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La carriera di Vince Carter attraverso i suoi soprannomi
20 mar 2020
20 mar 2020
Vince Carter potrebbe aver giocato la sua ultima partita in carriera, ma la sua iconografia è già eterna.
(articolo)
22 min
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Mentre nella Chesapeake Energy Arena di Oklahoma City andava in scena uno dei più surreali momenti dello sport professionistico americano, con le due squadre bloccate a pochi istanti dalla palla a due per la positività al COVID-19 di Rudy Gobert, ad Atlanta si giocavano gli ultimi secondi del supplementare tra gli Hawks padroni di casa e i New York Knicks. Con Julius Randle in lunetta per mettere la partita nel ghiaccio, il pubblico della Philips Arena ha cominciato a cantare “We Want Vince, We Want Vince” e i giocatori in campo alimentavano il coro con ampi gesti delle braccia.

Quando Lloyd Pierce decide di far tornare in campo il suo veterano, i commentatori danno in diretta la notizia che la stagione NBA è stata sospesa. Carter saluta tutti, fa la rimessa per Trae Young e quando il piccolo playmaker gli restituisce la palla, Vince fa quello che ha sempre fatto per 22 anni di onoratissima carriera: si alza e spara una tripla che trova il fondo della retina, tra l’entusiasmo di tutti i presenti in campo e fuori.

Forse l'ultima recita di Vince Carter, nella notte più assurda dell'NBA.

Si tratta della sua duemiladuecentonovantesima tripla in carriera (solo quattro giocatori nella storia dell’NBA ne hanno segnate di più), segnata nella sua millecinquecentoquarantunesima partita (a sole diciannove da Kareem Abdul-Jabbar). Una longevità onorata e rispettata come se appartenesse a un monastero buddista e non alla lega più dinamica al mondo.

Vince Carter ha impersonato per anni il fuoriclasse gentile, quello che tutti amavano perché nessuno poteva realmente odiare (tranne forse a Toronto) e capace di gesti atletici talmente inconcepibili da renderlo un modello da imitare. Una carriera che ha solcato quattro diversi decenni, attraversando le fasi da giovane promessa a venerato maestro senza mai incappare nelle insidie di una vita passata con un pallone in mano, solitamente diverse spanne sopra il parquet.

Per chi è cresciuto nell’NBA dei primi anni del nuovo millennio, come me, si poteva scegliere di essere uno tra Michael Jordan e Kobe Bryant per il canestro decisivo, tra Steve Nash e Jason Williams per qualche passaggio creativo, o tra Dikembe Mutombo e Ben Wallace per una stoppata particolarmente sonora.

Per le schiacciate, invece, tutti volevano essere Vince Carter. Tutti volevano saltare come lui, avvitarsi in aria con la sua elegante potenza e infilare tutto il braccio dentro l’anello. Solo che nessuno ci riusciva, a meno di farlo su un canestro da minibasket. Io di Vince Carter ho sempre invidiato non tanto la capacità di galleggiare attraverso gli stadi gassosi della materia, né l’abilità di far impazzire tutti coloro che assistevano alle sue performance. Ho invidiato i soprannomi. Tanti, diversi e soprattutto bellissimi, in grado di raccontare ogni angolo della sua carriera.

UFO

Il primo soprannome di Vince Carter è quello che uno si aspetta associato a un giocatore che si muove in aria sopra i radar, forse meno a un ragazzino di 11 anni alto e secco che suonava il sassofono tenore della banda della scuola. Ma è questo il nickname che i compagni di campetto a Daytona, in Florida, diedero al giovane Vince prima ancora che quest’ultimo entrasse a far parte della sua prima squadra di basket organizzato. Già volava ad altezze che erano proibitive per i suoi coetanei e a molti ragazzi più grandi, tanto che quando inizia il suo anno da freshman a Mainland High School è subito in quintetto. Il suo allenatore dell’epoca, Charles Brinkenhoff, dirà che per Vince saltare è come andare su un ascensore; solo che se per molti a un certo punto è tempo di scendere, Carter arriva sempre fino all’ultimo piano. La leggenda narra che durante una partita, saltando per un appoggio a canestro, si trovò troppo in alto per non aggrapparsi con entrambe le mani al ferro, facendo rimbombare la palestra con un suono che negli anni diventerà familiare a chi vedrà le partite di Vince.

Per la stagione 1993-94 viene spostato a giocare in ala perché ormai è troppo alto per rimanere sul perimetro e la squadra diventa immediatamente una delle più rispettate della nazione. Ma è in quello successivo da Senior che fa il salto definitivo: suona il tamburo nella banda della scuola, ha una media altissima e Mainland vince il titolo statale per la prima volta in 56 anni.

Sembra assurdo pensare che qualcuno che giocava all'epoca di video così sgranati sia ancora in NBA.

La consacrazione arriva però con la gara delle schiacciate durante il McDonalds’ All-American, durante la quale ridicolizza in finale Chris Clark e Paul Pierce. Viene introdotto dai telecronisti come “Jordanesque”, anche perché ha appena dichiarato che l’anno successivo giocherà a North Carolina: nel primo turno mostra alcune delle schiacciate che a breve entreranno dalla porta principale nello stupore collettivo. In particolare il 360° andando da destra verso sinistra e ruotando in senso orario inchiodando la palla con una violenza quasi eccessiva, che provoca l’eruzione di tutti i suoi compagni.

L’UFO era stato finalmente identificato.

Air Canada

Sul podio del General Motor Place di Vancouver, accanto a David Stern, ci sono due giocatori di North Carolina: Antawn Jamison e Vince Carter. Sono stati scelti rispettivamente con la quarta e la quinta scelta assoluta nel Draft del 1998 dai Toronto Raptors e dai Golden State Warriors. Ma proprio quando entrambi stanno per indossare i cappellini, il simbolo riconosciuto di appartenenza alla lega dei pro, arriva la notizia che sono stati scambiati l’uno per l’altro (più mezzo milione di dollari). Per Jamison è l’inizio di una solidissima carriera professionistica; per Carter è l’inizio di una storia d’amore con il Canada. Storia d’amore che, come tutte quelle ben sceneggiate, ha molti alti e bassi.

Carter arriva in una franchigia giovanissima e in un paese molto diverso, anche climaticamente, dalla Florida in cui è cresciuto. Insieme a lui c’è Tracy McGrady, un suo cugino alla lontana, che è più giovane di lui nonostante sia stato draftato l’anno prima. Sono le stranezze del periodo durante il quale si poteva transitare dall’high school all’NBA senza passare dal college. T-Mac, un prospetto meno celebrato di Carter, lo aveva fatto. Vince no.

Ai due viene richiesto di mettere Toronto sulla mappa, impresa non facile visto che la giovane franchigia doveva superare due grandi pregiudizi: il dinosauro sulle maglie viola e il fatto di essere canadesi. I Raptors inoltre venivano da una stagione da 16 vittorie e 66 sconfitte, non proprio il palcoscenico adatto per uno dei talenti più elettrici della sua generazione.

La stagione 1998-99 non parte benissimo, anzi non parte proprio. Il lockout riduce le partite giocate a sole 50, ma nonostante l’inizio ad handicap i Raptors riescono a vincerne 23. Vince Carter vince il premio di rookie dell’anno praticamente all’unanimità viaggiando a oltre 18 punti di media.

Ma è la stagione successiva a mettere Vince, e di conseguenza Toronto, sulla mappa. Prima salva letteralmente lo Slam Dunk Contest con una performance che ancora oggi è ammirata e celebrata da tutti, anche da chi non ha avuto la possibilità di vederla all’epoca. Poi segna 51 punti nella prima partita dei Raptors in diretta nazionale. I giovani Raptors riescono ad arrivare ai playoff per la prima volta nella loro storia, dove però devono soccombere alla durezza e all’esperienza dei New York Knicks di Jeff Van Gundy.

Non ce la faccio, troppi ricordi.

Sembra l’inizio di un radioso futuro ma ovviamente c’è un colpo di scena. Tracy McGrady, stanco di assistere in prima fila al Vince Carter Show, decide di accettare l’offerta dei Magic e di trasferirsi ad Orlando, vicino casa. La coppia che sembrava destinata a prendersi la lega si sfascia dopo sole due stagioni insieme e senza vincere neanche una partita ai playoff.

L’esplosione di Carter aveva tolto i riflettori da McGrady, che non aveva mai amato troppo il Canada e il suo clima rigido, e aveva rivelato una delle controindicazioni del draftare direttamente dall’high school. Cioè che questi diventavano veri giocatori NBA alla fine del loro contratto da rookie, rendendo difficile dare un reale valore alle loro prestazioni e lasciandoli partire proprio quando stavano cominciando a dare i primi frutti.

Toronto quindi vede allontanarsi una delle loro prime scelte senza ricevere nulla in cambio e si aggrappa ancora di più a Vince. Carter è il padrone di Toronto: è proprietario di uno dei nightclub più di tendenza della città, la sua maglia è una delle più vendute in assoluto e la squadra continua a vincere.

Ora allenati da Lenny Wilkens, i Raptors sono una squadra tosta piena di veterani senza peli sulla lingua come Dell Curry, Antonio Davis, Mark Jackson e Muggsy Bogues. Ma l’attrazione rimane Vince. Anzi, più che un’attrazione è uno spettacolo completo. In un mondo che conosce come unica moneta la Top-10 di SportCenter, Carter è l’uomo più ricco di sempre. Non c’è n'è una senza una sua schiacciata terrificante, come quelle che rifila a Dikembe Mutombo o Kevin Garnett, due dei migliori stoppatori in circolazione.

Quando decolla verso il ferro il commentatore delle partite casalinghe, Chuck Swirsky, lo annuncia come "Air Canada". Perché Carter non rappresenta una città, rappresenta una nazione. Una nazione che vota. Vince è il giocatore in assoluto con più preferenze per l’All-Star Game del 2001, sopra Allen Iverson e Shaquille O’Neal. È la consacrazione.

I Raptors tornano ai playoff e vincono la loro prima serie proprio contro i Knicks. Al turno successivo affrontano i Philadelphia 76ers di Iverson, MVP in carica. È una serie appassionante, che si decide a Gara-7 in Pennsylvania. Il giorno stesso della partita però l’Università di North Carolina consegna i diplomi ai laureati e Carter, che ha sempre dato grande importanza allo studio, è riuscito tra una partita e l’altra a finire il suo corso in studi sulla storia afro-americana. Decide quindi di andare alla festa dei diplomi a Chapel Hill per poi raggiungere la squadra a Philadelphia in un secondo momento. È una decisione che non piace ai senatori della squadra, cosa che viene fatta notare a Carter, ma lui se ne frega.

La partita è punto a punto fino a una manciata di secondi dalla sirena: con Toronto sotto di un punto Vince ha il tiro per vincere partita e serie ma gli va corto. In molti cominciano a imputare la scelta di andare a ritirare il diploma come la causa della conclusione sul ferro, e la tensione tra Carter e la società comincia a farsi sentire. La stagione successiva viene martoriato dagli infortuni, specialmente per una tendinite al ginocchio, e salta la sconfitta al primo turno contro i Pistons. Dopo va ancora peggio, con i Raptors che non riescono neanche a qualificarsi per la post-season e Carter è apertamente contestato dalla sua tifoseria. Quando viene assunto come GM Rob Babcock, il suo tempo in Canada è agli sgoccioli.

Viene scambiato a metà stagione con i New Jersey Nets per Alonzo Mourning, Eric Williams e Alonzo Williams, solo che Zo non vorrà andare in Canada e otterrà la rescissione contrattuale. Non solo Toronto perde Carter, ma lo perde per niente.

Quando torna per la prima volta a Toronto i fischi sono così forti da far vibrare le pareti e sarà così per più di un decennio. Sono gli amori più forti a lasciare le ferite più profonde. Solo quando tornerà nel 2014 da membro dei Memphis Grizzlies le cose cambieranno. Durante un video di tributo per gli anni a Toronto mandato durante un timeout, il pubblico prima inizia a rumoreggiare, poi ogni fischio viene coperto da un’incessante battere delle mani, che porta Carter a ringraziare tra le lacrime.

Un momento atteso un decennio.

Alla fine l’Air Canada Centre è pur sempre la casa che ha costruito Air Canada.

Vinsanity

Nella stagione 1998-99, a causa del lockout, l’All-Star Game inizialmente pianificato a Philadelphia non viene disputato. Molto male per lo spettacolo, meno per chi ama solo i voli acrobatici sopra il ferro. L’anno precedente infatti lo Slam Dunk Contest, uno degli appuntamenti chiave del weekend delle stelle sin dalla fusione tra ABA e NBA, era stato sostituito da un appassionante competizione denominata “NBA/WNBA 2-ball”. In pratica un giocatore NBA e una giocatrice WNBA appartenenti a franchigie della stessa città gareggiavano insieme contro altre coppie a chi faceva più canestri da varie distanze in 60 secondi. Mentre uno tirava, l’altro prendeva il rimbalzo e così via. Appassionante vero?

La voce di Kevin Harlan che si infiamma per un jumper dal gomito in perfetta solitudine è la dose di aziendalismo della quale avete bisogno oggi.

Sicuramente più spettacolare di un uomo che salta per arrivare a portare il pallone oltre i tre metri e cinque centimetri del ferro nel modo più creativo e atletico possibile. Ma perché il momento più atteso dell’All-Star Game era stato rimpiazzato da questa specie di campana a tempo da eseguire in tuta?

Dopo una gloriosa storia di schiacciate iconiche e gesti al limite delle possibilità fisiche, negli anni ‘90 si era trasformato in una puntata de “La corrida” dove le trovate sceniche e i trucchetti da avanspettacolo avevano sostituito la pura spettacolarità delle schiacciate stesse.

Si era rapidamente passati da Michael Jordan e Dominique Wilkins a Cedric Ceballos e Brent Barry. E non è certo una colpa dei vincitori, che dovevano inventarsi schiacciate bendati o vestiti per andare a fare jogging pur di mascherare una mancanza di atletismo, ma del formato stesso.

La gara delle schiacciate è incredibile quando almeno uno dei protagonisti è incredibile (meglio però che ce ne siano due) ed è mediocre quando i concorrenti sono, appunto, mediocri. Ma ci sono anche delle eccezioni, soprattutto negative. L’ultimo Slam Dunk Contest del vecchio millennio è ampiamente riconosciuto come uno dei peggiori di sempre nonostante sia stato vinto da un teenager di nome Kobe Bryant e avesse tra i concorrenti Ray Allen e Michael Finley.

Talmente brutto che la NBA ha deciso di rimpiazzarlo con la campana di cui sopra. Si era alla disperata ricerca di un salvatore, di un uomo capace di trasformare le schiacciate in sculture futuriste. Per fortuna quell’uomo era già arrivato e rispondeva al nome di Vince Carter. Non è un caso se la NBA decise di reinserire la competizione nel programma del sabato solo quando ebbe la conferma della partecipazione dal numero 15 dei Toronto Raptors.

E Carter dimostrò di essere l’eroe di cui avevamo bisogno, e forse quello che ci meritavamo dopo tutti gli orrendi Slam Dunk Contest che avevamo sofferto nel decennio precedente. Non credo esista un appassionato di basket che non abbia le cinque schiacciate di Vinsanity impresse a fuoco sulle retine, quindi eviterò di descriverle una per una.

Fa sempre bene rivedersi uno spettacolo del genere.

Mi basteranno due o tre dettagli per rendere tutta la grandezza della performance di Carter in quell’11 Febbraio 2000 all’Oakland Arena. Il primo sono i tre saltelli con i quali ammorbidisce l’atterraggio dopo il feroce 360 con windmill incorporato che apre la sua serie durante il turno di qualificazione (non so se ricordate quello che aveva fatto pochi anni prima al McDonalds’ All-American). Cade perfettamente dritto sulle piante dei piedi e a ogni rimbalzo acquista nuova forza, come una di quelle palline di gomma che andavano di moda all’epoca.

Provate a confrontarla con quella di Donovan Mitchell che vincerà, omaggiandolo, nel 2018. Mitchell completa la schiacciata usando tutti i muscoli del proprio corpo per salire ogni centimetro che separa la sua mano dal canestro, dando proprio la sensazione di uno sforzo sovrumano per riuscire a spingere la palla nel ferro. Infatti quando torna sulla terra è scoordinato e quasi inciampa prima di mettersi in posa. Vince Carter invece rende Isaac Newton un ciarlatano e continua a rimbalzare per farsi beffe delle correnti gravitazionali.

La seconda è il silenzio di tutto il pubblico di Oakland quando Vince decolla e chiude infilando tutto l’avambraccio nella retina interna del canestro. La schiacciata, che poi verrà chiamata in vari modi - “Elbow Dunk”, “Honey Dip” o “Cookie Jar” - non viene immediatamente capita dagli spettatori. L’esecuzione è talmente veloce e potente da non lasciare neanche il tempo di capire come il braccio di Vince sia riuscito a incastrarsi nel cotone dal lato sbagliato. È davvero una dimostrazione di strapotere strafottente: io posso e voi no. Una schiacciata che ti fa restare in silenzio a riflettere sulla fatica che quotidianamente facciamo per alzarci dal letto.

La terza è la semplicità con la quale chiede a Tracy McGrady di alzargli la palla facendola sbattere per terra e poi dirgli di togliersi dall’inquadratura, perché la scena è tutta per lui. I retroscena parlano di un rapporto non proprio rilassato tra i due cugini in quel momento, con T-Mac - rivale in quella competizione - che non voleva neanche partecipare alla gara sapendo che sarebbe stato un attore non protagonista nella notte magica di Vince. Addirittura cercò di approfittare di un ritardo della vettura che doveva portarli allo stadio per convincere Carter a desistere, come se fosse stato possibile. McGrady poi metterà su una gara di altissimo livello che però, insieme a quella di Steve Francis, passeranno nel dimenticatoio.

Anche perché la seconda volta che alza la palla per Vince, questo si inventa sul momento una delle schiacciate più iconiche di sempre, mixando la East Bay Funk con cui Isaiah Rider vinse nel 1994 prendendo la palla al volo e fronte al canestro.

A quel punto “It was over”, gente. La Vinsanity era decollata.

Half Man, Half Amazing

Anthony Heyward è un insegnante di matematica di Bedford-Stuyvesant, per tutti Bed-Stuy, che dopo una carriera collegiale in Division III ha provato a trovare senza successo un contratto professionistico in giro per il mondo. È quindi diventato uno dei giocatori di playground più forti della seconda ondata, dopo quella gloriosa degli anni ‘70, usciti da New York e diventati famosi grazie ai mixtape della And1. Durante un torneo estivo al Rucker Park schiacciò in testa ad un difensore ben più alto di lui e l’MC Duke Tango al microfono per la partita lo definì “Half-Man Half-Amazing”.

Il 25 settembre del 2000 la selezione olimpica statunitense è impegnata in una partita del girone eliminatorio contro la Francia. Vince Carter, che non doveva neanche essere a Sydney con i connazionali ed era stato portato in Australia solamente per l’infortunio occorso a Tom Gugliotta, è in campo con gli USA sopra di 15 punti a inizio secondo tempo. È ampiamente riconosciuto come uno dei giocatori più spettacolari al mondo e anche i suoi compagni di nazionale ammettono di non aver mai visto un atleta di tale livello. Jason Kidd dirà che a volte in allenamento alzava male i lob per vedere fino a che punto Vince poteva andarli a prendere.

Ma nessuno era preparato per quello che stava per accadere. Dopo un paio di errori da distanza ravvicinata di Gary Payton e Vin Baker, la Francia riconquista il possesso del pallone; uno dei giocatori transalpini però ha la brutta idea di uscire dalla metà campo con un rischioso passaggio dietro la schiena. Vince Carter anticipa il destinatario del pallone e si avvicina verso il canestro a grandi falcate. Sotto il ferro francese è rimasto Frederic Weis, il tipico centro europeo che andava di moda all’epoca: bianco, altissimo e poco mobile. Era stato scelto al Draft dai Knicks l’anno precedente con la 15^ scelta assoluta ma era rimasto a giocare in Europa, precisamente a Limoges. New York quella stagione era arrivata alle Finali di Conference, distruggendo al primo turno proprio i Raptors di Carter con un rotondo 3-0.

I due si guardano mentre Carter si fa sempre più vicino al canestro, come fossero due pistoleri in un film Western. Poi, con una mossa che non vedreste in un film di John Wayne, Vince improvvisamente stacca entrambi i due piedi da terra e vola verso il ferro, come se in mezzo non ci fosse un corpo solido di quasi due metri e venti.

Ma a volte, quando una forza irrefrenabile incontra un oggetto inamovibile, alla forza basta saltarlo di netto per non avere problemi. E quando Carter appoggia una mano sulla spalla di Weis i centimetri del francese non sembrano essere più un problema. Anzi, per Carter il lungo avversario scompare. Dirà in seguito che pensava fosse caduto a terra per prendere lo sfondamento. Invece tutti quelli che stanno guardando da fuori vedono le cose per come sono in realtà. Vince Carter salta un essere umano di 218 centimetri tra le urla e le mani dei capelli dei presenti. Il telecronista francese George Eddy comincia a strillare a monosillabi, Tim Hardaway sulla panchina statunitense si mette a saltare come un pazzo, Kevin Garnett per poco non si prende un pugno in faccia da Carter, che quando atterra - dopo un’eternità in volo - sfoga tutta la sua energia.

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Meno male che all'epoca non esistevano i social network.

La foto di Carter con il cavallo sopra la testa di Weiss fa il giro di un mondo ancora impaurito per il Millennium Bug e diventa il poster per una selezione olimpica che vincerà il terzo oro consecutivo, nonostante non avesse la brillantezza dei precedenti Dream Team.

I francesi la ribattezzeranno “le dunk de la mort” e purtroppo avrà delle brutte ripercussioni su Weiss. Dopo essere entrato nella storia dalla parte sbagliata, infortuni cronici alla schiena hanno accorciato la sua carriera sportiva ad alti livelli. Non è mai andato a giocare in America ed è sprofondato nella depressione, tentando più volte il suicidio. Ora sta meglio, ha una tabacchieria a Limoges e quando ricorda quella partita olimpica ammette che è giusto che quella schiacciata sia nella storia: «Ho imparato che gli uomini possono volare, purtroppo per me nel modo peggiore possibile».

LeBron James - allora ancora al secondo anno a St.Vincent-St.Mary - come molti americani vedrà tutto in differita, visto che si giocava in un altro emisfero. Nella Oral History di ESPN per i 15 anni di quel gesto atletico ha ricordato come all’inizio non riuscisse a capire quello che i suoi compagni di squadra intendevano con “Vince Carter ha saltato sopra un giocatore”. Quando ha finalmente visto le immagini la sua reazione è stata: “Half-Man Half-Amazing sul serio, questo nickname è assolutamente perfetto”.

Vincredible

Incredibile è stato sempre uno dei termini più utilizzati per descrivere le performance di Vince Carter su un campo da basket, ed è un termine che ammette la difficoltà di definire ciò che si è visto. E’ qualcosa che non ci aspettavamo per niente, che non riusciamo a mettere in scala con qualsiasi cosa avevamo visto in precedenza. E Carter ha ridefinito la nostra credulità schiacciata dopo schiacciata, decollo dopo decollo, finché non ha deciso di prenderci nuovamente di sorpresa trasformandosi in uno dei veterani più longevi di sempre in NBA.

La sua avventura ai Nets non è tra le più fortunate: arriva in una squadra che ha fatto due Finals consecutive (perdendole prima contro i Lakers, poi contro gli Spurs) ed ha forse superato il proprio picco. Inoltre la Eastern Conference stava diventando più competitiva grazie all’arrivo di LeBron James e Dwyane Wade e la crescita esponenziale dei Detroit Pistons. Carter in Jason Kidd troverà la prima vera Point Guard in grado di semplificare il suo gioco in attacco e in Richard Jefferson il compagno di commercial ad alta quota.

Questo celebre spot fu girato quando Carter era ancora in Canada, forse i creativi Nike sanno cose che noi non conosciamo.

Vince continua a mettere a tabellino numeri importanti (27.5, 24.2, 25.2 punti di media nelle prime tre stagioni) e le solite schiacciate ai confini della realtà, come quella sopra Alonzo Mourning che pare dopo non gli abbia parlato per sette anni, ma i Nets non sono più la migliore squadra ad Est. Escono due volte ai playoff contro i futuri campioni NBA Pistons e Heat e, quando Kidd viene spedito a Dallas, collassano. Con Carter e Devin Harris a dividersi il ruolo di stelle i Nets non arriveranno mai alla post-season e in molti cominciano a dubitare della capacità di Vince di essere un giocatore di quelli che spostano un numero sensibile di vittorie.

Ha ormai più di trent’anni e nella narrazione generale rimane uno spettacoloso schiacciatore ma non un vincente, colpa capitale nell’epica degli anelli. Viene quindi scambiato con i Magic, un’altra squadra che solo l’anno prima si era giocata le Finals (perdendole contro i Lakers). Al fianco di Dwight Howard raggiungerà per la prima e ultima volta in carriera le finali di Conference, contro i Boston Celtics di Pierce, Garnett e Allen. Nella serie contro i Big Three Carter fatica clamorosamente, tirando sopra il 50% solo nella prima delle sei partite che vedono i Magic capitolare dopo aver tentato un miracoloso recupero.

E’ la fine del Vince Carter superstar e l’inizio del Vince Carter role-player. Ha ormai trentatré anni quando viene ceduto ai Phoenix Suns e l’anno successivo ai Dallas Mavericks, l’ennesima squadra nella quale arriva immediatamente dopo la vittoria di un titolo. Non vola più sopra il ferro ma diventa uno dei migliori tiratori da tre in circolazione.

Questa tripla dall’angolo regala ai Mavs la vittoria in una tiratissima Gara-3 della serie contro San Antonio. Dallas finirà per perdere quella serie 4 a 3.

Ai Mavs si specializza nel fare il sesto uomo di lusso, poi la sua posizione sulla panca scivola sempre un po’ più indietro. Arriva ai Grizzlies come uomo di spogliatoio ma continua a ritagliarsi un ruolo importante anche ai play-off, abbattendo record su record. Quando finisce l’esperienza a Memphis, a quarant’anni si rimette in gioco ai Sacramento Kings e poi ancora ad Atlanta.

Gli Hawks sono una squadra senza ambizioni se non sviluppare i giovani talenti di Trae Young e compagni, molti dei quali sono nati dopo la notte nella quale Carter è stato draftato, ma Vince continua a fare quello che ha sempre amato: giocare a basket. A chi gli chiede perché ancora non si è ritirato risponde sempre la stessa cosa, ovvero che ha ancora lo stesso rispetto e amore per il gioco che aveva quando è entrato per la prima volta in NBA.

In una gara interna contro i Raptors, in pieno garbage time recupera il pallone sul suo stesso errore e finisce in traffico con una schiacciata a due mani. La sirena suona segnalando la fine della partita mentre Vince è sotto il canestro ed a occhi chiusi stringe il pallone da basket. Ha appena segnato il suo punto 25000 in NBA, ovviamente andando sopra il ferro.

In estate firma nuovamente un annuale con gli Hawks diventando l’unico giocatore a scendere in campo in quattro diversi decenni, un traguardo che sembrava impensabile mentre volteggiava sopra i ferri di Oakland ormai più di vent’anni fa. Da Air Canada a Vinsanity, da Half-Man Half-Amazing a Vincredible, Carter ha avuto tanti soprannomi quante vite sportive in una lunghissima, incredibile carriera che avremmo voluto non finisse mai.

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