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Emiliano Battazzi
Zdenek Zeman, opposizione e rivoluzione
31 ago 2021
31 ago 2021
Un estratto da "Calcio Liquido", il nuovo libro di Emiliano Battazzi per 66thand2nd.
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Emiliano Battazzi
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Al supercorso di Coverciano del 1978, Arrigo Sacchi strinse amicizia con un altro giovane allenatore, che a Palermo, città in cui viveva, era soprannominato «’U mutu». Si trattava del classico caso di opposti che si attraggono: Arrigo era una pentola a pressione che sbuffava calcio continuamente, mentre l’altro, il muto, era avvolto in continui silenzi, che manovrava all’interno di dialoghi composti da battute secche, molto spesso ironiche, sempre definitive.

 

In realtà quei due giovani allenatori avevano molto in comune: non erano mai stati calciatori professionisti (uno dilettante, l’altro si era fermato alle giovanili), avevano modelli tattici di riferimento alieni al calcio italiano, e condividevano i princìpi fondanti del loro credo calcistico: zona pressing, l’attacco come miglior difesa, il fuorigioco come strumento tattico e l’idea di una squadra come una grande orchestra che non ha avversari ma solo uno spartito da interpretare.

 

Sacchi consigliò «’U mutu» a diverse squadre nel corso della sua carriera: quando si trasferì al Milan di Berlusconi, propose al Parma di assumerlo al suo posto; in seguito, lo suggerì proprio ai rossoneri, e poi persino al Real Madrid, durante la sua parentesi da direttore sportivo dei madrileni. Solo il Parma gli diede retta, nel 1987, con esiti poco felici: dopo un’estate ruggente, fatta di spettacolo e vittorie in amichevoli contro la Roma e il Real Madrid e in Coppa Italia contro il Milan a San Siro, «’U mutu» fu esonerato dopo una sola vittoria in sette partite di Serie B. Come al solito, pagava la sua difficoltà di adattamento alle caratteristiche dei giocatori: erano questi a dover imparare il suo spartito.

 

Per la Treccani, l’omeostasi è «in biologia, l’attitudine propria degli organismi viventi, siano essi cellule, individui singoli o comunità, a mantenere in stato di equilibrio le proprie caratteristiche al variare delle condizioni esterne». Se esiste un modo per definire l’essenza tattica di «’U mutu», ovvero Zdenek Zeman, allenatore nato praghese e poi diventato italiano, è per opposizione a questa attitudine: a differenza di quelle di Sacchi, le sue squadre non hanno mai saputo mantenere l’equilibrio, e non si sono mai adattate al cambiamento delle condizioni esterne. Per ironia della sorte il suo percorso da allenatore ha avuto inizio all’Omeostasi Club, squadra di pallamano di Palermo in cui svolgeva il doppio ruolo di giocatore-allenatore. Dalla Cecoslovacchia occupata dai sovietici, nel 1969 Zeman era riparato in Sicilia, a casa dello zio Cestmír Vycpálek, un passato da giocatore nella Juve e all’epoca allenatore a Palermo, città in cui si era definitivamente stabilito. Zeman era un atleta a tutto tondo: cresciuto nelle giovanili calcistiche dello Slavia Praga, aveva praticato anche l’hockey su ghiaccio, la pallamano, il nuoto. Al tempo stesso, aveva una passione per la conoscenza del corpo e delle sue funzionalità: figlio di un luminare di otorinolaringoiatria, primario dell’ospedale di Praga, Zeman era destinato a una carriera medica. Nell’esilio volontario di Palermo queste passioni gli tornano utili: oltre ad allenare la squadra di pallamano, guida anche una società di nuoto, per poi diplomarsi all’Isef con il massimo dei voti grazie a una tesi sulla medicina dello sport.

 

Zeman inizia ad allenare squadre di calcio dilettantistiche di Palermo, finendo per arrivare alle giovanili del Palermo, per cui lavorerà ben nove anni senza mai raggiungere la prima squadra. Una lunga gavetta, proprio come Sacchi. La sua formazione calcistica è chiara sin da subito, e si riassume con una sua stessa frase: «Da piccolo, a Praga, mi dissero: prendi quella posizione, e mai prendi quell’uomo». Zeman da quel momento prese appunto una posizione, molto netta, definitiva, anche sulla sua visione del calcio: si deve giocare con la zona, in particolare la zona pressing, cioè quella in cui non si coprono semplicemente gli spazi ma si va a disturbare il possesso avversario, una difesa attiva. Aveva portato con sé in Italia quella voglia di cambiamento che aveva visto soffocare nel suo paese: quella passione rivoluzionaria non l’avrebbe mai abbandonato. La sua impostazione tattica è ovviamente legata all’ascesa, in quegli anni, del calcio totale olandese – sebbene avesse una particolare ammirazione anche per il Brasile campione del Mondo nel 1970.

 

Per percepire gli elementi che definiscono il retroterra calcistico di Zeman bisogna però fissare l’attenzione su un’altra grande squadra degli anni Sessanta – il cui ricordo si è perso nel tempo: lo Spartak Trnava dell’allenatore Malatinský. Come sottolineato da Sandro Modeo nel libro Il Barça, Malatinský assemblò dal nulla una squadra capace di passare in pochi anni dalla seconda divisione alla semifinale di Coppa dei Campioni (persa contro il grande Ajax, dopo aver sfiorato una clamorosa rimonta), conquistando una Mitropa Cup e un campionato cecoslovacco. I suoi metodi di allenamento ricordano molto quelli adottati da Zeman: preparazione atletica sfiancante, modulo di gioco rigido con combinazioni provate in allenamento fino allo sfinimento, e una particolare attenzione per la creazione della superiorità numerica sulle fasce, con le sovrapposizioni continue dei terzini. Come i giocatori dello Spartak Trnava perdevano sangue dal naso dopo l’ennesima corsa sulle colline innevate, quelli allenati da Zeman menzionano spesso un secchio del vomito pronto all’uso, dopo le estenuanti ripetute su lunghe distanze o dopo i celebri salti dei gradoni di una tribuna. Quando era ancora al Foggia, Zeman giustificava tali metodi sostenendo che in assenza di qualità serviva almeno la quantità: ma nel corso degli anni, con giocatori ben più importanti, metodi atletici e princìpi calcistici sono rimasti invariati. Il boemo credeva in ciò che costituiva il pilastro della sua formazione: una grande cura della macchina umana, che depurava d’estate – famose, nei ritiri, le sue diete a base esclusivamente di verdure bollite – e allenava fino allo sfinimento, per cementare anime e corpi. Allo stesso modo, Zeman crede in alcuni princìpi calcistici ben determinati, invariabili, insostituibili e in qualche modo eterni. Princìpi che lo hanno condannato a risultati inferiori alle attese, ma che al tempo stesso lo hanno reso popolare.

 

Lo Spartak Trnava usava il 4-2-4, proprio come il Brasile campione del Mondo nel 1970, indicato da Zeman come una delle sue squadre di riferimento: ciò che affascinava il boemo riguardava soprattutto i meccanismi delle fasce. Da lì sviluppò un suo naturale convincimento, che divenne ben presto dogma: la preferenza per il modulo del 4-3-3, la sua disposizione geometrica e i connessi princìpi di gioco.

 

Così come nell’antico Egitto il triangolo, a partire dagli studi di agrimensura, assunse una valenza divina, tanto da essere poi rappresentativo della divinità Amon e del potere dei Faraoni, così per Zeman il triangolo rappresenta l’elemento geometrico principale delle combinazioni calcistiche – tanto che ogni altro momento di gioco può essere suddiviso in più triangoli. Si tratta in sostanza di triangoli posizionali, che il boemo chiama però «terziglie», e che sono più comprensibili considerandoli su una fascia del campo. Una terziglia è la combinazione (normalmente chiamata catena di fascia) di tre giocatori, che idealmente dovrebbero sempre giocare a due tocchi, mantenendo allo stesso tempo una distanza costante, per occupare corridoi di gioco differenti: l’ala d’attacco si allarga sulla fascia creando spazio per la sovrapposizione del terzino, mentre la mezzala di riferimento occupa uno spazio di mezzo. La terziglia che ha reso Zeman così popolare è quella offensiva: il tridente offensivo sempre posizionato a triangolo, di solito con un attaccante al vertice basso e due che attaccano la porta, con scambi di posizione continui e tagli alle spalle dei difensori come movimento primario. Le possibili combinazioni legate a questo posizionamento geometrico sono innumerevoli, e hanno permesso a Zeman di elaborare continuamente nuovi schemi, insegnati in modo ossessivo ai suoi giocatori per essere eseguiti nei tempi più rapidi possibili. La velocità di esecuzione e le disposizioni degli attaccanti sul campo ricordano in certi casi gli schemi della pallamano, e ancora meglio della pallavolo, entrambi sport ben noti a Zeman.

 

La visione zemaniana del calcio si basa sul movimento continuo e la velocità delle combinazioni: per Zeman il calcio è un gioco di movimenti senza palla, in cui la tecnica non basta, perché ogni giocatore gioca il pallone per pochi minuti nel totale di una gara, ed è importante che sappia cosa fare per tutto il resto di una partita – una visione tipica anche del calcio totale e di quello sacchiano.

 

Quella di Zeman è una interpretazione del gioco puramente offensiva: il pallone deve passare immediatamente all’attacco – è infatti un calcio di verticalizzazioni vertiginose e continue, di cui solo il regista conosce davvero tutte le chiavi. Zeman esordisce in Serie A da allenatore del Foggia, il primo settembre 1991, a San Siro contro l’Inter e la sua prima stagione nel calcio d’élite è già un manifesto: secondo miglior attacco e seconda peggior difesa.

 

Il calcio di Zeman si è sempre caratterizzato per un grande problema: alla facilità di segnare ha sempre corrisposto un’altrettanto grande facilità di subire gol. Le radici di questa difficoltà non affondano nell’idea che l’attacco sia la miglior difesa: nel calcio moderno ormai le fasi offensiva e difensiva si uniscono in un abbraccio costante, con le sole transizioni a delineare i momenti di passaggio. Il problema dei princìpi difensivi di Zeman risiede tutto nella fede assoluta in una difesa altissima, spesso a centrocampo, persino a palla scoperta (quando cioè il giocatore in possesso non è pressato); nonché nella scelta di posizionare un numero esiguo di giocatori in marcatura preventiva – quelli che, al di sotto della linea del pallone, marcano già gli avversari anche se il possesso è ancora della propria squadra. Con la linea difensiva a centrocampo – perché bisogna accorciare il campo in verticale – emergono delle praterie inimmaginabili per gli attacchi avversari, tanto più in un campionato tradizionalmente speculativo come quello italiano.

 

Nell’ultima partita della sua prima stagione in Serie A un gol illustra meglio di tutti la filosofia calcistica di Zeman, i suoi pregi e i suoi difetti, e a distanza di quasi trenta anni rimane ancora perfettamente esplicativo di un modo unico di vedere il calcio. Si gioca Foggia-Milan, con i rossoneri campioni d’Italia imbattuti dopo un campionato da schiacciasassi, e con la miglior difesa del mondo in quel momento: Tassotti-Baresi-Costacurta- Maldini. Al 39’ del primo tempo, con il Milan in vantaggio di un gol, Tassotti controlla il pallone oltre la propria metà campo, sulla fascia destra e con l’avversario non troppo vicino. La difesa del Foggia, a palla scoperta, è schierata con una linea altissima, poco dopo il cerchio del centrocampo: potrebbe essere un suicidio, ma Tassotti ci pensa un secondo di troppo, dando a Barone il tempo di coprirgli la visuale. Con il pallone coperto, la linea difensiva sale immediatamente, ancora di più. Tassotti cerca allora un appoggio sul compagno più vicino: Padalino, difensore centrale del Foggia, esce in anticipo anche senza copertura. Non c’è nessuno dietro di lui. L’anticipo riesce e Padalino conduce la transizione palla al piede: a quel punto scattano tutti i movimenti di attacco. Sulla fascia opposta l’attaccante esterno, Rambaudi, si accentra per creare spazio al terzino, sfruttando il movimento ad allargarsi sulla fascia sinistra della punta centrale, Baiano. Padalino ha due opzioni di passaggio, una all’interno e una sull’esterno, e sceglie la seconda: Baiano, in posizione praticamente di ala sinistra, resiste al rientro addirittura di van Basten, salta un altro avversario e al limite dell’area passa al centro verso Rambaudi, teoricamente l’ala destra ma che in quel momento fa da boa centrale. Tocco di prima verso Baiano, che continuando la corsa si ritrova al limite dell’area, in posizione più centrale ma con Baresi vicino. A quel punto l’ala sinistra, Signori, si trova in posizione di attaccante centrale – aveva lasciato a Baiano il compito di allargarsi in fascia – e attacca la zona cieca di Maldini, cioè le sue spalle. Il filtrante di Baiano è perfetto, Maldini non fa in tempo a girarsi che Signori ha ricevuto il pallone, lo controlla e da solo davanti al portiere segna con un sinistro a incrociare. Durata dell’azione da quando Baiano ha ricevuto la palla da Padalino a quando il pallone ha superato il portiere: 7 secondi. Una vertigine verticale che mandava in tilt persino gli arbitri: secondo Pierluigi Collina, il Foggia di Zeman era la squadra più difficile da arbitrare, perché «i tre attaccanti partivano come missili ed era complicato seguire lo sviluppo dell’azione».

 

La traiettoria calcistica di Zeman dura ormai da tempo: dopo una lunghissima gavetta, gli anni Novanta sono stati il suo decennio di gloria. Un’ideologia calcistica così forte e trasgressiva non aveva mai trovato spazio nel nostro campionato: il suo calcio venne paragonato a un parco di divertimenti – da cui il nome «Zemanlandia».

delle prime tre stagioni in Serie A rimane forse la sua massima espressione ideologica, ma il livello di spettacolarità raggiunto con la Lazio prima e con la Roma poi rimane difficilmente eguagliabile, pure a distanza di più di vent’anni – anche se la promozione del Pescara nel 2012 ha rappresentato una nuova, improvvisa fiammata.

 

I princìpi tattici di Zeman – scolpiti nella pietra e dunque intoccabili – nel corso del tempo si sono sgretolati: gli aspetti negativi hanno lentamente preso il sopravvento su quelli positivi, tanto che nel calcio del 2000 le buone annate delle sue squadre si sono diradate (con la Salernitana e le prime volte a Lecce e Pescara). A fine anni Novanta risale anche la sua famosa accusa sull’abuso di farmaci in Serie A, che secondo Zeman lo avrebbe danneggiato molto: «Il calcio deve uscire dalle farmacie», disse durante il ritiro estivo della Roma nell’estate del 1998. Le sue accuse lo avrebbero reso inviso ai poteri calcistici, costringendolo a una seconda parte di carriera tra modeste squadre di provincia (e qualche tentativo all’estero).

 

Un’opinione difficile da valutare, in mancanza di una controprova. Quello che emerge, in ogni caso, è che Zeman, nel deragliamento della sua carriera, non è privo di responsabilità: la fissità tattica delle sue squadre ha reso sempre più facile agli allenatori avversari trovare contromosse – mentre i problemi storici non sono stati risolti. Le sue squadre applicano una pressione alta non troppo sistematica e che punta all’errore dell’avversario, non alla riconquista del pallone: per modernizzarsi, dovrebbe insomma incorporare i princìpi del gegenpressing. Inoltre, la linea difensiva sempre alta, a prescindere dalla posizione della palla e dell’avversario, continua a rappresentare un grave vulnus. Oggi anche la durissima preparazione atletica, identica per tutti, anziani e giovani – un’idea molto diffusa negli anni Novanta –, appare ormai superata. Le metodologie attuali puntano a ripetere in allenamento ciò che accade in gara (come disse Guardiola ai giocatori del Bayern Monaco: in partita non si può correre tra i boschi). Più in generale, il difetto delle squadre di Zeman è indissolubilmente legato al suo pregio: essere sempre uguali a sé stesse, non cambiare mai, né a seconda dell’avversario né del momento della partita.

 

Nonostante tutte le sconfitte e gli esoneri, Zeman è stato un allenatore importante per il calcio italiano: nel momento in cui il calcio diventava sempre più un prodotto televisivo, con l’avvento delle pay-tv, la spregiudicatezza delle squadre del boemo rappresentò una benedizione e un marchio distintivo della Serie A. Ma non è solo questione di spettacolo: gli allenatori nel breve periodo sono schiavi del risultato, ma in prospettiva storica dovrebbero essere valutati anche per la loro abilità nel creare nuovi percorsi tattici e diffondere i propri concetti. Proprio per questi motivi, Arrigo Sacchi considera Zeman uno dei pochi geni del calcio italiano – così come Guardiola ritiene Juanma Lillo, uno dei grandi teorici del gioco di posizione ma dai risultati spesso negativi, uno dei suoi maestri.

 

Il calcio di Zeman, infatti, aveva già a inizio anni Novanta dei forti elementi di modernità. Ad esempio il ruolo dei terzini, sempre molto alti in fase offensiva per garantire ampiezza e rispettare il principio delle terziglie, ma al tempo stesso fondamentali a inizio azione per l’uscita del pallone dalla propria metà campo (ad esempio Petrescu nel Foggia); i compiti del portiere non solo a protezione della porta ma come difensore aggiunto (interprete ideale Franco Mancini al Foggia), in grado di accorciare il campo dietro la linea difensiva – ruolo ormai diffuso nella dizione di

; la scelta (eterna e invariabile) del 4-3-3, ritenuto geometricamente superiore nell’occupare lo spazio e mantenere le corrette distanze, quando ancora era poco usato in Europa; l’importanza dei ritmi asfissianti e delle verticalizzazioni continue, quasi frenetiche – ripresi nel calcio contemporaneo dalla scuola tedesca. Zeman era l’avanguardia tattica della Serie A negli anni Novanta, ma è passato alla storia come l’allenatore del calcio spettacolo, delle difese allegre e della valorizzazione dei giovani: una diminuzione delle sue qualità di allenatore, dovuta a un’opinione pubblica pigra, abituata a ragionare per compartimenti stagni e che ha avuto difficoltà persino a riconoscere l’impatto di Sacchi.

 

Nell’immaginario collettivo, infatti, Zeman è l’allenatore degli ultimi, colui che ha diffuso l’idea quasi eretica che una neopromossa, una piccola squadra piena di sconosciuti, possa imporre un proprio stile di gioco, e con questo raggiungere risultati inimmaginabili. Il boemo ha ancora molta voglia di allenare, ma Zemanlandia volge ormai verso la fine: un parco divertimenti che ha suscitato odio e amore incondizionati, e che ha reso più spettacolare il calcio italiano. In quasi quarant’anni di carriera a livello professionistico, Zeman ha vinto un campionato di C2 (con il Licata, per sua stessa definizione la squadra migliore nell’interpretazione del suo calcio e quindi la più zemaniana di sempre) e due di B, con il Foggia e con il Pescara, il suo ultimo capolavoro. Il suo maggior vanto, come spesso ripete nelle interviste, è di aver lanciato o valorizzato giovani diventati poi grandi calciatori: da Totò Schillaci a Signori, da Nesta a Totti, da Insigne a Verratti. Per ottenere risultati c’è bisogno di una convergenza di fattori, ma soprattutto grande equilibrio tattico: forse Zeman non l’ha mai cercato, sempre convinto che fosse molto più importare divertire che vincere – come canta Venditti nella canzone

a lui dedicata.

 

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