, e su cui abbiamo persino il sospetto sia retorica. Qualcosa, ieri, invece di molto tangibile.

Certo, anche nel quinto set non mancano i rimpianti per Djokovic. Nell’unica palla break del quinto set, nel secondo game, ha fatto un’altra cosa a lui di solito estranea: ha sbagliato una scelta, si è dimostrato poco lucido. Ha preferito colpire uno schiaffo al volo di dritto su una palla ambigua, che forse sarebbe terminata fuori. Certe partite però si scrivono attraverso i dettagli, è Djokovic stesso a ricordarcelo citando la finale del 2019 in cui annullò quei due leggendari matchpoint a Roger Federer. (Era una stilettata allo svizzero che ieri non è riuscito a eguagliare per Wimbledon vinti?). Nel secondo e terzo game del quinto set Alcaraz si è preso la partita, e lo ha fatto a modo suo, mostrando tutta la varietà del suo tennis. Le difese devastanti nel suo game di servizio che gli hanno permesso di far giocare il colpo in più a un Djokovic aggressivo; e poi le risposte e gli attacchi fulminei del game del break poi decisivo. Nel game in cui serviva per il match l’aria era densa e Djokovic aveva raccolto tutta la sua determinazione. Ha giocato forte, profondo, veloce. Alcaraz però non ha tremato e ha assorbito quell’ultimo slancio d’orgoglio del serbo, quel rifiuto disumano della sconfitta. Avete presente quella volée in allungo di rovescio di Alcaraz? Forse il colpo più strabiliante della partita, se pesiamo il momento. Djokovic era scivolato, ma era così pieno di furia agonistica da recuperare l’equilibrio e tirare un passante incrociato vincente contro chiunque, tranne che con Alcaraz che è riuscito ad allungarsi alla sua sinistra.

Sul trenta pari, prima vincente, un’altra prima devastante e un attacco di dritto come se fosse la cosa più semplice del mondo, con la leggerezza dei campioni.

E ora? Cosa sarà dello sconfitto? Dopo una finale di Wimbledon che nelle sue quasi cinque ore ha visto materializzarsi il primo vero passaggio del testimone di un’epoca che dura dal 2003 e che forse ha visto la sua fine ieri.

Novak Djokovic, ma i Big3 in generale, ci hanno fatto vedere più volte come darli per morti sia l’errore più grosso che chiunque possa fare. Djokovic ha vinto i primi due Slam dell’anno e ha perso la finale di ieri per dettagli. Può ancora essere considerato il miglior giocatore al mondo, oggi, o almeno uno dei due. È difficile immaginare come possa alzare bandiera bianca. Se il fisico e le motivazioni lo assisteranno dovrebbe essere un contender Slam per i prossimi due anni, e quella con Alcaraz promette di essere una piccola rivalità, breve ma bellissima.

Da oggi il tennis sembra appartenere un po’ di più al suo numero uno, che ha fissato l’altissimo standard a cui tutti gli altri dovranno avvicinarsi se vogliono lottare con lui. E al momento, come per Federer prima dell’avvento di Nadal, non sembra esserci qualcuno tra i più giovani in grado di poterlo contrastare su una stagione intera, se non negli scontri diretti e raramente negli Slam.

Federer, Djokovic e Nadal hanno segnato un’epoca, costringendo loro stessi e il resto del mondo ad adattarsi a uno standard di tennis mai raggiunto nella storia. E chissà che il tennis a tutto campo di Alcaraz, vintage e moderno allo stesso tempo, non spinga i suoi rivali ad adattarsi di conseguenza, a rendersi più completi. I Big-3 ci hanno fatto dimenticare quanto in realtà il tennis e la sua storia siano davvero poco lineari, e allora decantare di possibili vittorie di 40 Slam per lo spagnolo non è nulla più che un tentativo di giocare a fare Nostradamus in uno sport insondabile e misterioso.

Una cosa è certa: con la vittoria di ieri Alcaraz si è seduto al cenacolo dei più grandi, e ora sta ai suoi coetanei raccogliere il guanto della sfida.

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