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Tommaso Giagni
L'eleganza naturale di Toni Kroos
17 apr 2020
17 apr 2020
Uno dei centrocampisti più raffinati della nostra epoca.
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Tommaso Giagni
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In una foto scattata negli spogliatoi della Germania subito dopo la finale mondiale del 2014, Angela Merkel è circondata dai giocatori tedeschi in festa. Tutti si stringono attorno alla cancelliera, chi più composto e chi meno. Tutti, tranne Toni Kroos, che sta seduto su una panca a prendersi cura degli scarpini.


 

Nell'ora scolastica di educazione fisica, Toni doveva sempre togliersi le scarpe e giocare scalzo a pallone, perché il divario con i compagni non fosse eccessivo. Era un Gymnasium, e lui uno studente svogliato che faceva molte assenze. A Rostock si era trasferito insieme alla famiglia, perché l'Hansa aveva un buon vivaio e oltre a formare Toni voleva ingaggiare suo padre Roland come allenatore dell'Under 17 e suo fratello Felix come giovane di prospettiva. Roland era stato un wrestler professionista prima di insegnare calcio ai ragazzini del Greifswalder FC, e ai suoi figli. Sarebbe rimasto per quattordici anni all'Hansa, e avrebbe poi compiuto il percorso inverso.


 

Da sei stagioni, Toni Kroos fa parte di un club come il Real Madrid. È il motore insostituibile della squadra più ambiziosa del calcio europeo e ha la fama di chi non sbaglia un passaggio – il peso dell'impeccabilità. Godersela, non si può. Già un anno dopo il suo arrivo, diceva: «Mi rendo conto che essere qui è un privilegio, ma anche quello diventa velocemente la normalità». 


 


Foto di Juan Manuel Serrano Arce / Getty Images.


 

Il talento è esploso tra i suoi piedi senza dargli alternative: «A sedici anni ero già un calciatore. Non ho avuto il tempo di pensare a che mestiere potesse piacermi». Acquistato dal Bayern Monaco, attraversò il Paese – ottocento chilometri, dal profondo nord al profondo sud. Lo voleva anche il Werder Brema, la squadra del cuore, ma lui preferì l'opzione più pragmatica. Intanto a Rostock sua madre Birgit continuava ad apparecchiare la tavola per quattro, poi regolarmente si sedeva e piangeva.


 

Anche il fratello, Felix, più piccolo di soli quattordici mesi, è diventato un calciatore professionista. Insieme, lui e Toni hanno fatto quasi dieci anni di giovanili, prima al Greifswalder poi all'Hansa. Come ha spiegato la madre (ex professionista di badminton, campionessa nazionale della DDR), la famiglia ha subordinato tutto al calcio.


 

Anche Felix è un centrocampista centrale, oggi rincalzo dell'Union Berlin dopo esserne stato a lungo capitano in Zweite Liga. Sembrava poter fare di più – a diciannove anni esordì col Werder Brema in Bundesliga e in Champions League, giocò anche in nazionale Under 21. «Sono orgoglioso della mia carriera» ha detto Felix la primavera scorsa, dopo la storica promozione dell'Union nella massima serie: «Per me, questo equivale alla vittoria di una coppa del Mondo». E ha aggiunto che il confronto con Toni è qualcosa di tanto inevitabile quanto ingiusto: «Se guardate alla sua carriera, quasi nessuno sarebbe all'altezza».


 

Per quanto lo riguarda, Toni dice che il bene per il fratello vale tanto da fare uno scambio di carriere – se si potesse – con Felix campione del mondo e centrocampista del Real Madrid, e lui al suo posto.


 

In nazionale, Toni aveva esordito nel marzo 2010, proprio nello stadio del Bayern che l'aveva temporaneamente ceduto al Leverkusen. E proprio contro l'Argentina, che avrebbe incontrato e sconfitto nella finale dei Mondiali 2014. Pochi giorni dopo quella vittoria, sarebbe arrivato l'annuncio del suo acquisto da parte del Real.


 


Foto di Dean Mouhtaropoulos / Getty Images.


 

A diciassette anni, Toni viene promosso nella prima squadra del Bayern e all'esordio diventa il più giovane professionista nella storia del club. Pochi mesi dopo l'arrivo di Kroos, Miro Klose, colpito dalla tranquillità e dalla sicurezza del ragazzino, gli dice che o diventerà una stella del calcio oppure lui non capisce niente di calcio. Proprio a Klose, nel settembre 2007, Kroos all'esordio in Bundesliga aveva servito due assist nei venti minuti scarsi che Hitzfeld gli aveva concesso.


 

Ha una rosa, quel Bayern, dove una nuova generazione (Schweinsteiger, Lahm, Ribéry) cresce al fianco della precedente (Lúcio, Zé Roberto, Klose, addirittura Kahn). Kroos è l'unico della generazione ancora successiva a trovare tanto spazio. La squadra vince campionato e coppa nazionale, spinta dalla solidità difensiva e dai gol (39 stagionali) di Luca Toni.


 

In quel periodo, Roland Kroos esce di scena dal punto di vista sportivo: il figlio ha un allenatore, presto anche un procuratore. «È stato difficile accettare che non potevo più fare nulla per aiutarlo» ammetterà il padre. Toni invece la considera una bella opportunità per spostare il rapporto su un piano privato. D'altronde, come osserverà anni dopo Felix: «Nella nostra famiglia non abbiamo mai parlato abbastanza di sentimenti. Non abbiamo mai imparato».


 


Foto di Daniel Mihailescu / AFP via Getty Images.


 

Nelle opere di Caspar David Friedrich c'è spesso un soggetto di spalle che contempla l'orizzonte, come in attesa di un destino. Chi lo guarda, non è messo a parte delle sue riflessioni. Lo spazio che si apre di fronte a quella figura è misterioso e affascinante come una terra oltreconfine. Friedrich era nato a Greifswald come Toni Kroos. A quei tempi, il territorio apparteneva alla Pomerania svedese. Ma il mar Baltico era lo stesso, lì come una linea di demarcazione tra l'Europa centrale e la Scandinavia.


 

Quando ci è nato Kroos, il 4 gennaio 1990, Greifswald apparteneva alla Repubblica Democratica Tedesca e la riunificazione della Germania era imminente. Da calciatore, sul crinale del tempo e dello spazio, la sua completezza pienamente contemporanea va insieme a uno stile – ha notato Emiliano Battazzi – «facile ed elegante come al parco, o come sessant'anni fa».


 

Gli piace giocare in mezzo al campo perché è la posizione che gli permette di vedere di più l'azione. Prima di arretrare, era stato anche un trequartista puro e aveva avuto come modello Johan Micoud, che ammirava nel Werder. Di Kroos, «la prima cosa suggestiva è che non ha niente di speciale. Non è particolarmente alto, né veloce, né vigoroso. A una prima occhiata è un giocatore nella media» dice il giornalista Wolfram Eilenberger nel bel documentario Kroos (2019). Il suo talento nascosto e personalissimo, prosegue, sta nel vedere le cose prima degli altri.


 

L'impressione di Matthias Sammer, l'ultimo tedesco a vincere il Pallone d'oro, è che Kroos nella squadra abbia la funzione di uno spirito-guida. Secondo un altro Pallone d'oro, il suo compagno di squadra Luka Modrić, Kroos pare giocare in slow-motion in un calcio dove tutto è frenetico come all'ora di punta. «Non l'ho mai visto nervoso» dice il suo Ct Joachim Löw, «neanche prima di una finale dei Mondiali».


 


Foto di Alexander Hassenstein / Getty Images.


 

«Il mio modo di giocare è stato criticato da quando ero giovanissimo. Se mi riusciva bene, dicevano: geniale. Se mi riusciva male: lethargisch». Letargico. Da professionista, l'unico tecnico con cui ha avuto un conflitto pubblico è stato Jürgen Klinsmann. Il responsabile di quella seconda, travagliata stagione a Monaco, a metà della quale Kroos viene mandato per diciotto mesi in prestito al Bayer Leverkusen. Dal canto suo, Toni ha la certezza che l'allenatore si sbagli – che lui meriti di più.


 

In rossonero, dopo un semestre di ambientamento, vive una stagione da protagonista (2009/10), con 12 assist e il quarto posto finale in classifica, benché adattandosi a giocare da esterno di centrocampo per poi accentrarsi. Una stagione che gli serve a mostrare cos'è in grado di fare, come dice lui, a chi non se n'è accorto.


 

Rientra dal prestito a vent'anni compiuti, e nell'ufficio di Rummenigge estende il contratto che lo lega al Bayern. Se ne pente dieci minuti dopo la firma. Il fatto è che a Monaco ha sempre l'impressione di essere uno dei tanti, se non uno di troppo. Né gli corrisponde l'ambiente, come lascia intendere sua madre nel documentario.


 

A segnare il rapporto sono anche alcune scelte sue. Per esempio quando la finale di Champions 2012 va decisa ai rigori e lui non se la sente di andare sul dischetto, e il Bayern perde. L'allora presidente Uli Hoeneß continua a portargli rancore a distanza di anni – lui che pur controvoglia, nella finale degli Europei 1976, aveva battuto il suo commettendo l'errore decisivo.


 

Certo, nel secondo ciclo a Monaco (2010-2014) per Kroos ci sono anche le vittorie, la conquista del posto in nazionale e l'incontro, decisivo per la sua carriera, con Guardiola. È il tecnico catalano a intuire la sua visione e abbassarlo a fare l'interno di centrocampo.


 



Toni e Jessica.


 

In famiglia nessuno si spiega da chi possa aver ereditato la compostezza: «Deve averla sviluppata per conto suo» conclude la madre. A venticinque anni, quando gli chiesero cosa potesse turbarlo nel lavoro, Kroos rispose che – pur impegnandosi – non riusciva a immaginare niente. Così come il suo gioco è sobrio e misurato, così anche la sua vita pubblica non è mai esposta. Ovviamente la lucidità quasi meccanica e l'introversione sono relative. Sua moglie lo descrive come una persona emotiva.


 

Si sono conosciuti quando lui aveva diciott'anni e Jessica venti. Dopo quattro anni di vita in un'area residenziale di lusso ai bordi di Madrid, lei non era ancora mai stata in città. D'altronde la casa è lo scudo di Toni, lo specchio d'acqua dove torna nuovo. Rientra dalle partite e le dimentica. Dice di essere un giramondo, o meglio: un «relativ heimatlos», qualcuno che più o meno non ha un luogo suo. «Casa è dove c'è la mia famiglia» dice.


 

Oggi ha trent'anni e tre figli. Dal 2015 con la sua fondazione, la Toni Kroos Stiftung, aiuta bambini gravemente malati. «Sono fortunato e sento di dover restituire qualcosa alla società». Ha rinnovato il contratto con il Real fino al 2023, consapevole di non voler giocare ancora a lungo – di potersi fermare a 33 anni, o almeno di potersi fermare a riflettere.


 

Una coppa del Mondo, quattro Champions League, quattro campionati nazionali, tre supercoppe europee, 96 presenze con la Mannschaft – fin qui. Il tedesco più vincente della storia del calcio è convinto che il successo dia una dipendenza, non una sazietà. E non nasconde che tutto questo sia faticoso. Facile allora comprendere perché abbia già deciso di non fare l'allenatore, a carriera finita: «Non voglio fare la stessa vita di adesso. Senza smettere di viaggiare, stando poco a casa». Un'altra cosa che gli pesa, ammette, è che i tifosi non si accorgano della persona – che vedano solo il calciatore.


 

 

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