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Tom Brady contro il tempo
19 mar 2020
19 mar 2020
L'ultima sfida del più grande di sempre.
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Martedì mattina, alle 8.45 americane, Tom Brady ha annunciato che avrebbe rifiutato l’opzione di rinnovo prevista dal suo contratto e avrebbe lasciato i New England Patriots dopo vent’anni, nove Super Bowl giocati e sei vinti. Il fatto che la notizia fosse comunque nell’aria da qualche tempo, non ha tolto lo stupore di vederla nero su bianco nella lettera aperta di TB12 a tifosi e società.

Neanche il tempo di metabolizzare la notizia, di chiedersi quanto sarebbe stato strano vedere chiunque altro nella huddle occupata dal più grande di sempre, che ne è arrivata un’altra, altrettanto incredibile, prima annunciata da Colin Cowherd e poi confermata dal marchio di garanzia di Adam Schefter: Tom Brady sarà il quarterback dei Tampa Bay Buccaneers per i prossimi due anni.

Mentre tutto si sta fermando è arrivata quindi una delle più grosse notizie per lo sport nel 2020. Probabilmente l’unico trasferimento paragonabile nel panorama sportivo americano è quello di Michael Jordan ai Washington Wizards. Ma almeno MJ aveva fatto passare qualche anno di separazione prima di vestire una maglia diversa da quella dei Bulls. Brady, invece, non ha fatto passare neanche mezza giornata. Così, in attesa dell’annuncio ufficiale, ci siamo trovati a constatare la stranezza e il perturbante delle immagini photoshoppate del numero 12 con indosso la maglia rosso-nera dei Bucs. Sembravano immagini generate dalla IA di una modalità carriera di Madden.

Prima di considerare quello che comporta questa nuova pagina nel grande libro di Tom Brady, è necessaria una retrospettiva sul capitolo che si è appena concluso. Con l’addio di Brady ai Patriots si chiude la tirannia più feroce e longeva mai vista in qualunque ambito sportivo.

Tom’s Way

Chiunque voglia capire Thomas Edward Patrick Brady Jr farebbe bene a prendersi 50 minuti e guardare questo documentario. Si intitola Brady 6, come i 6 quarterback che sono stati scelti prima di Brady nel draft in cui finì scelto con la numero 199 e spiega come sia stato possibile per un ventiduenne smilzo e per niente atletico (correva le 40 yard come «un nerd all’inseguimento del bus per non fare tardi al laboratorio di chimica») diventare il migliore di sempre.

Brady 6 è impressionante non solo perché certifica come tutti, dai suoi coach a Michigan agli analisti di ESPN, dagli scout delle squadre NFL a quelli degli stessi Patriots, non avessero la più pallida idea di cos’avessero davanti agli occhi. Qualcosa che non smetterà di impressionarci nello sport contemporaneo così professionalizzato. Ma la sua storia impressiona per un motivo ancora più semplice, ovvero che l’unico a crederci fosse lo stesso Brady, che ha sempre pensato di essere il più forte, anche quando, nonostante fosse in fondo al depth chart dei Patriots e si presentò al suo proprietario come un leggendario «Buongiorno signor Kraft, sono Tom Brady e sono la migliore scelta che lei abbia mai fatto».

La fame di successo di Brady, almeno stando ai racconti d’infanzia, è innata e si iscrive perfettamente nella tradizione sportiva molto americana dei vincenti nati. A sei anni ruppe un muro di casa dopo aver perso a un videogame. Ma è un'energia che si è alimentata anche da altri due aspetti esterni: la voglia di rivincita nei confronti degli haters è il primo; l'altro lo ha svelato Greg Harden, mentore di Brady ai tempi di Michigan: l’essere «disposto a qualunque cosa per compiacere le persone, specialmente le figure autoritarie.»

Di figure più autoritarie di Bill Belichick, l’allenatore con cui Brady ha condiviso ciascuno dei suoi 20 anni ai Patriots, ce ne sono poche. Ancora meno allenatori più difficili da soddisfare e avari di complimenti. Secondo lo stesso Brady, avere un allenatore così esigente è stata la più grande fortuna che potesse capitargli, perché non gli ha mai dato la sensazione di sentirsi arrivato. Nemmeno quando, a un certo punto, non bastavano le dita di una mano per indossare tutti gli anelli vinti.

Un episodio significativo. Nel 2017, con l’ennesima rimonta nel finale, Tom Brady riuscì a battere i Jaguars e a riportare i Pats al Super Bowl. Quel giorno aveva lanciato nonostante dodici punti di sutura sul palmo della mano destra. Dopo la partita Belichick si era limitato a commentare «Non stiamo mica parlando di un intervento a cuore aperto».

Da quando è diventato il quarterback titolare, Brady è stato il primo discepolo della Patriot’s Way, il codice etico prima che sportivo stilato da Bill Belichick e cristallizzato nel mantra "Do your job": nel mondo di BB tutti hanno un solo dovere, fare il proprio lavoro, mentre nessuno, nemmeno il GOAT, ha diritto ad un trattamento di favore o a giocare per le statistiche personali. Anzi, per rafforzare quel concetto di uguaglianza, Belichick era solito prendersela proprio con Brady davanti al gruppo, in allenamento e nella film room.

Un tipo di coaching così duro attecchisce e si autoalimenta solo se i sacrifici vengono ripagati dalle vittorie, e se siamo qui a parlare della più grande dinastia di tutti i tempi è perché, insieme, Brady e Belichick sono riusciti a crackare il codice di una lega le cui iniziali stanno anche per Not For Long.

La legacy di Brady e Belichick è quella di aver dominato uno sport sempre più refrattario alle dinastie e di esserci riusciti grazie a un'applicazione maniacale e spietata su entrambi i lati del pallone, quello difensivo gestito da Belichick, quello offensivo nelle mani di Brady.

In questi vent’anni i Patriots non sono stati sempre la squadra più talentuosa (anzi, quando lo sono stati nel 2007 ci ha pensato la follia di Eli Manning a privarli della stagione perfetta), ma sono stati sempre la più disciplinata.

Quando nemmeno la disciplina era sufficiente, ci ha pensato la sensibilità sovrannaturale di Brady per le rimonte impossibili a salvare la situazione. Di Tom Brady a New England ci ricorderemo soprattutto di tutte le volte in cui ha messo in mostra il suo clutch gene, elevando il livello del suo gioco nei momenti chiave: quattro dei sei superbowl vinti sono stati decisi all’ultima azione, e se togliamo l’intercetto di Malcolm Butler contro i Seahwks, quelle azioni sono arrivate al termine di altrettanti game winning drives orchestrati dal numero 12.

Per restare in cima per vent’anni bisogna essere sempre ahead of the curve, e Belichick lo è sempre stato, anche a costo di tagliare giocatori più importanti una volta che questi hanno superato il loro prime. Brady non ha mai fiatato quando Belichick ha fatto fuori pilastri come Ty Law, Lawyer Milloy o Willie McGinnest. Non si è lamentato nemmeno quando gli sono stati portati via giocatori importanti in attacco. Poi, nel 2017, è arrivato il suo momento. O almeno così sembrava.

Mentre Tom, quarantenne e fresco della più grande rimonta di tutti i tempi, dichiarava di voler giocare fino a 45 anni, Belichick stava già guardando oltre, ed era pronto a proseguire la dinastia senza Brady.

Grazie al celebre pezzo di Seth Wickersham su ESPN sappiamo che l’addio di Brady ai Patriots è iniziato in quei mesi e non si è consumato subito solo perché Robert Kraft, che al contrario di Belichick considera Tom una sorta di figlio adottivo, per la prima e unica volta ha interferito con le decisioni di campo del suo coach, mettendo il veto all’addio di Brady e imponendo a Belichick di liberarsi di Jimmy Garoppolo, l’heir apparent designato da BB.

Belichick ha fatto quello che ha sempre predicato ai suoi giocatori, ha fatto il proprio lavoro e, pur schiumando rabbia, ha eseguito l’ordine, regalando Garoppolo ai San Francisco 49ers.

Nonostante le crepe nello spogliatoio e il clima da fine dell’Impero, dal 2017 al 2019 i Patriots hanno continuato a dominare, raggiungendo due Super Bowl e vincendone uno. L’anno scorso le cose sono andate peggio, visto che i Pats, complice la carenza di talento offensivo, sono usciti perdendo in casa nel turno di Wildcard. Qualcosa che non succedeva dal 2010.

Quando lo scorso 4 gennaio Titans Brady ha lanciato l’intercetto che ha sancito quella sconfitta, non c’era ancora la certezza che quello sarebbe stato il suo ultimo passaggio con la 12 dei Patriots addosso, visto che, almeno teoricamente, Brady poteva far valere una clausola di rinnovo anche per la prossima stagione. Col passare delle settimane, però, la sensazione che l’addio fosse imminente è diventata sempre più forte. Parallelamente sono fioccati i nomi delle possibili destinazioni, soprattutto quelli di Raiders, Colts, Titans, 49ers e Chargers. Alla fine a spuntarla sono stati invece i Tampa Bay Buccaneers.

Perché Tampa

Quella di Tampa Bay è una destinazione quantomeno curiosa, priva sia del fascino storico di franchigie come Raiders e 49ers che del mercato oceanico di Los Angeles offerto dai Chargers.

Ma allora cosa ha portato Brady in Florida? Per avere una risposta soddisfacente a questa domanda purtroppo dovremo aspettare la conferenza stampa di presentazione. Quello che passiamo già sostenere è che Tom Brady ha deciso di ripartire da una franchigia che è per tanti versi l’opposto dell’"anellificio" che ha costruito a New England.

Al di fuori degli anni di gloria a cavallo tra i ’90 e i 2000, Tampa è sempre stata nei bassifondi della NFL. Negli anni ’80 era un cimitero sportivo, il luogo dove le carriere andavano a morire e dove si consumava la peggiore streak di stagioni perdenti consecutive, 14.

Per capirci, Brady ha 249 vittorie in carriera, gli ultimi ventotto quarterback titolari dei Bucs sommati arrivano a 236. Ultimamente invece i Bucs si sono fatti un’altra fama poco invidiabile, quella di eterna incompiuta, di squadra che a dispetto del talento si squaglia alle prime difficoltà.

Con Brady titolare i Patriots non si sono mai persi una post-season. I Bucs non giocano una partita di playoff dal 2007 e non ne vincono una dal 2002, l’anno del loro unico Super Bowl.

Per di più, Brady arriva da un allenatore avaro di parole e ancor più di complimenti, che siamo abituati ad immaginarci imbronciato nella pioggia gelida di Foxboro, con il cappuccio abbassato fino agli occhi come l’Imperatore di Star Wars. Ad accogliere invece Tom sotto il sole della Florida, in coppola e occhiali scuri d’ordinanza, ci sarà il faccione paonazzo di Bruce Arians, il players coach per eccellenza, quello che ad Arizona dopo ogni partita vinta o persa apriva il bagagliaio del pick up, tirava fuori una cassa di birre e si faceva un goccio con i suoi giocatori.

Il contrasto tra Bucs e Patriots tocca anche il lato tecnico e tattico, perché Brady a Tampa troverà anche un supporting cast agli antipodi dei ricevitori brevilinei e agili con cui ha fatto a fette la NFL nell’ultima fase del suo regno a New England. Al posto di Julian Edelman e Danny Amendola ci saranno Mike Evans e Chris Godwin, ricevitori fisici e devastanti come Brady non vedeva dai tempi di Randy Moss.

Nella pitch di Tampa il fatto di disporre del miglior duo di WR della lega ha sicuramente avuto il suo peso, visto che Brady, alla soglia delle quarantatré primavere, ha bisogno di un supporting cast migliore di quello moribondo dei Patriots lo scorso anno, e i Bucs sotto questo aspetto sono tra il meglio che la lega potesse offrire.

Dal punto di vista strettamente tattico, però, il fit non sembra così scontato. Arians e Brady dovranno venirsi in contro, perché il coach di Tampa Bay vive il football un lancio di 50 yard alla volta (il suo mantra è «no risk it, no biscuit», se vuoi il biscotto, devi rischiare), mentre Brady da almeno un decennio è abituato a uno stile più accorto e conservativo, un death by a thousand papercuts che non punta alla giugulare ma a dissanguare la difesa cinque-dieci yard alla volta.

Il matrimonio tra Brady e la sua nuova squadra è così paradossale che potrebbe funzionare, ma i motivi profondi della sua scelta rimangono misteriosi. Del resto, cos’ha ancora da dimostrare un uomo che ha prima demolito e poi innalzato qualunque standard di eccellenza in NFL, standard che non verranno raggiunti per chissà quanto tempo?

Può darsi che il motivo per cui non riesce a lasciare la NFL è lo stesso che gli ha permesso di entrarci. Per diventare il quarterback che è diventato, Brady ha dovuto imporsi un sacrificio e una disciplina ascetici, dedicare mente e corpo alla sua arte sottraendo tempo ai figli e alla donna più bella del mondo. Ha dovuto, parole sue, «rinunciare a vivere»: «Se vuoi competere con me faresti meglio ad abbandonare la tua vita, perché io ho abbandonato la mia».

Questa citazione viene dalla docuserie auto-prodotta un paio d’anni fa da Brady per raccontare l’autunno della sua carriera. Il titolo della serie, Tom vs Time, illumina la sfida con cui Tom Brady ha deciso di chiudere il suo cammino in NFL, quella contro il tempo. Una sfida impossibile, giocata contro un avversario che finora ha uno 0 nella casella delle sconfitte, perché, si sa, «Father Time is undefeated».

A vederla in un certo modo, potrebbe anche ritenersi soddisfatto della sua sfida contro il Tempo, visto che il Super Bowl del 2018 l’ha consacrato come l’unico QB ad aver vinto un Lombardi Trophy dopo i quarant’anni.

Invece Brady ha scelto di continuare a sacrificarsi, di consumare game tape e di allenarsi fino allo sfinimento. Oltre all’amore per il gioco, dietro questa scelta forse si cela anche un aspetto più oscuro, menzionato dal padre in un intervista di cinque anni fa. Tom Sr., alla domanda «Che cosa ti spaventa?», rispose che la sua più grande paura era che Tommy non riuscisse a trovare qualcosa che sostituisse l’ossessione per il football.

Dietro questa sfida, allora, potrebbe semplicemente esserci la paura di non sapersi reinventare al di fuori di questo rapporto spasmodico con il superamento dei propri limiti, di non riuscire a riprendere in mano “la vita” dopo averla sacrificata per così tanto tempo. Diventare una persona nuova.

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