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Redazione basket
Un anello per domarli
14 giu 2017
14 giu 2017
Cosa significa il titolo conquistato da Golden State per la storia del gioco, per Kevin Durant, per Steph Curry e per LeBron James?
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di Dario Costa

 

Quando si riscrivono le pagine del libro dei record, i paragoni con le grandi squadre del passato diventano inevitabili. E tirare in ballo la Storia del gioco, quella con la s maiuscola, dopo aver assistito alle tre migliori stagioni consecutive appare quasi un atto dovuto. Tuttavia, se mettere a confronto singoli giocatori di epoche diverse risulta già di per sé un esercizio futile, riproporre lo stesso schema accostando squadre distanti per genesi, contesto storico e percorso competitivo equivale a lasciare aperta una botola verso il vuoto profondo delle sterili discussioni da bar. In questo senso, le dichiarazioni audaci dei tanti campioni ritiratisi nel secolo scorso, al di là della

, non hanno offerto appigli.

 

Numeri alla mano, con la vittoria in gara-5 delle Finals 2017 gli Warriors hanno chiuso il triennio più vincente della pallacanestro contemporanea (254 vittorie a fronte di 54 sconfitte). I termini di paragone più vicini a quanto portato a termine da Steph Curry e compagni sono i Chicago Bulls del triennio 1996-97-98 (248-56), seguiti dalla loro versione precedente 1091-92-93 (230-74) e dai Los Angeles Lakers di Shaquille O’Neal e Kobe Bryant, che tra il 2000 e il 2002 inanellarono un record complessivo di 226 vittorie e 78 sconfitte spingendo e alzando il piede dal pedale. Ad accomunare gli inseguitori di Golden State in questa particolare classifica è, ovviamente, il conseguimento del

, impresa sfuggita ai ragazzi di Kerr con la finale persa dodici mesi fa. Viceversa, a differenziare gli Warriors da quelle tre memorabili epopee c’è il particolare non trascurabile che, sulla baia, quella conclusasi stanotte parrebbe la prima parte di un romanzo destinato a diventare una lunga saga epica. Ritiri prematuri e poi definitivi - o quasi - e l’insostenibile convivenza tra le due stelle della squadra avevano fermato quei treni di Bulls e Lakers la cui corsa sembrava inarrestabile, laddove le premesse affinché Golden State continui a dominare la lega anche nei prossimi anni appaiono oggi del tutto evidenti.

 

Un particolare curioso, emerso tra le discussioni sul tema che hanno animato gli appassionati in questi giorni, aiuta forse a comprendere meglio come questi Warriors vengano percepiti e quale potrebbe diventare il tratto distintivo della loro dinastia. Più che il confronto con le squadre sopra menzionate, ad accendere le fantasie dei cultori sembrerebbe infatti essere l’immaginario incrocio con l’incarnazione di cattiveria e scorrettezza tradotte sul parquet, ovvero i

della Detroit fine anni Ottanta. Il pensiero su cui poggia la risposta alla domanda “chi, tra le squadre del passato, potrebbe fermare Durant e compagni?” è chiaro: questi Warriors giocano una pallacanestro così vicina alla perfezione stilistica che, per batterli, servirebbe una squadra quasi del tutto disinteressata alla forma e orientata a far emergere la sostanza, magari a colpi di

e gomitate. Come a dire: se non sei in grado di riprodurre la celestiale genialità con cui Thelonious Monk muove le dita sul pianoforte, tanto vale provare a coprirne le melodie facendo suonare gli Slayer al massimo del volume. Perché la cifra stilistica di questi Warriors è senza dubbio la qualità di pallacanestro offerta dalla prima palla a due della stagione fino al fischio finale di gara 5.

 

Sotto questo punto di vista, l’esempio più vicino potrebbe essere rappresentato dagli Spurs delle Finals 2014, guarda caso anche loro usciti vincenti con il medesimo punteggio dal confronto con LeBron James, i cui talenti erano all’epoca ormeggiati dalle parti di una South Beach ormai priva di forze e motivazioni. La fluidità del gioco e la capacità di eccellere su entrambi i lati del campo è in effetti analoga, ma le somiglianze finiscono lì. Quella era una squadra forgiata da quindici anni di esperienza ad altissimo livello, condotta da una guida tecnica senza precedenti, trascinata da un fenomeno in portentosa ascesa (Leonard), con tre straordinari, vecchi leoni all’ultimo ruggito (Duncan-Parker-Ginobili) e comprimari in stato di grazia (Green, Mills e Diaw). Un allineamento perfetto delle stelle che, come prevedibile, non si è più ripetuto.

 

Questi Warriors, invece, hanno due dei cinque migliori giocatori della lega, quattro dei primi quindici (la criminosa esclusione di Klay Thompson dai quintetti All NBA è attualmente al vaglio dell’apposita commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite): con un tale accumulo di talento individuale, giocare con quella scioltezza non dovrebbe risultare possibile. L’inserimento di Durant, primo attore che veniva da un contesto tecnico ben diverso, è avvenuto in modo del tutto indolore, senza imporre modifiche sostanziali all’impianto di gioco o alterazioni agli equilibri dello spogliatoio. La volontà di passarsi la palla e difendere di squadra è un requisito necessario in casi come questo, ma non sempre si dimostra presupposto sufficiente. Perché oltre alla volontà occorre poter disporre del talento e della comprensione del gioco, ingredienti di cui Golden State può disporre in dosi mai accumulate prima sotto un unico banner.

 


L’ultima partita della stagione 2016-17.



 

Nella memoria collettiva, più che la singola giocata di uno dei protagonisti, è probabile che Golden State verrà ricordata per questa eccezionale connotazione, peculiarità che sfocia in quei parziali davvero impossibili da fermare, in particolare tra le mura amiche dove vengono accompagnati dall’intimidatorio coro “Waaaaaaarriooooors, Waaaaaaarriooooors” scandito dagli spalti. Sono quelli i momenti in cui la loro superiorità prende il sopravvento e che in questo triennio sono diventati così abituali da lasciare sorpresi quando non si verificano o, ancor di più, quando non conducono alla vittoria.

 

E forse l’unicità di questi Warriors risiede proprio lì: nell’apparentemente naturale predisposizione a fare quello che fanno, cioè

. In questo senso, più che i raffronti con le grandi squadre del passato, il paragone più azzeccato per Curry e compagni sembrerebbe quello con i prodigi degli sport individuali. La disumana acquaticità di Michael Phelps o l’imprendibile passo di Usain Bolt, per dire: fenomeni da cui risulta lecito attendersi il trionfo a ogni ingresso in corsia (eventualità verificatasi piuttosto spesso, in effetti). Allo stesso modo, osservando Golden State giocare a pallacanestro, la vittoria appare quasi una logica, inevitabile conseguenza. Ovviamente la realtà è ben diversa e dietro alle conquiste di Phelps e Bolt, così come a quelle degli Warriors, ci sono fatica, sudore, sacrifici e una dedizione incondizionata all’inseguimento dei rispettivi traguardi. Eppure, nella percezione comune, l’esito delle competizioni che li vedono coinvolti risulta quasi

. Se esiste un metro con cui misurare la dimensione storica di un atleta o di una squadra, questo è senz’altro uno dei più affidabili.

 

Gli Warriors, insomma, nella storia ci sono già entrati, con buona pace di chi si ostina a non riconoscerne la grandezza e preferisce cullarsi nella nostalgia di un passato che cristallizza memoria ed emozioni, gonfiando il petto della retorica a discapito dell’obiettività. Non solo, come già sottolineato, l’orizzonte sulla baia è più che mai aperto verso nuove conquiste. L’anagrafe è dalla loro parte, l’incastro di ego appare in grado di reggere e nemmeno le implacabili regole della lega sembrano in grado di frapporre ostacoli tra il presente da campioni e un futuro da leggende. Resta da vedere come reagirà il resto dell’NBA al più che probabile dominio degli Warriors: è ipotizzabile che i

dei prossimi anni non verranno allestiti con l’unico intento di accumulare il maggior numero di stelle possibile, quanto il maggior numero di stelle possibile

. Le scelte che le altre franchigie si troveranno a dover prendere saranno orientate a trovare non solo i migliori talenti a disposizione, quanto i migliori talenti a disposizione in grado di giocare insieme. Proprio come Durant e Curry, Thompson e Green, la cui convivenza in campo sembra quasi un esperimento di sofisticata ingegneria biologica. Più che gli anelli vinti e quelli da vincere, ad oggi è questo il risultato più distintivo ottenuto dai Golden State Warriors: essere diventati il paradigma perfetto per il resto della lega.

 

Se non è grandezza questa, allora la grandezza non esiste.

 

 







I Golden State Warriors rischiano di essere la spina nel fianco per chiunque proverà a parlare di NBA nei prossimi anni. Già da adesso secondo molti queste finali sono state “come un All-Star Game” - ovverosia con punteggi altissimi, farcite di stelle e senza particolari attenzioni sulla difesa. Sembrerebbe scontato, ma non è così immediato far capire che se i due attacchi più prolifici della storia giocano ad un ritmo elevato è normale aspettarsi quarti di gioco da 75-80 punti combinati.

 

Quello che più rischia di spaventare lo spettatore, però, è l’eventuale mancanza di competitività. Queste Finals sono state tecnicamente magnifiche, ma sono già state scartate da molti in favore di altre meno belle tecnicamente e tatticamente per la mancanza di “drammaticità” che solo dei risultati in bilico possono portare. In queste finali invece la squadra favorita ha vinto con buon margine, rispettando il pronostico più diffuso già dallo scorso luglio.

 


Il viaggio però non è stato così brutto, dai.



 

La NBA non ha mai brillato per imprevedibilità generale rispetto agli altri sport americani: l’importanza di un singolo giocatore è amplificata dal fatto che puoi schierarne solo cinque in campo contemporaneamente; non esiste un

che porti a drammatici riassetti dei roster da un anno all’altro (come invece accade per la NFL) e le serie di playoff al meglio delle sette partite minimizzano i rischi di

e di sorprese in generale. Ad aggravare la situazione c’è anche il fatto che Golden State sembra in procinto di aver appena iniziato la sua nuova egemonia sulla lega, quando in realtà ha appena concluso il triennio più vincente in regular season di sempre vincendo due anelli su tre, perdendo l’unica serie in gara-7 con numerosi acciacchi e un Prescelto che doveva adempiere al suo destino (roba in confronto alla quale la strategia per passare sopra o sotto i blocchi sembra essere stupida e irrilevante).

 

Il terzo anno di questi Warriors non è il terzo anno degli Heat, che vinsero il loro secondo titolo in gara-7 ma senza dare l’impressione che gli Spurs fossero davvero più deboli. E non è nemmeno il terzo anno dei Lakers di Shaq e Kobe, dove iniziava a serpeggiare il malumore e scricchiolii tra le stelle, rischiando tantissimo contro i Sacramento Kings in finale di conference. Golden State invece siede di nuovo sul trono con le altre a debita distanza, e nel breve periodo non sembrano esserci ostacoli alla loro grandezza.

 

Il sistema ideato nel 2011 con il nuovo CBA era stato pensato proprio per evitare una concentrazione di stelle nella stessa squadra, ma comunque non può impedire ai giocatori di scegliere cosa fare con la propria testa e secondo le proprie ambizioni di carriera. Con ogni probabilità Steph Curry e Kevin Durant rifirmeranno a luglio rinunciando a qualche milione a testa per permettere a Andre Iguodala e Shaun Livingston di restare; il loro monte salariale schizzerà alle stelle in breve tempo, ma già adesso stanno producendo più soldi del necessario (l’anno passato hanno versato oltre 50 milioni nelle casse delle altre squadre come forma di perequazione per gli ascolti televisivi); e all’orizzonte c’è il nuovo palazzetto a San Francisco che sembra promettere nuovi impensabili incassi. Golden State pagherà tantissimo per mantenere questa squadra intatta e difficilmente sarà comunque in perdita. Certo, eventualmente la perdita economica arriverà, molto probabilmente a causa della

che si fa sempre più gravosa per ogni anno passato sopra la soglia della

ma quel giorno appare ancora lontano e non ci sono motivi per fasciarsi adesso la testa sulla questione.

 

Eppure, nonostante tutte le promesse del caso, non si può semplicemente pensare che gli Warriors siano

per la NBA. Non è colpa di Golden State se Toronto-Milwaukee o Utah-Clippers non sono state serie particolarmente piacevoli: le migliori serie e la miglior partita di questi playoff ha comunque visto i Dubs coinvolti, e non è certamente un caso né una colpa. Inoltre c’è quell’

dato degli ascolti televisivi, per il quale queste finali sono quelle con gli ascolti più elevati dai tempi di quelle del 1998, in cui Jordan vinceva il suo sesto ed ultimo anello - da sempre il

per la NBA. Ovviamente gli ascolti non sono sempre indice diretto di qualità e si potrebbe pensare ad un calo nel prossimo anno, ma per ora - ed è un trend confermato - i

piacciono e vendono. Alla fine lo spettatore medio apprezza più una finale con 7 All-Star (tra cui tre delle superstar più riconoscibili del mondo sportivo in generale tra James, Curry e Durant) e punteggi altissimi che una con meno nomi altisonanti ma più combattuta e tattica (cvd. Spurs-Pistons 2005).

 

Ogni volta che nasce un

(e in maniera più amplificata quando vince) c’è sempre l’impressione che per i prossimi anni “tutto sia già scritto”. Ma ogni volta la competizione migliora: giocare contro una corazzata spinge tutti a migliorarsi, tanto a livello dirigenziale quanto a livello di campo, e spesso dal nulla o quasi dei

diventano stelle e buone squadre diventano eccellenti, mentre comunque i

inevitabilmente invecchiano. Nessuno pensava all’ascesa dei Detroit Pistons quando i Lakers persero una sola partita in tutti i playoff del 2001, e tutti pensavano che gli Spurs avrebbero dovuto “darla su” e rifondare da capo (erano stati

dai Suns nel 2010) quando si formarono gli Heat dei Big Three. Succederà anche con questi Warriors, che sia a causa di un miglioramento diffuso, di una mossa di mercato inattesa o perché fortuna e sfortuna giocano comunque un ruolo determinante ogni anno. Cosa sarebbe successo quest’anno se Durant si fosse fatto male sul serio a fine febbraio dopo aver visto Pachulia crollargli sul ginocchio?

 

Quello che è certo è che Golden State in questi anni ha cambiato la pallacanestro, ha realizzato il miglior record nella storia della regular season (73-9) e dei playoff (16-1), ma non per questo gli Spurs sono disposti a sprecare il

di Kawhi, i Cavs quello di LeBron, i Rockets quello di Harden. Alla fine c’è sempre un motivo per guardare Golden State e la NBA: per vedere se qualcuno riesce a batterli, per apprezzare il loro meraviglioso gioco corale o solo per capire quale sarà la prossima corazzata che verrà dopo di loro. Voi Michael Jordan e i suoi Bulls non li guardavate?

 





Di Dario Ronzulli

 

Partiamo dai numeri, che in questo caso tanto freddi non sono: 35.2 punti, 63.9% di percentuale reale dal campo, 8.2 rimbalzi, 5.4 assist, 28.5% di usage, 121.7 di offensive rating. Eppure queste cifre, seppur strabilianti, non rendono in minima parte l'idea dell'impatto che ha avuto Kevin Durant sulle Finals 2017 e sul terzo episodio della trilogia. Il premio di MVP all'unanimità è stato la logica conseguenza di una serie di partite memorabili nelle quali KD da un lato ha confermato di essere un enigma senza soluzione per la difesa dei Cavs e dall'altro ha dato un'accelerata paurosa al suo cammino verso l'agognato titolo.

 



Godiamocelo in loop.



 

Durant ha vissuto a lungo con la nomea dello splendido perdente (parola che viene appiccicata addosso ai giocatori con una facilità irrisoria, ma questo è un altro discorso). C'è sempre stato un “ma” ad accompagnarlo: grande realizzatore “ma” non è un uomo squadra; grande talento “ma” non è un leader; grande tecnica “ma” non vince quando conta; e così via. Se ha lasciato i Thunder ed è andato ad Oakland è perché quell'etichetta gli creava un fastidio quasi fisico. Voleva vincere, voleva l'immortalità, voleva rispetto: e chi gli poteva offrire tutto ciò meglio degli Warriors? Nessuno.

: “

”.

 

Era scontato che questa scelta avrebbe attirato su di sé ironie, insulti e accuse variamente assortite per la serie “ti piace vincere facile, eh?”. Come se il Larry O’Brien Trophy fosse stato consegnato da Adam Silver già al momento della firma con gli Warriors. In realtà nello sport nulla è scritto e tutto è da conquistare: dal primo giorno di training camp – se non da prima – Durant ha dovuto lavorare quasi più sull'aspetto mentale, sulla concentrazione, sulla pressione da affrontare per una stagione che sul lato tecnico e tattico. L'essere “obbligati a vincere” poteva essere la vera avversaria per Golden State e KD, ma riguardando la stagione non c'è mai stato un momento in cui realmente i giocatori di Kerr sono sembrati in balia della paura e dei vecchi fantasmi. Neanche k.o.

ha fatto perdere la concentrazione, e neanche l'infortunio dello stesso Durant li ha rallentati. Una dedizione all'obiettivo comune spaventosa, la prima causa di una stagione fantastica.

 

Se da un lato Golden State ha dato a Durant quello di cui aveva bisogno, lo stesso si può dire dell'ex Thunder verso la squadra. Da quale lato penda di più la bilancia è questione di sensazioni personali più che di dati oggettivi. Di certo c'è che KD ha portato in squadra esattamente quello che la dirigenza e Kerr si aspettavano da lui: talento offensivo, applicazione difensiva, sacrificio per la squadra, condivisione dell'idea di gioco. Che ci provasse con tutto se stesso era certo; che l'effetto sul campo sarebbe stato questo non era affatto prevedibile con certezza assoluta.

 

È l'apoteosi di Durant, sia inteso come Kevin che come mamma Wanda. Una figura cruciale nella vita dell'MVP, diventata anche mediaticamente rilevante dopo i commoventi

del figlio per il premio di miglior giocatore del 2014 fino al

con Stephen A. Smith che aveva definito il passaggio di KD agli Warriors «

». Una donna forte, energica, decisa: è anche merito suo se il numero 35 è arrivato dove voleva.

 

https://youtu.be/9gPPDMDhO-4?t=7s

“Vieni qua, bello di mamma!”



 

Dunque: adesso Kevin Durant è un vincente perché ha un anello al dito. Anzi no: resta un perdente perché ha vinto solo con altri fenomeni. Lasciamo queste considerazioni a chi lo sport non sa neanche dove sia di casa. Quello che è sotto gli occhi di tutti,

, è che Kevin Durant aveva un obiettivo, ha scelto una strada che sentiva sua più di altre, ha lavorato duramente giorno dopo giorno ed è arrivato al traguardo a braccia alzate. Ovviamente avrà sempre dei “ma” ad accompagnarlo, perché il destino dei grandi giocatori è questo: tuttavia siamo certi che il malessere che creavano non ci sarà più.

 

KD aveva già il suo posto nella storia del Gioco: ora si è semplicemente spostato qualche fila più avanti in una poltrona che sente più confortevole.

 

 



di Daniele V. Morrone

 

Per parlare di Steph Curry penso sia utile iniziare raccontando l’aneddoto del sigaro, diventato famoso perché lui stesso si è presentato alle interviste post-vittoria fumandone uno: «La storia dietro questo sigaro è che dopo gara 7 dello scorso anno ho detto ad uno dei miei più cari amici di metterlo da parte e preservarlo. Per essere così in grado di godermi il processo e il viaggio. Ho aspettato un anno intero per potermelo fumare. Ovviamente ora me lo godo tutto».

 




 

Avevo scritto

di quanto sarebbero state importanti per Steph Curry, per riuscire prima di tutto a distruggere la narrativa venutasi a creare dopo quelle dello scorso anno. E l’idea che il sigaro rappresenti per lui proprio il simbolo di questa narrativa andata in fumo penso sia quella forse più evidente. Dopo il secondo titolo, però, penso che si debba fare un discorso sul rapporto tra lui e la sua

.

 

“Sopravvalutato”, “La squadra ora è di KD”, “Inutile ai fini del risultato”, “Sparatore a salve”: questi sono solo alcuni dei commenti presi dal mucchio del post Finali 2016 dedicati a Steph Curry. Penso sia inutile spendere del tempo a confutare frasi del genere, mentre il discorso di fondo è molto importante. Per la storia della NBA l’arrivo di Michael Jordan rappresenta uno spartiacque decisivo anche nel rapporto tra un giocatore e la propria

: Jordan non solo ha obliterato la concorrenza dei contemporanei, ma ha cambiato la visione della NBA delle future generazioni. La natura da “maschio alfa” del giocatore più forte della storia ha portato al pensiero unico della narrativa che la

di un giocatore sia legata al suo status all’interno di una squadra vincente: non basta più vincere, lo si deve fare come unico padrone incontestato all’interno del sistema e nelle gerarchie del gruppo. Bisogna insomma non soltanto battere la concorrenza esterna, ma obliterare anche quella interna. Come se il titolo di MVP delle Finali abbia lo stesso valore dell’anello. E che un giocatore, per poter entrare nella storia tra i migliori di sempre, debba avere quello come obiettivo tanto quanto vincere l’anello.

 

Questo però può far venire in mente il passaggio di LeBron James a Miami, che penso che sia ancora più calzante se analizzato nella prospettiva del suo compagno Dwyane Wade. La percezione che abbiamo di Wade, una delle migliori guardie tiratrici della storia del gioco, descrive al meglio quello di cui sto parlando: la

che si lascia Wade è diversa da quando ha accettato “nel suo recinto” un altro maschio alfa, di fatto abdicando al suo regno. Steph Curry come Wade ha vinto, sì, ma ha abdicato al suo regno per accettare un pari che potesse fare concorrenza interna al suo dominio di leader tecnico e mentale della squadra. E questo viene visto generalmente come un sacrificio negativo. Soprattutto perché poi, nonostante l’evidente importanza di Curry nel sistema degli Warriors, a vincere il titolo di MVP delle Finali è stato

.

 



 

Gli Spurs hanno per fortuna mantenuto accesa in questi anni (grazie alla natura stessa di Tim Duncan) la fiaccola di un’altra visione dello sport e di cosa significhi far parte di un sistema complesso come quello di una dinastia vincente. Gli Warriors - che con i vari distinguo sono una costola dell’evoluzione degli Spurs - in questi anni non hanno fatto altro che proseguire questa idea e l’hanno fatto principalmente grazie a quello che viene considerato un sacrificio da parte di Steph Curry, che come fece a suo tempo Wade, ha abdicato al suo regno per accettare un pari che potesse fare concorrenza interna al suo dominio di leader tecnico e mentale della squadra. Quello che ha fatto Curry però non deve essere per forza visto come un sacrificio negativo: la concorrenza interna è invece quello che più di ogni altra cosa stimola la crescita in qualsiasi ambito di una persona. Avere Durant in squadra non ha solo portato gli Warriors ad entrare nella storia come una delle squadra più forti di sempre, ma ha anche permesso a Curry di abbattere la narrativa predominante. Quando arriva la vittoria finale, essere protagonista della squadra più forte di uno sport di squadra vale tanto quanto esserne

protagonista unico. Curry ha vinto, l’ha fatto divertendosi con dei compagni che lo adorano e con loro ha posto le basi per qualcosa di veramente immenso.

 



 

Quello che più mi da fastidio è che lo si accusa di essere qualcosa “di meno” per aver scelto un modo diverso di arrivare al risultato che tutti gli chiediamo. Un modo che poi prevede anche un importante salto mentale da parte sua nel ripensare la natura stessa del suo gioco, aggiungendo una dimensione da passatore e da rimbalzista sottovalutatissima, diventando realmente un giocatore

. Gli avversari per batterlo in passato hanno giocato sulla narrativa comune che “la stella della squadra debba fare la giocata”, anche sotto pressione, indipendentemente da tutto. Ecco quindi che arrivavano gli aiuti forti, il gioco duro per forzarlo a fare una cosa innaturale per una “classica” stella NBA di prima grandezza: passare il pallone fidandosi dei compagni.

 

Come scritto da

, però, il motivo che rende gli Warriors imbattibili è proprio che Steph Curry ha accettato, pur andando contro la sua natura di realizzatore irrazionale e anarchico, di fregarsene della narrativa: “Se la difesa ti pressa, ti raddoppia, prova a renderti difficile la vita forzandoti la giocata, passala. Muovi la palla e poi muoviti senza palla. Fidati dei tuoi compagni e fidati che ti ritorni. Fidati facendo la giocata giusta, quella intelligente e anche se alla fine non sei tu a chiuderla, ne derivano cose belle. E quelle spettacolari”. Questo è quello che ha fatto Curry per vincere. E se vincere deve essere l’obiettivo ultimo di ogni giocatore della lega, allora non possiamo criticarlo per aver fatto la scelta giusta invece di quella comune. Curry ha accettato senza problemi di condividere il palcoscenico con Durant per crescere come gruppo e come singolo giocatore, per passare da una grande squadra ad una leggendaria. La sua

quindi deve essere legata a quella di un vincente non tanto per l’anello al dito, ma come Wade e Duncan prima di lui, per aver battuto anche il pensiero unico dominante. Fumandosi poi un bel sigaro per festeggiare.

 





di Dario Vismara

LeBron James si auto-definisce spesso “

”. Questo significa che, esattamente come facciamo noi qui o sui social o sul posto di lavoro o a scuola, passa una quantità indefinibile di tempo a pensare, ragionare e analizzare lo sviluppo del gioco e della lega. Solo che noi lo facciamo per passione e divertimento, lui lo fa per capire come sfruttare a suo vantaggio la Storia del gioco e indirizzare il modo in cui si parlerà di lui quanto tutto sarà finito. La scelta stessa di tornare a Cleveland nel 2014 è stata definita come una “

”, un modo per cambiare la sua percezione tanto nell’immediato che nel futuro, utilizzando quella parola (

) che immediatamente apre quel calderone di classifiche-dei-migliori-giocatori-di-tutti-i-tempi, di paragoni impossibili tra epoche diverse, di conti con l’abaco su quanto si ha vinto e quanto si ha perso che continueranno per sempre a

attorno allo sport.

 

È evidente che nella sua testa il fatto che abbia perso cinque finali su otto continuerà a pesare, perché il record immacolato di Michael Jordan (6-0) è fin troppo facile da far notare, specialmente quando si ha come obiettivo quello di diventare il G.O.A.T.. Certo, poi bisognerebbe contestualizzare quello che è successo: James solamente due volte su otto è entrato nella serie finale da favorito secondo le quote di Las Vegas, e ne è uscito con tre titoli; James ha subito solamente quattro eliminazioni ai playoff

delle Finals, mentre Jordan ne ha avute sette (peraltro prendendosi 18 mesi di sabbatico in mezzo ai due

che LeBron non può permettersi); soprattutto, James ha affrontato in finale squadre non solo superiori alla sua, ma anche superiori alla stragrande maggioranza delle squadre vincitrici del titolo NBA nella storia. E qui arriviamo ai Golden State Warriors.

 

Nella sua testa James si è accorto che questi Warriors non sono una squadra normale, perché non è normale avere quattro All-Star perfettamente complementari, nel pieno

delle loro carriere e supportati da una panchina di assoluto livello che possono essere contemporaneamente la miglior squadra della lega in attacco

in difesa. Nel corso delle ultime settimane LeBron non ha mancato di sottolineare la forza di Golden State a ogni occasione: li ha definiti «

, «

e «la squadra con la più grande potenza di fuoco» che lui abbia mai visto. Come a dire: io avrò anche perso cinque finali, ma guardate chi c***o ho dovuto affrontare.

 

In un certo senso, questi Warriors sono una sua creazione, una sua colpa: se non avesse vinto il titolo come lo ha vinto lo scorso anno, Draymond Green non si sarebbe

mezz’ora dopo aver perso il titolo chiedendo a Kevin Durant di unirsi a loro e lo stesso KD, almeno

, «di sicuro» non sarebbe andato a Oakland se gli Warriors avessero vinto.

 

Questi Warriors quindi sono a loro modo una testimonianza alla Grandezza di James: una squadra da 73 vittorie ha avuto bisogno di andare a prendere un top-3 della lega — nonché futuro Hall of Famer — nel suo ruolo per avere ragione di James e dei suoi Cavs, che nella finale appena conclusa hanno perso solo di dodici punti i 212 minuti passati in campo da LeBron (in una serie finita 1-4). Conviene quindi fare un ragionamento anche su quanto fatto dai suoi c

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