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Tyson Fury è tornato sul trono
24 feb 2020
24 feb 2020
Per il titolo si sono affrontati due uomini molto diversi.
(articolo)
9 min
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E cosa fa il re dopo aver vinto la battaglia? Sudato che sembra sul punto di liquefarsi, imperioso come un budino della grandezza di una piramide egizia? Il re prende il microfono e canta. “Vi avevo promesso una canzone, o no?”. Ha un gusto, diciamo, popolare. Cinque anni fa, dopo un’altra battaglia, aveva cantato I don’t wanna miss a thing, degli Aerosmith, guardando negli occhi la regina con l’intensità con cui la canterebbe un adolescente che ha appena visto Armageddon al cinema (il re aveva dieci anni quando per qualche strana ragione, la NASA ha mandato dei trivellatori nello spazio per far esplodere un asteroide).

Tra le tante cose inquietanti di questo re c’è la sua voce, al tempo stesso stridula e roca, come un bambino petulante cresciuto a sigarette, ma quando canta la sua voce migliora leggermente. Diventa quasi gradevole, per questo al re piace cantare, il re vuole piacere. Stavolta, sempre senza base, prendendo per forza di cose di sorpresa tutti, canta American Pie di Don McLean, una ballata degli anni settanta con un testo così enigmatico che a un certo punto l’autore, scocciato dalle troppe domande, ha detto che significava che non avrebbe dovuto più lavorare in vita sua (poi però ha creato un sito apposta per spiegarlo). Ma non c’è niente di enigmatico nel re, che la canta come se fosse al karaoke del villaggio vacanze, chiedendo a chi nel pubblico di sudditi sapeva le parole di seguirlo, passando il microfono alle persone vicine perché, ehi, cosa c’è di meglio che cantare una canzone tutti insieme appena finita la battaglia?

Guardandolo è impossibile credere che abbia 31 anni. Tyson Fury sembra già alla sua seconda o terza vita. E in un certo senso fin troppo ovvio è davvero così. Oggi è diventato campione dei massimi WBC, quattro anni e mezzo fa sperava di morire, ogni giorno. Da cristiano, sperava che qualcuno lo ammazzasse prima che lo facesse da solo. “E non è una cosa bella da pensare quando hai moglie e figli”. Non passava un giorno in palestra, beveva e si faceva di cocaina, era arrivato a pesare 170 chili. Aveva appena battuto uno dei campioni più dominanti di sempre, Wladimir Klitschko, in carica da undici anni di seguito, e lì era finita la sua prima vita. Quando ha iniziato a dire che sarebbe voluto tornare a combattere, Deontay Wilder pensava sarebbe stato impossibile. Che ormai fosse finito. Il che è servito solo a motivarlo, a dargli una ragione in più per tornare. Perché avere un obiettivo, tenersi occupati, aiuta. Ma che significa essere tornato? Quando può dire di essere tornato davvero un campione del mondo? Due anni e mezzo dopo l’incontro con Klitschko, Tyson Fury è tornato combattendo contro uno, Sefer Seferi, che pesava 30 chili in meno di lui. Lui ne aveva persi 50, ma con il grasso che strabordava dai pantaloncini ascellari, le braccia larghe in segno di sfida, showboating in un match da molti definito una farsa, sembrava la presa in giro di un campione dei pesi massimi. Anzi, la presa in giro di un ex-campione dei pesi massimi. Ballando sul posto in una grottesca caricatura di Mohammed Ali, ridendo in faccia con le mani sulla testa, contro un uomo che non lo avrebbe spostato neanche se gli avessero legato mani e piedi. È così che torna un re? Portando, dove Ali aveva portato leggerezza e sveltezza, come qualità esteriori e interiori, volgarità e arroganza, trasformando il pugilato in una grossolana messa in scena della violenza? (Quel giorno la moglie aveva avuto un aborto spontaneo, ma non gli ha detto niente per non distrarlo).

Tirare fuori la lingua e agitarla in faccia al campione in carica però è tutto un altro paio di maniche. Sei mesi dopo, per il titolo WBC la prima volta contro Deontay Wilder, Fury ha vinto i primi round (per qualcuno ha vinto l’incontro), ha eluso, schivato, è entrato con precisione e - sembra assurdo ma è così - intelligenza, nelle maglie della potenza di fuoco di Wilder. Quando Tyson Fury schiva un colpo il suo corpo è troppo grosso per non lasciare una scia, così quando Wilder colpisce a vuoto colpisce la sua ombra, colpisce quello che era e che non è più. Ma Fury è andato giù alla dodicesima ripresa, dopo un destro potente, il dono con cui è nato Wilder. Lo ha preso dall’alto verso il basso, mentre era piegato in una schivata di busto, e sembrava che Wilder avesse schiacciato una salsiccia di due metri nel tappeto del ring. Per un attimo Tyson Fury non è stato più lì, ma l’attimo dopo era di nuovo in piedi, con una faccia ancora più da pazzo, la testa che somiglia a una pallottola increspata di rughe, gli occhi sgranati come se stesse cercando di svegliarsi e smascellando come un tossico senza denti. In quel momento Tyson Fury sembrava avere ottant’anni. La sua arroganza e la volgarità però erano diventate una specie di coraggio resistente a tutto, le qualità con cui Tyson Fury sopravviveva. Ha continuato a combattere fino alla fine, in modo piuttosto eroico va detto, e i giudici hanno deciso per un pareggio. Già qualcosa, considerando che Wilder era imbattuto da 40 incontri. Un buon rientro. Ma non un rientro da re.

Sabato notte, a Las Vegas, un anno e un paio di mesi dopo il loro primo incontro, Deontay Wilder è arrivato sul ring con una corazza nera e una maschera da gladiatore che su Twitter hanno associato a Sauron. Un Sauron trap, con la pelle di paillettes nere e una corona con i diamanti. Con gli occhi bordati da LED rossi. Un omaggio alle persone che hanno aperto la strada alla comunità nera in America, in mezzo ai cui ritratti Wilder ha sfilato prima di entrare nell’arena. A precederlo il rapper D Smoke, rappando Black Habits: “Black magic/ black excellence/ black habits / this black medicine” (Magia nera, eccellenza nera, abitudini nere, questa medicina nera). Tyson Fury invece si fa chiamare Gipsy King (se per caso non lo sapete, be’, padre e madre sono pavee, nomadi di origine irlandese, anche se lui è nato a Manchester) ed è entrato seduto su un trono portato in spalla da quattro gladiatrici in minigonna. Con sotto una canzone degli anni sessanta, Patsy Cline, Crazy: “Crazy/ I'm crazy for feeling so lonely/ I'm crazy/ Crazy for feeling so blue” (Pazzo, sono pazzo per quanto mi sento solo, sono pazzo, pazzo per quanto mi sento triste). Tyson Fury indossava un mantello rosso con bordo bianco maculato (un genere di mantello che su Amazon chiamano “da Re Artù”). In testa una corona di latta dorata con croci templari in mezzo a cui erano incastonate delle pietre verdi e blu. L'idea è che Fury sia comunque, indipendentemente dall'esito dell'incontro. Sotto la mantella aveva un accappatoio nero che forse voleva emulare uno smoking, o forse no. Ad ogni modo se la maschera di Deontay Wilder è stato creato da una coppia di designer (come le maschere dei suoi incontri passati) e costava 40 mila dollari di costume, quello di Tyson Fury sembrava appena tirato fuori da una scatola di cartone (come il vestito da arabo con cui si è presentato per il suo primo, e per ora unico, incontro in WWE, per un evento tenutosi in Arabia Saudita e che gli ha fruttato più di 11 milioni di dollari). Deontay Wilder ostenta e a modo suo si eleva, Tyson Fury non ce la fa a non sembrare white trash.

Foto di MB Media / Getty Images.

Tyson Fury è una gigantesca pila di carne e contraddizioni. Più che muoversi ondeggia, quando alza una gamba e non cade sembra già un miracolo, ma ha una certa agilità quando combatte, proprio come la sua voce si addolcisce quando canta. Anche le sue mani, quando picchia, non sono pesanti ma veloci. Il suo corpo ha pochissime forme: il tronco, le gambe e le braccia sembrano quelli dei personaggi di Minecraft, ma sulle spalle ha due specie di punte gotiche. Anche la testa e le orecchie sono a punta e gli angoli della bocca sono piegati verso l’alto in un ghigno naturale che è la sua espressione di base. Gli occhi, il naso, le sopracciglia si muovono ognuno per conto proprio, la faccia di Tyson Fury è quella di un uomo che pensa a dieci cose diverse contemporaneamente. Ha detto moltissime cazzate nel corso degli anni, omofobe, misogine, rendendo impossibile celebrarlo anche quando vinceva. Ha chiesto scusa perché i cristiani non devono offendere nessuno, ma chi lo sa se si è pentito veramente. È sempre stato evidente, comunque, che il primo a disprezzare Tyson Fury fosse Tyson Fury stesso. Grassissimo, quando si parlava del rematch con Klitschko, che non ha mai avuto luogo, ha offeso il suo avversario dicendo “Guarda con chi hai perso, dovresti vergognarti”. Sarebbe stato comunque troppo squallido anche per essere un antieroe perturbante di quelli che vanno di moda oggi (anche se un Joker con Tyson Fury io lo guarderei). Al massimo era «il magnifico emblema splendente della decadenza dei massimi», come ha scritto Matteo Trevisani nel 2016. Ma da quando ha parlato dei problemi mentali e da quando è tornato a combattere è diventato più…. umano. Sempre pieno di cazzate, ma umano. Prima del rematch con Wilder ha detto che si stava preparando masturbandosi sette volte al giorno, per tenere il testosterone alto. Con un cappello da baseball al contrario in testa e uno di quei completi-camicia da buffone che indossa di solito è impossibile capire se stesse scherzando oppure no.

Quando Deontay Wilder aveva undici anni stava per affogare in un fiume. Prima che il padre lo tirasse fuori tirandolo per i capelli, dice che una balena lo ha schiaffeggiato in faccia con la coda. Lo dice anche da adulto. Una balena, in un fiume. Quando Tyson Fury aveva undici anni ha lasciato la scuola per lavorare con il padre e i fratelli, come asfaltatore. Il padre, pugile (che oggi a 55 anni quando si rasa la barba è identico a Tyson Fury, sembra la sua statua di cera, con degli occhi più piccoli e cattivi) è finito in galera per aver fatto uscire un occhio a un collega con cui aveva litigato. “Sembrava mi volesse infilare un dito nel cervello passando dall’orbita oculare”, ha detto la vittima. Deontay Wilder è figlio di un predicatore e anche lui ha pensato di suicidarsi un tempo, quando la sua prima figlia è nata con una malformazione alla spina dorsale e lui non sapeva dove prendere i soldi per curarla. Invece di spararsi si è dato al pugilato. Tre anni dopo ha vinto il bronzo olimpico a Pechino, e quattro anni dopo è diventato campione dei pesi massimi. Prima di concludere prendiamoci un secondo per riflettere sul significato di questi due uomini, due campioni che sabato si sono incontrati da imbattuti, due degli uomini più duri del pianeta, uno vestito da re nomade, l’altro da demone nero, entrambi con una corona in testa, entrambi fragili e autodistruttivi. Cosa ci dice sul resto degli uomini?

Nel loro secondo incontro Tyson Fury è stato molto più aggressivo del primo. Ha pressato Wilder e già alla terza ripresa lo ha mandato giù con un gancio dietro l’orecchio. Poi ha leccato il sangue dalla spalla di Wilder mentre erano in clintch. Alla quinta ripresa Wilder sembrava già finito, perdeva sangue dall'orecchio e restava a malapena sulle gambe, ma è arrivato fino alla settima, prima che il suo angolo interrompesse l’incontro, per il suo bene. Alla fine, per ora, Tyson Fury è tornato davvero re. E in questo caso la parola più importante non è re, ma tornato.

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