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Vedremo mai gli esports alle Olimpiadi?
06 ago 2021
06 ago 2021
Una domanda che si porta dietro tante questioni complesse.
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Nonostante gli esports abbiano una storia breve, della loro inclusione nelle discipline olimpiche se ne parla già da diverso tempo. Questo passo per molti versi epocale era stato già proposto per Tokyo 2020 (che sembrava un match ideale essendo la capitale della culla dei videogiochi, il Giappone) e quando questa possibilità è naufragata sembrava inevitabile che gli esports entrassero a far parte dei Giochi Olimpici di Parigi 2024. Poi, però, anche questa possibilità è sfumata, da una parte per via della decisione del comitato olimpico francese di non includere gli esports tra le quattro nuove discipline che ogni paese ospitante può proporre per la sua edizione dei Giochi Olimpici, dall’altra dalle stesse considerazioni del Comitato Olimpico Internazionale, che ha definito l’inclusione degli esports tra le discipline olimpiche “prematura”. Questo orizzonte temporale, quindi, è stato spostato nuovamente alle Olimpiadi di Los Angeles del 2028, che magari vedranno finalmente sorgere quel sol dell’avvenire che per adesso rimane solo una possibilità. Che il riconoscimento ufficiale e definitivo degli esports tra gli sport tradizionali - un’eventualità spesso percepita come inevitabile e quasi minacciosa - continui a slittare, però, rafforza l’attualità delle domande che sono alla base di questo riconoscimento, e cioè: perché gli esports dovrebbero andare alle Olimpiadi? È giusto che vengano considerati discipline olimpiche?


 

Quello tra gli sport tradizionali e gli esports, lo sappiamo dalle esperienze con i club calcistici e con le leghe come la NBA, è da sempre un rapporto di convenienza, e lo stesso vale anche con le Olimpiadi. Gli sport tradizionali, attraverso gli esports, cercano di non perdere l’interesse delle fasce demografiche più giovani, e gli esports, attraverso gli sport tradizionali, cercano una legittimazione culturale e commerciale dal mondo che invece ancora li guarda con sospetto o addirittura con ostilità. Per il ruolo istituzionale che hanno le Olimpiadi, ovviamente, questo tema è amplificato all’ennesima potenza e quindi è da diverso tempo che alle domande che ci siamo già posti se n’è aggiunta un’altra, e cioè: ci guadagnano più alle Olimpiadi a riconoscere gli esports come disciplina olimpica o più agli esports ad andarci? Secondo Evangelos Papathanassiou, cofondatore della Esports Player Foundation (una no-profit che aiuta i pro-player nelle loro carriere), per esempio: «Le Olimpiadi avranno bisogno degli esports più di quanto gli esports avranno bisogno delle Olimpiadi». Per quanto possa sembrare una dichiarazione più spavalda del necessario, l’impressione è che persino dentro al CIO qualcuno la pensi così.


 

Nonostante abbia continuato ad allontanare il momento in cui gli esports entreranno ufficialmente a far parte delle Olimpiadi, infatti, il CIO non si è dimostrato insensibile alla questione cercando di utilizzare gli esports e i videogiochi a proprio modo. Prima di Tokyo 2020, e per la prima volta nel contesto di un’Olimpiade estiva, ad esempio, il CIO ha organizzato le Olympic Virtual Series, una competizione di videogiochi per nazioni ufficialmente riconosciuta. Forse un tentativo di placare l’ansia di chi, anche dentro l’organizzazione, spinge per includere gli esports per non perdere definitivamente i più giovani, che denuncia però ancora una certa titubanza verso il mondo degli esports, o addirittura una loro scarsa comprensione. All’interno delle Olympic Virtual Series, infatti, non erano presenti veri e propri esports (videogiochi, cioè, con un circuito competitivo radicato e vivo) ma simulazioni virtuali di sport tradizionali, come il baseball, il ciclismo, il canottaggio, la vela e il motorsport, forse l’unico tra questi che poteva vantare un videogioco con una qualche tradizione (Gran Turismo). Nulla di più diverso, insomma, dai “veri” esports, come League of Legends, Dota 2, Starcraft e Call of Duty (tanto per fare qualche nome).


 


Quella del CIO, che anche nella sua roadmap alle Olimpiadi del 2028 parla di physical virtual sports e non di esports, sembra più che altro una scelta democristiana, che potrebbe finire per scontentare tutti, nel caso in cui questi eventi dovessero essere inclusi tra le discipline olimpiche. Non solo il mondo degli esports, che di fatto rimarrebbe escluso con la beffa di venire sostituito da un surrogato, ma anche quello che ancora li considera figli minori dello sport, che tra l’altro verrebbero legittimati da eventi simili (per l’appunto, riproduzioni virtuali degli sport tradizionali, senza nemmeno un vero e proprio circuito competitivo alle spalle). Le Olympic Virtual Series, in definitiva, sembrano un modo del CIO per eludere la questione, o almeno per prendere ulteriore tempo. Sui “veri esports” le sue titubanze ed esitazioni sembrano più profonde e radicate, andando a intaccare anche quel rapporto di convenienza che in teoria dovrebbe essere scevro da qualsiasi incognita morale o politica.


 

L’inclusione degli esports all’interno delle discipline olimpiche, in effetti, è molto più problematica di quanto non sembri a un primo sguardo e la sua procrastinazione non dipende solo dalla “cultura boomer” del CIO, come l’ha chiamata l’amministratore delegato dei Fnatic, Sam Matthews. Le questioni, in realtà, sono diverse. Innanzitutto: quali esports dovrebbero essere inclusi come discipline olimpiche? Il mondo degli esports è variegato e vasto, e non è chiaro quali dovrebbero essere i criteri per decidere. La popolarità? A parte che sarebbe difficile da definire a priori (il maggior numero di pro-player? Il maggior numero di giocatori? Il montepremi dei principali tornei?), quello della popolarità sarebbe un principio teoricamente in contrasto con una delle funzioni dei Giochi Olimpici, cioè quella di dare una vetrina globale a discipline che per il resto del tempo rimangono all’ombra degli sport maggiori. Che poi è il motivo commerciale e politico che porta a spingere per entrare le federazioni degli sport non ancora rappresentati, come quest’anno lo skate o il surf. Quest’ultimi, però, sono espressioni di sottoculture di nicchia che cercano una loro visibilità, una condizione molto lontana da quella degli esports, che invece non sono che la versione competitiva di un fenomeno culturale già di massa. E quindi si ripropone la domanda: gli esports avrebbero davvero bisogno delle Olimpiadi?


 

L’inclusione degli esports all’interno delle discipline olimpiche comporterebbe anche alcune difficoltà logistiche. In molti paesi, per esempio, i pro-player non sono ancora riconosciuti dalla legge come veri e propri atleti, e questo potrebbe comportare difficoltà e lungaggini per ottenere i visti necessari a disputare le Olimpiadi in altri paesi. Chissà, forse nel 2028 sarà del tutto risolto ma per adesso rimane uno scoglio più grande di quanto non sembri se si pensa che anche paesi con un tessuto competitivo già solido e radicato come la Svezia hanno avuto problemi di questo tipo per tornei importanti, come il The International di Dota 2. Tra questi paesi c’è anche l’Italia, la cui mancata equiparazione continua a mettere ostacoli nelle carriere di pro-player che ancora non sanno tecnicamente nemmeno come giustificarsi a scuola. In questo senso, gli esports potrebbero davvero avere davvero bisogno delle Olimpiadi come leva definitiva per eliminare queste ultime barriere politiche.


 


L’inclusione degli esports andrebbe a mettere in discussione anche il senso stesso delle Olimpiadi e dello spettacolo che offrono. Innanzitutto perché cambiano a un ritmo completamente diverso rispetto a quello degli sport tradizionali. Se è vero che anche le regole di quest’ultimi cambiano costantemente, e il salto con l’asta di oggi non è certamente quello di trent’anni fa, è anche vero che la velocità a cui gli esports mutano è imparagonabile e nell’arco di quattro anni un videogioco può rinnovarsi al punto da diventare completamente diverso. Il fascino delle Olimpiadi sta anche nel vedere nuovi atleti sfidarsi non solo con i loro avversari presenti ma anche con la storia di una determinata disciplina, rappresentata sinteticamente dai record. Com’è possibile tenere fede a quest’aura se un videogioco potenzialmente può cambiare del tutto tra un’Olimpiade e un’altra? E questo senza contare che i “cambi regolamentari”, se così vogliamo chiamarli, non sarebbero in mano alle federazioni o a organi indipendenti, come succede negli sport tradizionali, ma ad aziende private, cioè alle case di produzione.


 

Alla base della reticenza del CIO nei confronti degli esports ci sono anche alcuni dilemmi etici. Le autorità del Comitato Olimpico Internazionali sono preoccupate che alcuni videogiochi di guerra, come per esempio Call of Duty, possano apparire in contrasto con il cosiddetto spirito olimpico, la cui funzione, in teoria, è quella di promuovere la pace tra i popoli. «Non vogliamo avere a che fare con nessun videogioco che sia contrario ai valori olimpici», ha dichiarato recentemente il presidente del CIO, Thomas Bach «I videogiochi dove la violenza è celebrata o accettata, o dove c’è una qualsiasi forma di discriminazione, non hanno nulla a che fare con i valori olimpici». Questo è forse l’aspetto in cui la “cultura boomer” è più evidente nella reticenza del CIO, che sembra fraintendere completamente il mondo dei videogiochi, solo visivamente più vicini alla guerra o alla violenza di discipline come il tiro al volo, il tiro con l’arco, la scherma o gli sport di combattimento. Sport che nessuno giustamente si sognerebbe mai di vedere in contrasto con i valori olimpici.


 

Per quanto naïf, però, i dubbi etici del CIO andranno inevitabilmente a pesare sulle sue scelte politiche, che poi saranno quelle decideranno se, come, quando e quali esports parteciperanno alle Olimpiadi. Allo stesso modo, anche per il mondo degli esports peserà la volontà politica delle singole federazioni e soprattutto delle case di produzione: quanto penseranno sia vantaggioso provare a partecipare alle Olimpiadi, quanto impegno economico e politico ci metteranno per tentare. Alla fine, più che delle nostre remore su cosa sia uno sport o meno, e su cosa possa funzionare o meno, se vedremo gli esports ai Giochi Olimpici sarà proprio per questo motivo: quanto le Olimpiadi penseranno di aver bisogno degli esports - dei veri esports - e viceversa.


 

 

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