Il sottile filo psicologico della serie
di Dario Costa
Dopo sette mesi di stagione in cui, al netto di qualche estemporanea nota a margine, il copione non ha riservato colpi di scena, i Golden State Warriors e i Cleveland Cavaliers arrivano alla tanto annunciata resa dei conti con stati d’animo sensibilmente diversi. Al di là dell’ovvio minimo comune denominatore — la ferrea volontà di mettere le mani sul Larry O’Brien Trophy —, il patrimonio emotivo con cui le due contendenti si presentano al terzo confronto consecutivo potrebbe giocare un ruolo importante nel determinarne l’esito.
Golden State: un treno lanciato a velocità folle verso il futuro
Il peso di quanto successo nelle sette gare delle Finals 2016 e le decisioni maturate durante l’estate sembrano pesare soprattutto su Golden State: l’ingaggio di Kevin Durant e la successiva messa a punto di una versione 4.0 della gioiosa macchina da canestri capace di riscrivere i libri del gioco hanno da subito presentato un unico, inevitabile sbocco — il titolo NBA.
Dal punto di vista strettamente agonistico, una regular season dominata dando l’impressione di mantenere la velocità di crociera anche quando gli infortuni e le sorprendenti performance di San Antonio sembravano poter guastare i piani non ha costituito un banco di prova affidabile. Così come, durante i primi tre turni di playoff, le versioni menomate di Blazers, Jazz e Spurs non sono riuscite a mettere in seria difficoltà Steph Curry e compagni. Considerato che uno dei pochi difetti, forse l’unico, di una squadra quasi perfetta è risultata in passato l’eccessiva fiducia nei propri mezzi, l’assenza fin qui di test provanti potrebbe rivelarsi un problema. Più che giorni extra di riposo, agli Warriors sarebbe forse risultato più utile passare attraverso almeno una serie minimamente combattuta. D’altro canto, tuttavia, l’esperienza dell’anno scorso contro i Thunder si è rivelata di ben poca utilità quando, specialmente nel finale della serie, Cleveland ha alzato i giri del motore. Lo strapotere tecnico di Golden State, poi, è così evidente che immaginarlo scalfito è materiale da pura distopia cestistica, uno psicodramma da Black Mirror in salsa NBA. Certo, se la serie dovesse protrarsi a lungo è possibile che lo spettro di gara-7 delle scorse finali torni ad affacciarsi lungo i corridoi della Oracle Arena, ma le motivazioni che animano i singoli e la forza complessiva del gruppo appaiono in grado di scacciare qualsiasi fantasma e volare alto sulle ali dell’enorme talento a disposizione.
Possibile quindi che la maggior pressione psicologica arrivi fuori dallo spogliatoio, in particolare dalla dirigenza e dall’ambiente che circonda gli Warriors. Le recenti dichiarazioni del proprietario Joe Lacob («In finale rivoglio i Cavs perché eravamo la squadra migliore l’anno scorso e vogliamo una rivincita») non sono altro che la conferma, nemmeno tanto inaspettata, della convinzione di superiorità in cui tutta la franchigia sembra vivere, seppur con diverse declinazioni. Convinzione alimentata non solo dai risultati maturati sul parquet ma che, anzi, trova il proprio retroterra nella spavalda ostentazione della propria modernità fuori dal campo. Gli Warriors credono di rappresentare per l’NBA quello che la Silicon Valley rappresenta per la cultura d’impresa americana e mondiale: dal rapporto coi media alla gestione dei processi interni, passando per il marketing e la relazione con la comunità di riferimento (quella attuale e, ancor di più, quella futura dall’altra parte della baia), non c’è ambito in cui Golden State — dall’arrivo del duo Lacob-Gruber nelle vesti di proprietari e di Bob Myers dietro la scrivania di GM — non venga considerata all’avanguardia e ammirata come modello (e per questo sommessamente odiata) dal resto della lega.
Tuttavia, qualora a seguito delle tre migliori stagioni regolari consecutive di sempre non dovesse arrivare il titolo, la credibilità degli Warriors come avamposto verso il futuro della pallacanestro professionistica subirebbe un contraccolpo non da poco. Perché va bene il fascino tutto californiano per il rovesciamento delle regole imposte e l’ammodernamento di consuetudini ormai superate, ma alla fine ciò che conta, in una realtà iper-competitiva come la NBA, sono i banner appesi al soffitto dell’arena di casa — e non quelli di campioni della conference. La sensazione è che in palio ci sia non solo la vittoria del titolo, quanto la conferma e validazione di un’identità così forte, costruita con perizia negli ultimi tre anni. Una ricerca di legittimazione che potrebbe finire per pesare su una squadra già provata dall’incognita relativa alla guida tecnica. Mentre scriviamo, infatti, non è ancora chiaro se Steve Kerr sarà in grado di tornare in panchina nel corso delle Finals: Mike Brown, eccellente professionista di provata esperienza, gode della fiducia dei giocatori e ha finora avuto vita facile, ma qualora la serie coi Cavaliers si rivelasse più complicata delle precedenti, il possibile protrarsi dell’assenza di Kerr potrebbe diventare un ulteriore fattore di instabilità a livello emotivo ancor prima che tecnico.
Come reagirebbe lo spogliatoio a un nuovo episodio del genere?
Cleveland: i cavalieri che fecero l’impresa e il Fantasma che tormenta il Re
Dall’altra parte, sulle sponde dell’omonimo lago, Cleveland sembra vivere una vigilia emotivamente meno irrequieta. Dopo aver compiuto una delle imprese sportive più incredibili di sempre, i Cavaliers affrontano la loro terza finale di fila con animo più leggero rispetto agli avversari. Dovessero soccombere di fronte a quella che è da più parti considerata la miglior squadra di sempre, nessuno rimarrebbe poi troppo scioccato. Viceversa, se riuscissero a bissare l’exploit dello scorso anno, entrerebbero a pieno titolo nella leggenda. La classica vigilia distesa che gli sfavoriti si portano in dote, insomma.
Peccato che etichettare come sfavorita la squadra in cui milita il miglior giocatore degli ultimi 20 anni, forse di sempre, sia un espediente retorico che lascia il tempo che trova. A maggior ragione se quel giocatore, qualche settimana dopo aver mantenuto la sua promessa di portare l’Ohio in paradiso, intuendo il pericolo di un possibile rilassamento, ha messo subito in chiaro il suo personale programma per le stagioni a venire: dare la caccia al Fantasma, quello che giocava a Chicago. I conti, quindi, sono presto fatti: LeBron, che a dicembre andrà per i 33 e sta per chiudere la sua 14^ stagione in NBA, per ora può sfoggiare la metà esatta degli anelli che Michael Jordan porta alle mani. Pur considerando che, ad oggi, segnali evidenti di un calo fisico non si sono ancora manifestati, è ragionevole ipotizzare che la finestra temporale a disposizione di James non sia poi così ampia. Tradotto per i compagni: voglio vincere ancora e lo voglio fare adesso.
Se la regular season degli Warriors è trascorsa col cruise control sempre inserito, Irving e compagni hanno approfittato di una conference ancor meno competitiva per prendersi le giuste pause e arrivare pronti e in buona salute al momento giusto, scivolando solo una volta nel percorso verso l’appuntamento finale. E se gli Warriors cercano nel risultato di queste Finals la conferma della loro identità come squadra e franchigia, i Cavaliers sono passati attraverso lo stesso processo l’anno scorso. Il titolo vinto in rimonta ha cementato una consapevolezza di sé che ora appare granitica, con la certezza di avere una marcia che quantomeno le altre squadre della conference non possono pareggiare. Per Dan Gilbert e per il mondo là fuori rimane davvero poco di irrisolto: questa è la squadra di LeBron James (e si sapeva da tempo) in cui Kyrie Irving si è guadagnato sul campo i galloni di vice-capitano e Love il rispetto di compagni e coaching staff accettando di dedicarsi al lavoro sporco, per poi tornare al ruolo di terzo violino quando le circostanze lo hanno richiesto. Tristan Thompson è il barometro difensivo che misura la pressione a cui verranno sottoposti gli avversari e il resto del supporting cast è composto da veterani pronti a giocarsi le proprie carte sul palcoscenico più importante, meglio se con un tiro dalla lunga distanza tra le mani. Coach Lue, approdato sul pino tra polemiche e legittimi dubbi, ha saputo costruirsi una credibilità ormai fuori discussione. Il roster, anche quest’anno, è stato assemblato nella convinzione che, a meno di improbabili balzi in avanti delle varie Boston, Washington e Milwaukee, il destino di Cleveland sia quello di governare la Eastern Conference per le stagioni a venire.
È parere diffuso, quindi, che i ragazzi di Lue possano scendere in campo godendo di una serenità maggiore rispetto agli Warriors. L’importante, dentro e fuori dallo spogliatoio dei Cavaliers, sarà non farlo notare a quello col 23. Lui la vede diversamente e, a quanto pare, la sua opinione da quelle parti conta qualcosa.
Un videogioco con in palio la legacy
di Dario Vismara
Quando, nell’estate del 2014, LeBron James si trovava in una suite di Las Vegas insieme ai suoi amici più fidati per decidere il suo destino, la prospettiva di tornare a Cleveland veniva definita come una “legacy move”, una mossa per cambiare la percezione della propria carriera. Con il titolo dello scorso anno, il Re ha cambiato per sempre il modo in cui verrà ricordato, portando Cleveland dove non era mai stata in oltre 50 anni di storia, cancellando in un sol colpo decenni di “maledizione” in una delle serie di finale più memorabili di sempre.
Ma questo è il passato
La serie di quest’anno avrebbe tutt’altro peso sul “curriculum” di LeBron perché, molto banalmente, questi Golden State Warriors sono decisamente più forti rispetto a quelli che 12 mesi fa chiusero la miglior regular season della storia della lega. La vittoria dello scorso anno ha ridato a James il trono del “miglior giocatore del mondo”, un titolo che nel corso dell’anno non è stato più nemmeno lontanamente messo in discussione; ma ora si trova a doverlo difendere dall’assalto di quelli che con ogni probabilità sono il numero 2 e il numero 3 (decidete voi l’ordine tra Steph Curry e Kevin Durant) che lo scorso anno hanno unito le forze formando un quartetto insieme a Thompson e Green sostanzialmente senza precedenti nella storia della lega.
Per questo l’impresa che si pone davanti a James è ancor più difficile rispetto allo scorso anno: è come cercare di finire di nuovo lo stesso videogioco da capo, solo che questa volta il livello di difficoltà è salito a “Sudden Death” – e pronosticare i Cavs vincenti equivale sostanzialmente a un voto di fiducia incondizionata nei confronti del Re. James per certi versi può permettersi di affrontare questa sfida con animo più leggero rispetto allo scorso giugno, ma ogni sconfitta da qui alla fine della sua carriera si porterà dietro un carico di discorsi e sospetti (è bastata una partita storta in gara-3 contro Boston per far gridare al “Oddio-cosa-è-successo-ecco-è-finito”) che sarebbe insopportabile per il 99.9% degli esseri umani. È il prezzo da pagare se si vuole inseguire il Fantasma Che Giocava A Chicago, perché ogni piccolo passo di James — nel bene, come superarlo al primo posto della classifica all-time ai playoff, e nel male, perdendo 4 finali contro l’irraggiungibile zero di MJ — viene analizzato alla luce di ciò che aveva fatto lui.
Già da qualche anno ormai si parla apertamente del paragone tra i due e di cosa deve fare LeBron per essere considerato suo pari: sono discorsi da bar che hanno poco a che fare con ciò che succede in campo e ancor meno riescono a dare un ritratto esaustivo di cosa hanno rappresentato questi due giocatori, sminuendoli a un livello infinitamente più basso di quello che hanno raggiunto sul parquet. Ma è quello che “drives the conversations”, cioè quello che fa parlare e scrivere e dibattere e aumenta i click e gli ascolti televisivi e quindi detta l’agenda di tutto il carrozzone — e James ne è perfettamente consapevole, altrimenti quella di tornare a Cleveland non sarebbe stata una “legacy move”.
Per questo le finali che ci apprestiamo a vivere rappresentano il Mostro Finale del videogioco che è stata finora la carriera di LBJ: battere di nuovo questi Golden State Warriors, senza il fattore campo e senza i favori del pronostico (ESPN dice che al 93% vinceranno i californiani), con gli avversari che sono migliorati esponenzialmente mentre la propria squadra ha aggiunto solo due veterani ad una rotazione un anno più vecchia, per di più alla fine di una 14^ stagione giocata con minutaggi che avrebbero stroncato un 22enne, si presenta come un’impresa che forse nemmeno MJ ha dovuto affrontare. Se “i punti non si contano, ma si pesano”, lo stesso deve valere per i titoli NBA: se vogliamo prestarci al giochino “stupido”, l’eventuale quarto titolo di James avrebbe un peso qualitativo superiore rispetto a tutti gli altri — un peso tale da colmare anche la distanza che separa quattro e sei. Sempre ammesso che James si fermi eventualmente a quattro, visto che ogni anno che passa LeBron invecchia come il miglior vino — o come i migliori videogiochi di sempre. Avete notato quanto va il retro-gaming ultimamente?