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Fabrizio Gabrielli

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Drogba a Phoenix è diventato una figura totale: capitano, co-proprietario, uomo-simbolo. La sua epopea sembra…

Prologo
Le squadre scendono in campo quando il sole è ancora alto: in dissolvenza dietro le polveri della canicola si intravedono i picchi frastagliati delle Phoenix Mountains. Dagli altoparlanti risuona “The Phoenix” dei Fall Out Boy, e l’atmosfera generale è quella che si respira sui campi di calcio minori degli States, in NASL o USL, dove l’esperienza calcistica non ha ancora subito l’omogeneizzazione eurocentrica e sopravvivono usanze tipiche e riti collettivi che fanno da corollario all’evento sportivo di per sé: ci sono i banchetti degli hot dog e l’inno nazionale viene intonato dal comandante della stazione locale dei pompieri.

 

Quaranta minuti più tardi, con la notte già calata sulla Sun Valley, in quel contesto surreale Didier Drogba segna – in una maniera squisitamente drogbish – la prima rete con la maglia della sua nuova squadra, i Phoenix Rising.

 

 

 

Metterci la faccia
Quella di Didier Drogba è una delle dieci facce più iconiche del calcio moderno: tra trent’anni, quando sorgerà una qualche forma di nostalgia da Millenials, il ricordo della dominanza fisica al centro di un attacco avrà i suoi occhi.

 

L’ivoriano ha interpretato per un decennio, con disinvoltura, il ruolo di uomo immagine. Lo ha fatto in maniera massimamente efficace, sfruttando la capacità di emanare allo stesso tempo autorevolezza e appeal, proprio come si richiede a un’icona. È stato la cuspide immaginifica del Chelsea di Abramovich: con la sua faccia ha coperto l’intero range delle espressioni che vanno dall’estrema soddisfazione allo scoramento. Si è disegnato sul volto la rabbia delusa per l’eliminazione nella semifinale di Champions contro il Barcellona del 2009 (ogni fotogramma di quei frangenti è iconico: la vis accusatoria contro Ovrebo, il fatto che sia in ciabatte, la confidenza con la quale abbatte la quarta parete per mettere tutti a parte della disgrazia che si sta compiendo); e poi, all’estremo opposto, è ancora sua la smorfia di gioia e incredulità dopo aver calciato il rigore decisivo nella finale di Monaco, il fotogramma più incisivo della conquista della prima Champions nella storia del Chelsea.

 

 

Alex Hayes, che è volato fino in Costa d’Avorio per intervistarlo, dieci anni fa, raccontava come non ci fosse un angolo di Abidjan in cui non comparisse almeno una sua gigantografia, impegnata a sponsorizzare qualsiasi cosa, dalle bevande analcoliche all’impegno politico.
Ha messo la faccia perfino su un cessate il fuoco: nel 2005, mentre con la Nazionale lottava per una prima storica qualificazione a un Mondiale e la Costa d’Avorio era dilaniata da una guerra civile, ha fatto appello affinché terminassero le ostilità. Riuscendoci, peraltro. Il TIME, nel 2010, l’ha inserito nella lista delle 100 persone più influenti al mondo anche per questo motivo.

 

 

«Lasciate che i piccoli vengano a me». Mt 19, 13-15.

 

Per quale motivo, allora, non avrebbe dovuto mettere la faccia su un’operazione come quella dei Phoenix Rising?
La franchigia dell’Arizona vuole entrare a far parte della MLS nel prossimo round di espansione, fissato per il 2020: ha ufficialmente presentato la sua candidatura a Gennaio, avrà un anno per perorare la sua causa. Drogba è il testimonial, il portavessillo, il volto dell’intero progetto, nel quale ha investito in termini metaforici e pratici. Se ne è sentito talmente parte che oltre ad acquisire una quota del club ha anche accettato di giocare in scenari surreali, dentro parchi pieni di querce sotto le quali sono parcheggiati SUV familiari, o in campi le cui tribune sono padiglioni dalle fattezze mammalucche, che sorgono in piene zone commerciali piene di pali della luce e mongolfiere giganti, in cui la gente, mentre lui esercita l’onnipontenza di chi sa di potersi permettere di tirare punizioni da centrocampo, passeggia nonscialante dietro la porta.

 

 

 

Qualche giorno fa ha lanciato un missile terra-aria che è diventato virale, finendo nei box delle colonnine di destra dei quotidiani come simbolo della resistenza, di chi sa di aver sottoscritto un patto con il demonio.

 

 

Se Dorian Gray avesse tirato i calci di punizione l’avrebbe fatto così?

 

L’aspetto interessante di tutta la faccenda è che Didier Drogba, forse, in un certo senso, il patto con il demonio forse l’ha firmato davvero. Ammesso e non concesso che non sia lui, il diavolo in persona.

 

Didier tentato nel deserto
Berke Bakay dice di essere cresciuto all’Inferno. L’inferno è l’Ali Sami Yen, lo storico vecchio stadio del Galatasaray, nel quale – dice ancora Berke – «puoi contare sulle dita delle mani le partite che mi sono perso». Nipote di un vicepresidente del club turco negli anni ‘80, Berke si è trasferito negli States a metà anni ‘90: si è laureato in Scienze Naturali alla Boston College Carroll School of Management e poi si è lanciato nell’imprenditoria. Kona Grill, la sua catena di ristoranti euroasiatici, oggi ha 41 punti vendita in tutti gli Stati Uniti ed è quotata in borsa.

 

Nel 2016, con una cordata di investitori, ha rilevato la quota di maggioranza dell’Arizona United Football Club, un club fondato solo due anni prima. Ha convinto a sposare il progetto giocatori con un passato di discreto successo come Omar Bravo e Shaun Wright-Phillips, ma soprattutto ha dato vita a un team di proprietari molto eterogeneo, che comprende il DJ Diplo, Pete Wentz bassista dei Fall Out Boy, Brandon McCarthy, lanciatore dei Los Angeles Dodgers. «L’ultima cosa che dovresti fare quando dai vita a una partnership», ha dichiarato, «è mettere insieme persone che abbiano le stesse caratteristiche e abilità».

 

DJ Diplo è il proprietario dell’etichetta Mad Decent, che ha prodotto tra gli altri Major Lazer e il disco di Snoop Dogg nella sua reincarnazione rastafariana, e che è lo sponsor che compare sulle maglie dei Phoenix Rising. Pete Wentz performa quello che è l’inno della squadra. E Drogba? Drogba ci mette i gol e la faccia, che insieme dovrebbero conferire a tutto il progetto una maggiore attrattiva, credibilità, riconoscibilità.

 

 

In termini calcistici, Phoenix è un mercato non del tutto vergine – le partite di Copa América Centenario giocate in Arizona hanno sempre avuto un grande riscontro di pubblico – e per questo potenzialmente esplosivo: è tra le quindici aree metropolitane più popolose degli States, conta su una nutrita presenza di latinoamericani – un pubblico tradizionalmente fedele – e soprattutto su più di due milioni e mezzo di persone sotto i quarantacinque anni. Phoenix è, insomma, il Regno dei Millenials: vale a dire, di persone per le quali l’associazione Drogba=calcio è scontata e proprio per questo assolutamente significativa.

 

Negli ultimi due anni, la media spettatori per le partite casalinghe dei Phoenix Rising non si è mai spinta oltre le 1500 persone: da quando è arrivato Drogba, la media sfiora le 6500 persone, cioè il tutto esaurito del nuovo Phoenix Rising FC Football Complex (il giorno dell’esordio di Drogba c’erano mille spettatori in più della capienza prevista).

 

Tutt’altro che una resa
La prima vita americana di Didier Drogba è stata un successo non solo mediatico, ma anche sportivo. Nella prima stagione a Montreal ha condotto i canadesi, con 21 gol e 7 assist, a un’inattesa qualificazione ai play-off: ha dimostrato di avere ancora qualcosa da dire in campo, anche quando – la stagione successiva – pur dovendosi barcamenare tra infortuni e ripicche con la proprietà dei Saputo ha comunque fornito un apporto decisivo sul finale di Regular Season.

 

Scegliere Phoenix, e l’USL, non è stato per Drogba accettare l’ingresso nell’anticamera della resa. Forse un ingaggio dorato in Cina, ancora una volta, lo sarebbe stato assai di più. Aveva offerte da altre franchigie di MLS, dalla Francia – dove tutto è cominciato – e dall’Inghilterra – dove tutti, lui in primis, pensavano la sua parabola potesse finire. Il Corinthians ha venduto per un mese intero, sulle ali della fantasia, maglie con il suo nome. Didier, però, voleva ancora essere decisivo, poter spostare di nuovo gli equilibri. E poi voleva, paradossalmente, crescere: Phoenix è il contesto ideale per farlo, perché gli fornisce gli strumenti per farlo in una maniera diversa.

 


Un selfie con la tifoseria dei Rising.

 

La nuova proprietà, della quale è parte integrante, gli ha affidato, oltre al ruolo di faro della squadra, la poltrona di presidente. Lui dice di ispirarsi ad Abramovich, che «ha sempre preso la decisione più giusta, anche quando era la più difficile». Presidente, proprietario e giocatore guida: tre ruoli apparentemente inconciliabili.
Forse, il primo e unico caso al mondo.

 

Nel frattempo, studia anche da allenatore, per non farsi mancare nulla. «Continuerò i corsi a Phoenix», ha dichiarato. «È quello il prossimo stadio della mia carriera, voglio essere il più possibile preparato. Sono stato un giocatore, voglio imparare a essere coproprietario e voglio anche capire come si fa l’allenatore».

 

Frank Yallop, coach in carica di Phoenix al momento dell’annuncio di Drogba, l’indomani ha rassegnato le dimissioni. Al suo posto è arrivato Patrice Carteron, ex commissario tecnico della Nazionale del Mali. Anche se con una presenza così ingombrante e totalizzante com’è quella di Drogba, forse la figura del coach è davvero un orpello inutile.

 

Un nuovo inizio?
Quando, dopo otto trionfali stagioni con il Chelsea, Drogba ha firmato per gli Shanghai Shenhua, sua moglie e i suoi figli sono rimasti a Londra. Lo stesso quando un anno più tardi ha deciso di tornare in Europa e trasferirsi, da solo, a Istanbul, e anche quando ha poi deciso di accettare l’offerta dei Montreal Impact.
Oggi, la sua famiglia lo ha raggiunto negli States. «Il fatto che abbia deciso di sradicare i figli dal loro contesto e fargli frequentare le scuole in Arizona è eloquente di quanto creda in questo progetto», ha dichiarato Berke Bakay. «Non è venuto per fare soldi. Né per finire la sua carriera in USL.». Drogba, a Phoenix, sta partecipando a un nuovo principio.

 

In “Queen of Katwe”, il film di Mira Nair incentrato sulla storia vera di Phiona Mutesi, giovane talentuosa scacchista ugandese, la tensione narrativa della trama converge sul climax in cui la bambina, che si è guadagnata il rispetto degli altri grazie all’abilità nel gioco degli scacchi, riesce nella partita più importante della sua breve vita a trasformare un pedone in Regina, e dichiarare scacco matto all’avversario.
L’obiettivo di Drogba a Phoenix, in un certo senso, è lo stesso di Phiona: si è fatto carico della missione di incoronare regina la squadra dell’Arizona, catapultarla in MLS, issare una bandiera in una parte d’America troppo a lungo rimasta esclusa dal palcoscenico più prestigioso del calcio statunitense.

 

Non possiamo sapere ancora se ci riuscirà, e se saprà essere decisivo.
Nel frattempo ci resta il privilegio di continuare a vederlo fare il buono e il cattivo tempo in campo.
La sua legacy non morirà con il ritiro, fissato – finora – all’anno prossimo: continuerà di certo a vivere, anche se non sappiamo ancora se su uno scranno presidenziale o su una panchina. La metamorfosi di Didier Drogba è tutta in divenire.
Dopotutto ogni fenice che si rispetti, per rinascere, ha bisogno di dissolversi in una combustione.

 

 

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Fabrizio Gabrielli scrive e traduce dei libri. Ha tradotto Lugones e collaborato con i blog di Finzioni, Edizioni Sur e Fútbologia. Ha scritto "Sforbiciate. Storie di pallone ma anche no" (Piano B, 2012) e "Cristiano Ronaldo. Storia di un mito globale" (66thand2nd, 2019). Scrive sull'Ultimo Uomo dal 2013.