
Il punto su Team USA
Di Dario Vismara
Nelle ultime settimane ho avuto modo di fare un tuffo nel passato delle ultime edizioni di Team USA alle Olimpiadi ed ero alla ricerca di un modo per quantificare lo star power delle varie nazionali da quando sono ammessi i protagonisti della NBA. Alla fine ho fatto riferimento ai quintetti All-NBA della stagione appena conclusa, cercando di capire quanti giocatori dei primi tre quintetti avessero preso parte alle varie spedizioni. Il conto è quello che segue:
- Barcellona 1992: 9/12 (fuori solo Larry Bird per la schiena, Magic Johnson per il virus dell’HIV e Christian Laettner perché giocava in NCAA)
- Atlanta 1996: 12/12 (!!!)
- Sydney 2000: 5/12 (Gary Payton, Kevin Garnett, Jason Kidd, Alonzo Mourning e Vince Carter)
- Atene 2004: 2/12 (Tim Duncan e Allen Iverson)
- Pechino 2008: 6/12 (Kobe Bryant, LeBron James, Chris Paul, Dwight Howard, Deron Williams, Carlos Boozer)
- Londra 2012: 8/12 (Kobe, LeBron, Paul, Kevin Durant, Kevin Love, Russell Westbrook, Carmelo Anthony, Tyson Chandler)
La squadra di quest’anno mancherà di qualche nome importante - quattro quinti del primo quintetto, Curry-Westbrook-LeBron-Leonard, sono rimasti a casa - ma presenta comunque sette solidi giocatori All-NBA come Durant, Draymond Green, DeMarcus Cousins, Paul George, Kyle Lowry, Klay Thompson e l’unico primo quintetto, DeAndre Jordan. A questo gruppo di élite si aggiungono Carmelo Anthony (il “vecchio” a caccia del terzo oro olimpico e quarta medaglia della carriera, record per il basket), Kyrie Irving (MVP dei mondiali e fresco campione NBA), più l’atletismo dei vari Jimmy Butler, Harrison Barnes e DeMar DeRozan. Quindi, giusto per mettere in chiaro le cose: quando sentite dire che “a Rio hanno portato quelli scarsi”, ecco, magari anche no.
La qualità migliore di questa squadra è la versatilità: coach Mike Krzyzewski ha a disposizione innumerevoli combinazioni di quintetti per far fronte a qualsiasi evenienza. In cabina di regia può contare su un playmaker esplosivo (Irving), uno più riflessivo (Lowry), uno occulto (Draymond Green) e vari giocatori capaci di gestire un pick and roll con eccellenti risultati (praticamente tutti gli esterni). In ala ha una batteria di atleti con stazza e mezzi fisici per giocare indifferentemente da un minimo di tre a un massimo di quattro ruoli in area FIBA: Durant, George, Thompson, Butler, Barnes e DeRozan possono giostrare tra il 2 e il 4 senza il minimo problema, specialmente in difesa dove cambieranno pressoché sempre, e contro dei centri non pericolosi in post basso possono anche giocarsela da 5 per qualche possesso. Tanto sotto canestro all’occorrenza ci sono Carmelo Anthony, che in area FIBA è semplicemente uno dei migliori 4 di sempre, e Draymond Green, oltre a due lunghi veri come DeAndre Jordan e DeMarcus Cousins, che a questo livello sono ingiocabili da un punto di vista fisico, in particolare a rimbalzo offensivo, viste quante attenzioni richiedono gli esterni (e Jordan non può essere mandato in lunetta con l’Hack-a-DeAndre, per fortuna dello spettacolo).
Con questo materiale a disposizione, Coach K può schierare quintetti piccoli (con quattro esterni attorno a uno dei due lunghi); quintetti “cinque fuori” con tiro in tutte le posizioni (come si ferma una roba come Irving-Thompson-George-Durant-Anthony?); quintetti up-tempo per correre in contropiede (Irving-DeRozan-Butler-Barnes-Jordan?); quintetti enormi (Thompson a marcare i play avversari, Durant con la palla in mano, un esterno pescato dal mazzo e la coppia Cousins-Jordan sotto canestro); oppure, e questa è la soluzione più intrigante, Draymond Green da 5, la carta che ha fatto saltare il banco negli ultimi due anni in NBA, e che in area FIBA potrebbe avere effetti stile Godzilla-che-assalta-le-città-giapponesi. È una soluzione estrema, perché il gioco in area FIBA - almeno per quanto raccontato dai diretti interessati americani - è meno atletico ma più fisico, con molti contatti nel pitturato contro i “bruti” internazionali, che potrebbero richiedere uno sforzo fisico troppo grande al lungo degli Warriors. Però vuoi mettere un mini-Death Lineup anche alle Olimpiadi, magari vedendo assieme Thompson, Durant e Green in attesa della regular season NBA?
Insomma, la striscia di 64 vittorie consecutive di Team USA (ultima sconfitta: semifinale mondiale 2006 vs Grecia) non sembra essere in pericolo in questa competizione, in cui la nazionale americana probabilmente batterà di nuovo il record di triple già stracciato a Londra 2012 (129/293 nel torneo, 44%). È il basket che va in quella direzione, e nessuna nazionale interpreta al meglio il trend di quella statunitense, così come nessuna si diverte e fa divertire sui social network.
Un video pubblicato da DeMar DeRozan (@demar_derozan) in data: 30 Lug 2016 alle ore 08:48 PDT
Melo farà pure il vecchio brontolone che non sopporta i Millennials, ma Jimmy Butler e Kyrie Irving che cantano Vanessa Carlton è già culto.
La via per il podio olimpico
Di Michele Pettene
Se fissiamo l’avvento del Dream Team originale del 1992 come il Big Bang della pallacanestro contemporanea, da quell’anno (compreso) ci sono state dodici edizioni equamente divise tra Olimpiadi e Mondiali. Ventiquattro semifinali dunque, che ogni volta hanno decretato la vittima sacrificale di Team USA (salvo le quattro eccezioni del 1998, 2002, 2004 e 2006) assicurando però perlomeno un posto sul podio dei due appuntamenti più importanti della pallacanestro globale.
La costante europea, sulle 48 squadre potenziali, mostra quanto orgogliosamente le scuole del Vecchio Continente siano resistite e stiano resistendo allo scorrere del tempo, rinnovandosi nei nomi ma mantenendo intatti competitività e piazzamenti. Solo 14 nazionali al mondo hanno disputato le semifinali mondiali e olimpiche dal 1992, e tra queste dieci sono europee. Ovviamente non una coincidenza. Gli ultimi quattro appuntamenti, oltre a certificare l’addio ad alto livello della storica superpotenza russa, ci porterebbero a dire che Spagna, Serbia (ex-Jugoslavia), Francia e Lituania siano le principali candidate per conquistare l’argento e il bronzo di Rio 2016.
Soliti nomi e solite facce quindi, ma soprattutto il fascino di quattro scuole di basket tanto differenti quanto virtuose nella loro evoluzione, con l’irruento inserimento della Francia e del suo programma sportivo innovativo. Quattro dei 12 del roster francese, infatti, sono usciti dall’INSEP, il famoso liceo sportivo parigino (molti giovani alunni giocano nelle nazionali giovanili) che negli ultimi tre anni ha portato uno storico oro europeo (2013), un bronzo mondiale (2014) ed un bronzo continentale (2015).
Purtroppo molto dipenderà dagli accoppiamenti fino alle semifinali di Rio (previste per il 19 Agosto), con il Girone B pronto a mietere almeno una vittima illustre tra Spagna, Brasile, Argentina, Lituania e Croazia (con la Nigeria spettatrice non pagante). Sarà interessante capire quanta benzina avranno ancora in corpo i veterani della Generación Dorada - con un calendario (e un clima) che proporrà una partita ogni due giorni - rispetto ai cugini brasiliani, maturi padroni di casa pronti al sorpasso (occhio agli arbitraggi FIBA tradizionalmente “protettivi”, Turchia 2010 insegna…). Spagna al primo posto e Brasile al secondo è uno scenario realistico, con le altre tre a battagliare per gli ultimi due posti disponibili nel Group B.
La prospettiva di uno spettacolare doppio scontro europeo-latino ai quarti, Francia e Serbia contro Argentina e Brasile, con Spagna e USA agevoli semifinaliste (eliminando l’Australia e la Lituania probabili quarte dei due gironi), potrebbe essere evitata solo dagli eventuali exploit di croati e lituani. In comune queste due nazionali hanno la giovane età di due roster appena passati dal ricambio generazionale (i due giocatori di riferimento saranno un 1996 come Domantas Sabonis e un 1994 come Dario Saric): il futuro, più che il presente, è nel loro destino.
O comunque - non ce ne vogliano Croazia e Lituania - lo speriamo, se non altro per poter ammirare il più a lungo possibile Ginobili, Scola, Nocioni e il commovente Carlos Delfino su un palcoscenico dalla mistica unica, che storicamente ha riservato sorprese scioccanti ed imprese indimenticabili ogni quattro estati. Come quella del 2004, le nostre ultime ed ormai lontane “notti magiche”.
I giocatori più interessanti da seguire (visto che tanto vincono gli USA)
Il torneo di basket dei Giochi Olimpici è quello dove il pathos per la medaglia d'oro è a livelli minimi, praticamente inesistenti. Con l'unica parentesi di Atene 2004, gli USA dal 1992 hanno dominato il torneo e non c'è nulla che faccia pensare che anche a Rio non sarà così.
Tuttavia questo non vuol dire che non ci siano altri motivi validi per guardare il torneo restando alzati fino alle 3:30 - confidando nella bontà del servizio RAI, che ha garantito 36 canali streaming per trasmettere tutti gli eventi olimpici in diretta compresa la palla al cesto. Dei 144 giocatori convocati ne abbiamo scelti cinque che meritano la vostra attenzione.
Facundo Campazzo
Di Dario Ronzulli
Facundo Campazzo è un idolo, non fosse altro perché è l'ennesima dimostrazione che l'altezza nel basket non è l'unico requisito per fare strada.
Partendo da questo presupposto, nell'Argentina che vedrà la Generación Dorada al suo ultimo ballo (oddio, ultimo: con questi qui mai dire mai...) il comando delle operazioni sarà affidato a questo ragazzo di Cordoba che ha ormai sul tema “Cosa significa vestire la casacca albiceleste” può tenere dei seminari. D'altronde il ragazzo è uno che impara in fretta: inizia a giocare nella sua città natale quando ha 13 anni, ovvero nel 2004, dopo aver visto alla tv Ginobili, Scola, Delfino e gli altri fenomeni conquistare l'oro olimpico e fare la Storia ad Atene (a discapito nostro, ma vabbé).
Impara così in fretta, il giovane e basso Facu, che nel giro di tre anni diventa il leader tecnico prima dell'Unión Eléctrica e poi del Peñarol de Mar del Plata, che lo fa esordire nel professionismo a 17 anni. È alto 1.79 a voler essere generosi, ma difende come un ossesso, è tremendamente competitivo ed è totalmente al servizio della squadra. Gli bastano due anni per far dire al suo coach Sergio Hernandez “El base titular de mi equipo es Facundo Campazzo”.
Tra il 2010 e il 2014 il Peñarol vince 4 titoli e in due occasioni Facundo è MVP delle finali. Julio Lamas, CT dell'Argentina, non può che prenderlo in considerazione: dopo il campionato sudamericano vinto, Londra 2012 è il palcoscenico del vero esordio internazionale di Campazzo. Con lui ci sono altri 3 giocatori del Peñarol – tra cui Leonardo Gutierrez, altro cordobes, uno che avrebbe meritato più chance nel basket europeo – e 5 mammasantissima reduci da Atene. Facu gioca poco, ma ha l'atteggiamento di colui che sa di avercela fatta e non si accontenta. Non vuole guardare da vicino i suoi idoli: vuole giocare con i suoi idoli. Quando l’ho visto giocare ne resto estasiato: ha un nome che sembra inventato da Maccio Capatonda, corre come una trottola, il gap di altezza non gli interessa, ha delle autentiche visioni con la palla in mano. Avendo una predilezione per quegli atleti che danno l'anima attorno ai colleghi mainstream, diventa istantaneamente il mio giocatore di riferimento per quei Giochi.
E voi non volete rimanere alzati fino all'alba per vedere uno che fa queste robe? Bah…
Nel 2014 va al Real Madrid, ma un infortunio lo blocca per gran parte della stagione e Laso lo tiene ai margini. Molto meglio a Murcia, dove diventa leader anche emotivo della squadra, portata per la prima volta nella storia ai playoff. Quattro anni dopo Londra, Facu ha un ruolo più di spessore nella Seleccion: il ct è quel Sergio Hernandez che lo lanciò nel basket dei grandi e si fida ciecamente di lui, perciò Facundo Campazzo è pronto per prendersi il mondo, se lo desidera. Io nel dubbio ho già iniziato i lavori per aumentare la capienza del carro.
Ultimo possesso dell'amichevole con la Lituania. Mentre il pallone va verso il canestro, lo slo-mo ci permette di apprezzare il tifoso che si alza in piedi ad esultare perché sa già come va a finire, a differenza di quei miscredenti vicino a lui.
Guilherme Giovannoni
“Cosa è stato tutti questi anni, cose da niente altre importanti, un continuo su e giù, ma se la luce scende, il mio cuore rimane lì”
(Lucio Dalla, “Lunedì”)
Piracicaba è un comune nello stato di San Paolo. Come quasi tutte le città del Sudamerica ha ampio sangue italiano, in particolare trentino, tanto che ogni anno viene realizzata la Festa da Polenta (non so voi, ma l'idea di mangiare polenta in Brasile è una di quelle cose che vorrei fare prima di trapassare). Questa terra ha dato i natali a due sportivi che hanno uno stretto legame con l'Italia: uno è José Altafini, per il quale non credo servano presentazioni; l'altro è Guilherme Giovannoni. In comune, oltre alla provenienza, hanno la longevità agonistica: il calciatore ha smesso a 42 anni, il cestista ne ha 36 e sarà ancora colonna della Seleção Brasileira de Basquetebol. Anche perché non convocarlo per i Giochi tra le mura amiche dopo una vita passata in Nazionale sarebbe stata un’enorme ingiustizia.
Intervistato da Douglas de Paulo Viegas detto “Ninja” - personaggio evidentemente alla ricerca di culto - Gui racconta di quella volta che batté Durant dal palleggio ai Mondiali di Turchia 2010. Per la cronaca gli USA vinsero 70-68.
Giovannoni fa il suo esordio nel Brasile quando ha appena 19 anni ed è già una carismatica presenza in campo. Non è appariscente ma fa spesso e volentieri quello che serve quando serve: canestri, rimbalzi, deviazioni, intercetti, assist. Il passaporto italiano lo porta a Treviso dove però il rapporto è tormentato: meglio a Rimini, Biella e Kiev. Ma soprattutto molto meglio a Bologna sponda Virtus, dove diventa capitano ed è idolo indiscusso dei tifosi. Per come interpreta il ruolo di 4 è di fatto uno dei primi stretch four a calpestare i nostri parquet. Con le Vu nere però il rapporto si interrompe bruscamente nel 2009: Giovannoni ha 29 anni, ha un solido nome in Europa e potrebbe anche rimanere, ma la saudade è più forte: torna in patria, all'UniCEUB Brasilia dove diventa seduta stante il Capo Supremo e da dove non si è più mosso.
Proprio questo è il punto focale per approcciarsi al torneo del Brasile e di Giovannoni. Non è solo la prima volta che gioca in casa con la canotta della propria nazionale: per Guillherme è il coronamento di un percorso iniziato da bambino e proseguito lottando su ogni pallone, partecipando ad ogni torneo mettendo al centro della propria attività sportiva il proprio Paese. Le uniche manifestazioni che ha saltato dal 1999 a ogi sono quelle a cui la Seleção non si è qualificata, ovvero i Giochi del 2000, del 2004 e del 2008. L'anno scorso, quando è stato convocato per il FIBA Americas, ha ribadito il concetto: “Essere qui è un esempio per dimostrare quanto il Brasile conti per la mia carriera. Rappresento all'estero non solo la Nazionale, ma tutto il mio Paese”. C'è da scommettere che quando risuoneranno le note dell'Hino nacional brasileiro nel match inaugurale contro la Lituania per Giovannoni sarà difficile trattenere la commozione.
Gui è un combattente che però ogni tanto si lascia andare. All'inizio di questo video ha appena vinto il titolo brasiliano 2011 e piange ringraziando tutti, in primis la moglie. Dai, come fate a non volergli bene?
Patty Mills
Di Daniele V. Morrone
Partecipare alle terze Olimpiadi con la nazionale australiana e farlo questa volta con lo status di stella della squadra deve mettere addosso tante aspettative a Patty Mills. Lui che proprio alle scorse Olimpiadi è esploso come oggetto di culto del torneo dopo essere risultato il miglior marcatore a Londra con 21 punti di media, segnandone 39 alla Gran Bretagna e ben 26 ai quarti contro Team USA.
Questo dopo aver regalato uno degli highlights del torneo avendo fatto passare il girone all’Australia con un tiro da tre punti allo scadere contro la Russia con la sua squadra sotto di uno.
Tanto è cambiato nella carriera di Patty in questi quattro anni: è passato dallo sventolare asciugamani dalla panchina ad essere uno dei più apprezzati role player della NBA e pezzo importante del titolo degli Spurs nel 2014. E nonostante in patria il nome sulla bocca di tutti rimanga quello di Andrew Bogut, se la nazionale australiana più forte di sempre (sono 5 i giocatori provenienti dalla NBA, senza Ben Simmons e Dante Exum) dovesse arrivare realmente a giocarsi una medaglia come sperato, lo farà sicuramente dietro grandi prestazioni di Patty Mills. Perché nelle competizioni FIBA il suo fisico “normale” non è più un handicap e questo significa che a questo livello è praticamente non difendibile se in giornata: sia come realizzatore, potendo punire chi passa dietro sul pick and roll (aiutato dalla linea da tre più vicina rispetto alla NBA), che come portatore di palla in transizione, dove corre e pensa più velocemente rispetto all’avversario diretto.
Ma se siete di pietra e non vi emoziona per il fatto che un giocatore che non supera i 180 cm possa segnare più di 20 punti contro Team USA come unica opzione offensiva in due Olimpiadi consecutive, quello che Patty Mills rappresenta deve farlo per forza: imparentato da parte di madre con Eddie Mabo (il Martin Luther King australiano), Patty è solo il terzo giocatore di origine aborigena della storia a rappresentare l’Australia, lui che è figlio sia di un aborigeno dell’Isole dello stretto di Torres che di un’aborigena del continente (quindi ha sia origini australiane che malinesiane). Inoltre la madre è una delle vittime della “generazione rubata”, i bambini aborigeni australiani che per quasi cento anni (terminata solo negli anni ’70) vennero presi dai governi federali e da alcune missioni religiose alle loro famiglie ritenute non in grado di crescerli in modo sano. Politica forse pensata con tutte le buone intenzioni del mondo, visti i tanti problemi di alcolismo e abusi che affliggevano la popolazione aborigena, ma che non poteva nascondere una forte impronta razzista nata dalla voglia di integrare forzatamente nella cultura bianca dominante tutta una popolazione con altri usi e costumi.
Ancora oggi i figli di quella generazione come Mills hanno un rapporto complicato con gli altri australiani, ricevendo purtroppo in alcuni casi abusi verbali o trattamenti quasi da cittadini di serie b. Per sua stessa ammissione Mills ha ricevuto abusi verbali crescendo e a questo ha risposto prima provando a zittirli sul campo, e ora che ha potere mediatico a proporsi come ambasciatore dell’idea di dare più visibilità alla popolazione aborigena australiana. Ad esempio, alle Olimpiadi del 2008 ha portato la bandiera aborigena australiana per le foto di presentazione e nelle foto fatte per festeggiare l’anello con San Antonio aveva in mano la bandiera dell’isole dello stretto di Torres. Alla fine potrà diventare una delle attrazioni solo per quanto saprà fare nel torneo, ma se le Olimpiadi sono il palcoscenico ideale per storie che vanno oltre il campo, Patty non è comunque da meno.
Because what we do has a greater meaning than just playing basketball #fromtheplayers Una foto pubblicata da Patty Mills (@balapat) in data: 4 Lug 2016 alle ore 00:08 PDT
Cult Player: la reincarnazione di Milos
Di Michele Pettene
Milos, con la o accentata “alla slava”, è un nome particolarmente diffuso nell’area balcanica. Se state leggendo queste pagine è molto probabile che vi sia subito guizzato in mente anche un cognome, Teodosic. Se invece foste su una rivista cinematografica siamo sicuri che il primo a venirvi in mente sarebbe Milos Forman, formidabile regista ceco entrato di diritto nella storia del cinema con Qualcuno volò sul nido del cuculo e l’indimenticabile banda di matti capitanata da un Jack Nicholson insuperabile.
Ma oltre a questo capolavoro, il Milos del cinema ha raccontato anche un’altra storia, su cui aleggia una delle leggende più affascinanti e sottovalutate di Hollywood: Man on the moon del 1999 narra del comico Andy Kaufman, presumibilmente morto nel 1984, interpretato da un altro comico dal talento naturale come Jim Carrey. Farsi beffe di tutto il mondo e in primis di se stessi era la caratteristica principale di Andy quanto quella di Jim, e la corrispondenza dei lineamenti oltre all’incredibile somiglianza nella verve comica ha portato molti a credere che Kaufman, con un giro di chirurgia plastica e un ultimo sberleffo al proprio pubblico, abbia voluto reincarnarsi proprio in Jim Carrey, proseguendo dunque alla chetichella e con una nuova identità la propria carriera.
Così si spiegherebbero l’ossessione e la pressione per avere la parte principale nel film di Forman da parte di Carrey, così come il possesso di alcuni rari oggetti personali del grande collega e lo stesso, curioso, giorno di nascita (17 gennaio). Una trasmigrazione (o una presa in giro) molto simile a quella di cui potremmo essere testimoni diretti a Rio 2016 con il nostro primo Milos, quello cestistico.
Era dal 2009 con l’Olympiacos che Teodosic lottava contro una scimmia che di stagione in stagione cresceva sempre più grande sulla sua spalla, e finalmente, quando ormai più nessuno ci sperava (tifosi del Cska per primi), ecco arrivare l’agognata e strepitosa vittoria dell’Eurolega dopo un supplementare contro il Fenerbahce Istanbul, lo scorso 15 Maggio a Berlino.
Ora, al suo primo appuntamento ufficiale post-vittoria scaccia fantasmi, il “nuovo” Milos è pronto a guidare l’amata Serbia del suo coach di fiducia Sasha Djordjevic (uno che di playmaking se ne dovrebbe intendere) verso il podio. Provate anche solo ad immaginarlo: la testa libera ormai dall’enorme peso di “perdente eccellente” e dai suoi demoni personali, sul parquet olimpico, palla in mano e con la canotta della propria patria addosso, con Bogdanovic e Jokic da servire e tutto il mondo a guardare. Milos Teodosic e la sua magica visione della pallacanestro stanno tornando rinnovati nello spirito e nella mente, e noi non vediamo l’ora di vederne all’opera la reincarnazione. Non ci prenderai di nuovo in giro, vero Milos?
La normalità di Elena Delle Donne
Di Dario Vismara
Ci sarebbero tante altre storie meritevoli di essere raccontate e da seguire: il ritorno in nazionale di Paul George dopo il tremendo infortunio di due anni fa; i giovani terribili della Croazia; oppure potrei dedicare altre battute ai miei due giocatori feticcio della manifestazione, Matthew Dellavedova e Nikola Jokic. Invece, per una volta, sconfiniamo nel basket femminile per parlare di una notizia che, forse, non fa più notizia.
Nei giorni precedenti alla manifestazione è uscito un profilo su Vogue che racconta l’ascesa e la quotidianità di Elena Delle Donne, MVP della WNBA nel 2015. A un certo punto del pezzo viene anche citato che “lei e la sua fidanzata, Amanda Clifton, hanno appartamenti sia a Chicago che Wilmington”. Così, senza clamori, senza schiamazzi, la miglior giocatrice del mondo ha reso noto di essere omosessuale.
In un mondo normale questa sarebbe una non-notizia, e anche Elena dopo l’uscita dell’articolo ha rilasciato dichiarazioni piuttosto sorprese sul “clamore” suscitato dal pezzo: “Non è un articolo di “coming out” o niente di simile: è semplicemente uno di quegli articoli per cui vengono a casa mia per passare un paio di giorni con me e Amanda è una parte enorme della mia vita. Lasciarla fuori non avrebbe avuto senso. Sto con lei da molto tempo e le persone vicine a me lo sapevano già, perciò non c’è niente di nuovo. Ho deciso di non nascondere niente, ma la cosa più importante è rispettare la privacy di Amanda. Non è lei a essere sotto i riflettori, non c’è bisogno che venga intervistata e non voglio che la cosa le crei problemi.”.
Forse nel 2016 finalmente possiamo accettare l’omosessualità di un atleta di altissimo livello senza che diventi una notizia da prima pagina. Sarebbe un mondo migliore.