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Il vuoto lasciato da César Luis Menotti
06 mag 2024
06 mag 2024
Lettera d'addio a un gigante del calcio argentino.
(copertina)
IMAGO / Sven Simon
(copertina) IMAGO / Sven Simon
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Ho parlato spesso di te, negli ultimi tempi, sai Flaco, con gente che ti ha conosciuto, che ha lavorato con te. Pancho Sá, Mario Zanabria, Rubén Rossi – che hai portato in Giappone per farlo diventare campione del mondo Under 20, al quale hai cambiato la vita. A ognuno di loro, Flaco, quando usciva fuori il tuo nome si illuminavano gli occhi. Stavamo cercando di organizzare una chiacchierata: avevo così tante cose da chiederti, Flaco. Rubén mi ha raccontato il discorso prima della finale di quel Mondiale giovanile, quando hai preso una sedia, l’hai piazzata al centro dello spogliatoio, ti sei acceso una sigaretta e hai detto «per me siete già campioni, per come avete giocato per tutto il torneo. Ma se oggi giocherete così e vincerete, si ricorderanno ancora di voi. Ora andate là fuori e fate divertire quei trentamila giapponesi che sono venuti a vedervi».

Eri un maestro della retorica, Flaco. E dell’educazione. Avevi un’idea precisa, di cosa fosse un allenatore: uno con il compito di preparare uomini che sappiano pensare, che abbiano sentimenti e che portino a termine un compito, dicevi. Per questo non convocavi: invitavi. E quelli che dispensavi erano consigli di vita, prima che di calcio, perché – e avrebbero messo questa tua frase in bocca a molti altri, poi – «chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio».

Quando ti chiedevano cosa fosse un allenatore, Flaco, dicevi: «un’idea da cercare di trasmettere a qualcuno sperando che questi non la abbandoni alla prima avversità». Le tue idee, Flaco, quelle che non sapevano di prato verde o di cuoio, spesso le hai tenute per te, per le riunioni del Partito Comunista – a cui partecipavi apertamente, prima, segretamente dall’instaurazione della giunta militare in Argentina. Un’idea da non tradire mai, perché nel calcio – come nella vita – «si va incontro all’insuccesso quando si tradiscono i presupposti». Se n’era accorto anche Jorge Luis Borges, che fossi intelligente. Durante un’intervista ti ha detto «è strano che uno così intelligente passi tutto il tempo a parlare di calcio».

Al calcio sei arrivato per caso, più per inevitabilità che per predestinazione. Hai cominciato a giocare già piuttosto grande, più per racimolare qualche soldo dopo la morte di tuo padre. Cancro ai polmoni, troppe sigarette. Rosario Central, Boca, poi la scelta di emigrare: New York, Santos. Hai giocato al fianco di Pelè, il più forte di sempre, dicevi. Anche se non era argentino. Poi "el Gitano" Juárez, che era stato tuo compagno al Central, ha cominciato ad allenare e ti ha coinvolto. Lo affiancavi più in veste di amico che di assistente vero e proprio: segaligno, con i capelli lunghi fino alle spalle e la sigaretta sempre pendente da un lato della bocca, prendevi da parte i giocatori e gli illustravi i concetti, come si dice. Lirismi così passatisti da risultare avanguardisti: dicevi che sul campo non devono correre i giocatori, ma la palla. La stessa cosa che avevi detto a Rattín, quando giocavi al Boca: «ci manca solo che per giocare a calcio mi tocca mettermi a correre».

Quando ti hanno dato una squadra tutta tua, l’Huracán, l’hai portata a vincere il campionato con principi semplici – eppure, in quei tempi, in cui per la maggiore andavano allenatori come "Toto" Lorenzo, o Zubeldía, erano totalmente eretici: circolazione della palla, possesso sempre e comunque, ricerca costante del dialogo tra giocatori (le chiamavi piccole comunità). La gambeta solo se funzionale, prima che estetica.

Hanno imparato a conoscerti, Flaco, come un romantico, ma anche un estremista. Parlavi in maniera ficcante di un calcio di destra e di un calcio di sinistra. La destra, dicevi, vuole convincerci che la vita è lotta e sacrificio. Che bisogna vincere, non importa come. Che i giocatori sono solo rotelle di un ingranaggio. «È proprio così», dicevi «che si generano dei ritardati, dei perfetti idioti del sistema».

Eri un visionario, Flaco. Sognavi il rinascimento de la nuestra, lo stile di gioco che ha differenziato l’Argentina dagli inglesi che hanno importato the beautiful game, un’incarnazione estetica del calcio che permettesse di liberarsi dell’eterna etichetta di campioni morali. In questo catturavi perfettamente lo zeitgeist del Paese, dei tempi: la ricerca di una libertà d’azione, dell’arbitrarietà dell’estro. Quando ti chiedevano cosa mancasse al calcio argentino, rispondevi: le stesse cose che mancano alla gioventù argentina in generale, la forza e il coraggio di liberarsi delle incertezze sul futuro. Non credevi affatto alla disciplina. «È utile?», ti chiedevi «A me suona militaristica: il calcio è un’altra cosa». Due condizioni, imponevi ai tuoi uomini: due passi di avvicinamento incontestabili al tuo modo di vedere le cose. Per le tue squadre volevi persone oneste. E coraggiose.

Forte di queste idee sei arrivato alla Selección, reduce della spedizione amara in Germania per il Mondiale del 1974. Non eri la prima scelta: Carlos Griguol, per esempio, l’allenatore del Rosario Central, rappresentava una candidatura molto solida, così come Zubeldía e il "Toto" Lorenzo, allenatori che avrebbero segnato una continuità, però, con una scuola di pensiero dalla quale il calcio argentino, affascinato dalle infinite possibilità della fantasia menottiana, stava cercando di affrancarsi.

Il fatto contingente che si sarebbe rivelato dirimente, però, è che alla guida della AFA era stato nominato Bracuto, ex presidente dell’Huracán, cioè l’uomo che aveva vinto la scommessa di puntare su di te. Cercare un tecnico per l’Albiceleste in quel momento era un po’ come cercare una donna da sposare, e Bracuto aveva tastato con mano la tua serietà, l’onestà e il senso di responsabilità. Ed era prontissimo a replicare la puntata.

Non credevi nel pensiero magico, ma nel tuo pensiero c’era comunque magia. E poi avevi un piano inedito nella sua modernità: una visione strutturata, perché un contesto complesso – giocatori che si rifiutavano di giocare in Nazionale, esodo dei crack, pressione dei grandi club – richiedeva un approccio complesso. La tua idea di calcio anelava alla tradizione, sì, ma anche al cambiamento: a un passato reinterpretato in chiave moderna, come Astor Piazzolla ha fatto con il suo bandoneón nel tango.

Hai stilato un piano, organizzato un contesto in cui regnava l’improvvisazione. Avevi un programma ecumenico e inclusivo, e quella che forse era una mossa populista, forse semplicemente geniale, è stata quella di creare quattro nazionali, che allenavi parallelamente. Hai dato voce e spazio ai giocatori dell’interior – delle zone di Córdoba, Santa Fe, Santiago del Estero – e l’interior ti ha restituito giocatori che sarebbero diventati i pilastri del Mondiale del '78. Una "Internazionale del calcio", se così vogliamo chiamarla, una classe operaia lontana dalla borghesia porteña. Hai puntato sui giovani, perché hai sempre avuto un debole per i giovani. Hai portato la Nazionale giovanile a Tolone, a vincere il torneo. Mentre osservavi insieme ai ragazzi una partita della Germania, un giovane Jorge Valdano ti ha detto «certo che son forti, eh, Flaco». Lo hai cercato con lo sguardo, poi gli hai detto «forti quelli? Ma non dica stupidaggini». Sì, perché tu Flaco davi del lei a chiunque. «Forte è lei, piuttosto, che è sopravvissuto a tutta quella povertà e gioca al calcio diecimila volte meglio».

A ogni giocatore hai instillato una specie di Sindrome di Stoccolma. Fumatore impenitente, basettoni, sguardo da aquila, l’incarnazione di un bohemién, tutto quello che avrebbero dovuto odiare. E invece finivano sempre per adorarti, Flaco, per innamorarsi della tua aria da intellettuale, filosofo, artista. Agli esterni dicevi che la velocità non ha niente a che fare con il calcio. «A pensarci bene, neppure con l’automobilismo. Dove il miglior pilota mica è quello che tiene sempre il piede sull’acceleratore, no: è quello che sa quando frenare». Li educavi all’intelligenza. «Non servono quelli che corrono, perché creano squilibrio; né il dribblomane che dribbla quando non serve, né chi gioca solo con il cuore, per non pensare. Gli unici imprescindibili, per me, sono i giocatori intelligenti». Ai tuoi centrocampisti dicevi «ma voi la sapete la differenza tra il cane guardiano e il cane assassino?». Ti guardavano attenti: sapevano che era in arrivo un'altra delle tue frasi. «Il cane assassino sta davanti alla villa: sente un rumore venire da destra e si precipita a destra. Sente un altro rumore provenire da sinistra, e si scaglia a sinistra. Il cane guardiano, invece: sta lì. Abbaia, ma non attacca. Se ne sta fermo. Ora: da te mi aspetto che faccia il cane assassino. Mentre tu: tu dovrai abbaiare. E guidare tutti gli altri».

Il golpe del 1976 ti ha colto in tournée. Stavate giocando anche bene, eppure sentivi che i tuoi giorni erano agli sgoccioli. Le tue simpatie comuniste erano note a tutti, e Bracuto – il tuo mentore – era il primo che la Junta, nel calcio, aveva fatto fuori. Al rientro a Buenos Aires hai rassegnato le dimissioni, ma il nuovo presidente federale, Cantilo, le ha rifiutate. Tra le mani stringeva la cartella in cui avevi segnato il tuo piano programmatico in vista del Mondiale casalingo. La Junta teneva tanto, a quel Mondiale. «È l’unica cosa seria che ho trovato qua dentro», ti ha detto «Ha la mia parola d’onore, Menotti: lo metteremo in pratica, punto per punto».

«Non conosco nessun sistema che eviti rischi», dicevi. «I rischi esistono, come nella vita». Parlavi di campo, ma parlavi anche di contesti più larghi. Dal sistema calcistico ai tempi della dittatura ti sei trovato avvolto, quasi fagocitato. Non potevi esimerti, se non erano loro a farti fuori: perché tu non pensavi a vincere per i militari, ma per la gente. Dicevi: «In una società come la nostra, dove le classi operaie vivono sotto pressione, senza la gioia di vivere per qualcosa in più di un pasto caldo, il calcio è il mezzo perfetto per sperimentare qualcosa di così importante come l’orgoglio». «Bisogna cercare di creare la società che uno sogna: evitando gli inganni, i tradimenti. E, da allenatore, formando gente, aiutando il pensiero».

Chiamavi il tuo lavoro in Albicelesteel proceso”: come potevi non piacere ai militari? Eri come loro. Parlavi di “difesa dello stile argentino”: come potevano sfiduciarti? Quando il Mondiale stava per iniziare, hai detto «sono cosciente dei problemi, ma non sono problemi ai quali il calcio può fornire una soluzione. L’unico compito del calcio è migliorare l’uomo come individuo: fargli capire il senso collettivo della vita, la necessità di rispettare i diritti degli altri, e l’importanza del lavoro e della disciplina». Non sei mai salito sul carro della Junta: non hai fatto molto per buttarti in corsa, ma possiamo fartene una colpa, Flaco? Sulla tua connivenza – sulla connivenza di tutta quella tua squadra – si sarebbe parlato molto, soprattutto una volta tornata la democrazia.

Quel Mondiale – il "mondiale della vergogna", come verrà chiamato, delle combine presunte, della marmelada peruana, dei centri di detenzione clandestina e tortura a seicento metri dagli stadi – è stato anche il tuo capolavoro di retorica, di diplomazia, Flaco.

Hai saputo mescolare il linguaggio della strada, quello che profuma di potrero, con la lingua degli intellettuali: sogni, gente, infanzia, tutto insieme. «Buttate un occhio agli spalti: ci sono i vostri genitori, la gente che ha sempre creduto in noi, i metalmeccanici, i panettieri, i macellai, i tassisti. Noi siamo il popolo, veniamo dalle classi oppresse, rappresentiamo l’unica cosa legittima di questo paese: il calcio. Non giochiamo per le tribune d’onore, per gli ufficiali: giochiamo per la gente. Non possiamo deluderli: dobbiamo dare la vita, in questa partita». Potevi fare di più, Flaco?

Dopo la finale con l’Olanda, dopo il trionfo, Flaco, te ne sei stato seduto su un tavolo, con la testa poggiata alla parete, gli occhi chiusi. Olguín ti ha abbracciato, ti ha detto «tra un mese nascerà mio figlio, Flaco. E io ho già deciso come lo chiamerò: lo chiamerò César».

Hai ripensato alla gioia, frammista a dolore acuto, che hai provato a ogni gol dei tuoi, quando ti sovveniva il pensiero fosco di cosa stessi festeggiando, la vittoria dei militari, della vergogna, della colpa, del pentimento per aver gioito per qualcosa di futile come il calcio mentre, a pochi metri di distanza, migliaia di persone soffrivano. Hai dato retta a troppe persone sbagliate, le hai abbracciate, gli hai stretto la mano. Sono saliti tutti sul tuo carro, sul carro del vincitore. Ma quando tornerà la democrazia?, hai pensato. Scenderanno? Oppure rimarranno, cambiando solo maschera?

All’alba sei andato a correre, vestito da calciatore, con il tuo staff, intorno all’Obelisco di Plaza Corrientes. Quella che stavi festeggiando non era che la vittoria della gente. «Mettere in relazione Mondiale e dittatura è una mossa un po’ troppo comoda e codarda», avresti detto anni dopo. «Sono stato usato? Sì. Lo rifarei, oggi? No. Anche se è un po’ troppo facile, parlare ora. Avevo una formazione politica solida. Nessuno poteva immaginare che in quelle ore stessero lanciando i corpi dei desaparecidos nell’oceano. Se lo avessimo saputo, saremmo scesi in strada».

Rimarrà per sempre il tuo più grande merito, Flaco, aver vinto quel Mondiale. E la tua più grande macchia. Al fianco, poco più piccola, ma mica tanto, quella di aver escluso Maradona. «Se vi dicessi il motivo per cui vi lascio fuori», hai detto quel giorno guardando in faccia, uno ad uno, i tuoi giocatori, «non li capireste. Domani andate pure dai giornalisti, ditegli el Flaco è un figlio di puttana e mi ha preso in giro per tutto questo tempo. Lo accetterò. Ora vi do i tre nomi, e me ne vado».

E hai pronunciato il nome dei tre esclusi. Poi ti sei alzato, hai calciato il pallone sul quale ti eri seduto lontanissimo, hai dato le spalle ai giocatori e te ne sei andato. Hai appena sentito Diego scoppiare in lacrime. Ripeteva, singhiozzando, «e adesso come glielo dico a mia mamma?». Maradona avrebbe detto che quello era stato il giorno più triste della sua carriera. Che rispettava la tua posizione, ma che non condivideva la scelta. Ezequiel Fernández Moores ha un’idea precisa sul perché di quell’esclusione: il tuo ego era troppo grande, Flaco, così come quello di Diego. Se la squadra non avesse funzionato – come di fatto, nelle prime partite di quel Mondiale, non funzionò – ti avrebbero fatto a pezzi. La pressione avrebbe rischiato di far saltare il barometro emozionale, e non era davvero il caso. Magari hai escluso Maradona per evitare che i tuoi piani saltassero. Oppure per proteggerlo dalle porcherie che sarebbero successe – le combine, le accuse di doping, le pressioni dei militari.

In Spagna, quattro anni più tardi, Diego lo hai portato. È stato l’astro più splendente del Mondiale Under 20 del 1979, forse il tuo capolavoro calcistico. Gli hai fatto il nodo della cravatta il giorno della premiazione come miglior giocatore del torneo, anche se avrebbe dovuto odiarti. E invece: non ti odiava. Ti capiva. Ti rispettava. In Spagna hai guidato la Selección in un Mondiale storto, storto perché storta era la storia del Paese, sconfitto in campo e alle Malvinas – «a noi è stato affidato un compito, che è sportivo, e faremo di tutto per onorarlo», hai detto poco prima di arrenderti al Belgio, poco prima che l’Argentina si arrendesse alla Gran Bretagna e riconsegnasse le Falklands/Malvinas. Era già un’atmosfera da fine impero, ti hanno paparazzato abbracciato a modelle, dicevano che il tuo ciclo era finito. In effetti era finito. Saresti rimasto in Spagna, per guidare il Barcellona, per guidare Diego, per diventare più teologo, filosofo, vate che allenatore.

Saresti diventato il perno sul quale la leva dell’affermazione altrui faceva più forza, decretava il proprio successo, costruiva la propria identità. Carlos Salvador Bilardo, il nuovo tecnico della Selección, quello che ha preso il tuo posto, avrebbe eretto la sua cattedrale per contrasto alla tua filosofia. Ti avrebbe accusato di essere un ravanello, rosso fuori e bianco dentro, alludendo alla tua militanza politica, e alla tua connivenza con i militari. Anche Diego, al quale avresti comunque allietato la permanenza a Barcellona regalandogli la possibilità degli unici titoli conquistati in Spagna, ci avrebbe dato giù pesante: «Non mi piacciono i comunisti in Mercedes Benz». Tu lo avresti ripagato dicendo che era troppo altalenante, troppo vittima del vento che tira, troppo scostante e imprevedibile, «come un aquilone». Quell’aquilone, cosmico, sarebbe diventato il suo epiteto più celebre.

Non saresti mai più diventato l’allenatore punto di riferimento, vincente, il maître à penser che eri stato. Ti saresti seduto sulle panchine più disparate, Flaco, dal Boca al River, dall’Independiente al Peñarol alla Sampdoria: panchine che abbandonavi dopo poco tempo, un po’ perché applicare l’idea al concetto della necessità dei risultati era diventato impossibile, un po’ perché ti stufavi. Quando hai preso le redini della Nazionale messicana hai parlato di «sogno di vincere la Coppa del Mondo»: dopo 19 partite hai rinunciato. Negli ultimi venti anni di carriera non ti sei neppure avvicinato, alla vittoria. Sei diventato rigido, conservatore, schiavo del personaggio. Ti è sopravvissuta, però, l’idea. Hai investito, predetto, promesso: raramente hai sbagliato. Ti sei sempre schierato al lato del bello, del coraggioso, della forza delle idee. Nel 2020, più come titolo onorifico che come compito reale, Tapia ti ha nominato direttore tecnico di tutte le Nazionali. Il tuo ultimo capolavoro, forse, è stato proprio quello di convincere il presidente dell’AFA a scommettere su Scaloni.

«Che il Flaco Menotti sia ai posti di comando dell’Afa è per me un piacere enorme», ha detto Maradona subito dopo la nomina. «Se il Flaco è forte, il calcio argentino sarà forte. Quarantacinque anni fa ha cambiato la rotta di un Paese che si autodefiniva il campione morale eterno. Ci ha fatto correre più dei tedeschi, e toccare palla come i brasiliani. Flaco: ti voglio un bene dell’anima, e ti auguro tutto il meglio».

«Ci sono solo due cose che sono più importanti dei titoli», hai detto una volta, Flaco. «Il riconoscimento e il rispetto». La voragine che hai lasciato andandotene, Flaco, ci si è spalancata sotto i piedi. Non improvvisa, ma imprevedibile. Non si è mai pronti, per questo tipo di situazioni: si può essere preparati, ma non pronti. Il riconoscimento, e il rispetto, è quello che ho visto negli occhi di tutte le persone con cui ho parlato di te, Flaco. Lo stesso che avresti potuto vedere anche tu nei miei, di occhi, se quell’incontro – che non c’è stato, e che dovrò immaginare – si fosse realizzato.

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