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The artist
10 gen 2017
10 gen 2017
Renè Vignal è morto nel 2016 quasi nell'indifferenza. Ma la sua è una delle storie sportive più incredibili di sempre.
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René Vignal è una delle vittime calcistiche del 2016 sterminatore di celebrità (

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,

), ma la sua stella era declinata da parecchio e in Italia sono stati pochissimi a parlarne, neanche un quotidiano o un media mainstream. Probabilmente proprio per la lontananza spaziale e temporale: Vignal è morto novantenne lo scorso 21 novembre e ha vissuto il momento di massima gloria a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, soprattutto con la maglia del Racing Club di Parigi, meno con quella della Francia, senza vincere niente di memorabile - solo una Coppa di Francia - saltando il Mondiale del 1954 per infortunio e interrompendo bruscamente la sua carriera prima di compiere trent’anni.

 

Se qualcuno ancora si ricorda di lui, semmai, è perché dopo aver smesso di giocare è finito in prigione per aver compiuto 27 rapine.

 

René Vignal viene da un’epoca così remota che sono rimasti in pochi ad avere ricordi di prima mano e a chi la legge solo oggi la sua storia potrebbe sembrare fantascienza, nel senso che più che da un altro periodo storico sembra venire da un altro mondo. La sua storia è irripetibile, se non addirittura inimmaginabile; ma al tempo stesso - e questa è una ragione altrettanto valida per ricordarla prima che il 2016 sia troppo lontano - se si va oltre il velo di dettagli ci parla di un modo di intendere il calcio e i calciatori che, settant’anni dopo, è ancora il nostro.

 


René Vignal era famoso per le uscite spericolate: dritto per dritto con la testa tra le gambe dell’attaccante.



 

La

, pur nella versione più essenziale raccontata nei

apparsi sulla stampa francese dopo la sua scomparsa (con variazioni lessicali talmente irrilevanti che a leggerli uno dopo l’altro la firma del giornalista sembra un vezzo ridicolo, anch’esso di un’epoca passata) è un’insieme di dettagli letteralmente incredibili.

 

A cominciare dal mito fondatore che vede Vignal, allora attaccante, posizionarsi per la prima volta tra i pali a 16 anni perché il portiere titolare era stato arrestato per aver rubato delle fascette di legno. L’allenatore, in assenza di un portiere di riserva, scelse il più

della squadra, termine che in francese ha un significato più vicino a “pazzerello”, o “mezzo pazzo”, che a pazzo completo. Vignal stesso sembrava consapevole dell’importanza che questo genere di dettagli giocava nella sua storia: “È stato il destino”, diceva, “Se quel tale non avesse rubato della legna, non sarei finito



 

A questo aneddoto ne va affiancato un altro - che nei coccodrilli non compare - dei tempi in cui Vignal era ragazzo e

di lui: “Gli manca una rotella”. Una sera durante il periodo di vendemmia - dopo aver probabilmente bevuto, cioè - René è andato al

, giardino comunale di Béziers, in cui all’epoca c’era uno zoo, e ha aperto la gabbia delle scimmie. Dato che le scimmie non si muovevano dalla gabbia neanche con la porta aperta, Vignal e i suoi amici hanno abbattuto il busto di marmo di Victor Hugo per spaventarle e spingerle all’azione.

 

“Cinquant’anni di genio giacevano ai nostri piedi!”, racconterà Vignal molti anni dopo

, fiero e orgoglioso di quel vitalismo sulla cui base ha costruito, con l’aiuto del pubblico, la sua identità. I genitori (la madre di origini catalane) preoccupati pensano di iscriverlo a una scuola militare, poi arriva la Seconda Guerra Mondiale e non se ne fa niente. A quattordici anni entra in fabbrica per diventare carpentiere.

 

Béziers è un paese del sud della Francia,

. Prima di giocare a calcio, Vignal ha provato con la boxe e ovviamente il rugby,

riconoscevano nel suo stile poco convenzionale le influenze di questi sport: “Boxa con la palla per respingerla di pugno, con ganci, swing, diretti e uppercut, come se si trovasse sul ring”. I suoi rilanci di controbalzo per l’attaccante - evidentemente rari in quel periodo - ricordavano i

con cui mandare la palla sopra la traversa da rugby.

 



 

Appena finita la guerra, Vignal passa

- diciotto mesi dopo aver fatto per la prima volta il portiere - dove pensa di poter finalmente soddisfare la sua “sete di successo”. L’anno successivo il Tolosa viene promosso in Ligue 1 e dopo appena due stagioni Vignal viene ceduto alla Racing Club per 1,5 milioni di franchi, record dell’epoca. A quel punto ha vent’anni e per pagarsi le spese della vita parigina fatta “più di cabaret che di chiese” deve lavorare al mercato centrale di Les Halles. Nel 1946 diserta una mobilitazione generale (dovuta ad alcuni scioperi) dell’esercito francese.

 

Mettendo insieme i pezzi che si trovano

ne esce un ritratto difficile da credere, e confesso di non essere sicuro, nella scelta degli aneddoti e delle versioni che a volte si differenziano leggermente tra loro, di aver raffigurato il Vignal più “vero” possibile. In questo modo, però, posso restituire autenticamente la forte impressione che ha lasciato sui testimoni del periodo e sul loro ricordo delle sue imprese. Oltretutto, non poter distinguere - neanche volendo - tra realtà e finzione fa parte del piacere che ci spinge a raccontare e ascoltare storie.

 

Per questo non c’è bisogno di chiedersi come abbia fatto Vignal a cavarsela dopo aver disertato. O come facesse al tempo stesso a giocare, scaricare le cassette al mercato e frequentare i locali notturni di Parigi.

 

Anche le descrizioni legate al campo sono quasi tutte inverificabili, perché un tempo funzionava così: un uomo era la sua reputazione. E la reputazione si può plasmare, è un talento come un altro, è come saper fare gli anelli con il fumo di una sigaretta.

 

René Vignal era alto 1,78m ma si diceva superasse la traversa con la testa saltando a piedi pari. Si racconta che una volta si è allenato con dei saltatori in alto, giusto “per vedere”, e che abbia superato l’asticella a 1.85m. Oppure, che dal centro della porta, saltando lateralmente da fermo, poteva toccare il palo con una mano prima di atterrare. E che non ha mai preso un gol sotto le gambe - questo in realtà, è un dettaglio a cui sembra tenere quasi solo il creatore del sito

, Thierry Bonnot, come prova che la tecnica d’uscita attuale dei portieri di oggi è meno efficace.

 

La mistica di Vignal poggia anche su un’abilità eccezionale nel parare i calci di rigore. Si dice abbia sempre indovinato l’angolo di un rigore, perché con la sua esplosività poteva permettersi di aspettare che venisse calciato; e che ne abbia parati la metà di quelli che gli sono stati tirati contro.

 

Il rigore più celebre lo ha parato alla seconda presenza in Nazionale, il 27 aprile 1949, uno dei pochi avvenimenti storicamente registrati che hanno fondato il mito di Vignal. Durante uno Scozia-Francia, giocato a Hamden Park davanti a 120.000 spettatori.

 

Vignal confessò di aver indovinato la direzione del tiro grazie al suggerimento avuto a una cena con l’ambasciatore francese in Scozia, che aveva visto giocare Young, l’attaccante rigorista, e lo aveva avvertito del suo angolo preferito. Vignal parò il rigore con il suo gesto

che in Francia chiamano “manchette” e viene descritto come una specie di bagher da pallavolo, che però poteva essere eseguito anche con un solo avambraccio, e che nelle foto sembra semplicemente un gesto insensato, forse persino ridicolo. L’Equipe Magazine nel 1973 ha scritto che con la

Vignal dava l’impressione di “voler scacciare un insetto”.

 


Vignal ha detto a Bonnot che quando si buttava cercava di tagliare la traiettoria del pallone per prenderlo il più presto possibile, e che fissava bene il cappello sulla testa per “ridurre la visuale e concentrarsi sui piedi dell’avversario e sul pallone”.



 

Il rigore di Young, calciato molto forte e respinto in questo modo arrivò oltre la linea di metà campo. Dopo quella partita contro la Scozia (finita 2-0 per i padroni di casa) i giornali britannici lo ribattezzarono: “The French Flying Man”.

 

Due anni dopo, Vignal parò un rigore anche contro l’Inghilterra a Highbury: 100.000 spettatori. La partita finirà 2-2 ma la Francia ha mancato di poco - con André Grillon da solo davanti al portiere - l’occasione di diventare la prima squadra europea a battere la Nazionale inglese in Inghilterra. Questo, sì, un momento che viene ancora ricordato.

 

di poco precedente alla scomparsa, René Vignal novantenne si definiva “un kamikaze, un guerriero”. E aggiungeva: “Sono sempre stato così, anche nella vita di tutti i giorni. Bastava che ci fosse un pericolo che mi gettavo tra le fiamme”. O ancora: “Amavo la vita. E il rischio che a volte c’è nella vita”. Il presidente del Racing, André Dehaye, diceva che Vignal «metteva la testa dove i nostri attaccanti non avrebbero osato mettere il piede».

 

Per questo, per proteggere la testa nelle sue uscite spericolate che erano parte fondamentale del suo stile e del suo carattere, Vignal giocava con un parastinco infilato nel berretto. Nonostante ciò, ha giocato appena 17 partite in Nazionale: sarebbero state di più, come scriveva l’Equipe Magazine, se “il suo stile volante, la sua temerarietà, non gli avessero procurato tanti infortuni”.

 

In tutto ha accumulato 19 fratture, tra cui quella tripla all’avambraccio che ha posto fine alla sua carriera. Dopo un colpo alla testa, si dice sia rimasto cieco per tre settimane.

 

L’ultima partita giocata, a pochi giorni dal Mondiale del ’54 che si sarebbe tenuto in Svizzera, è stata lo spareggio di andata con cui il Racing sarebbe poi risalito in prima divisione, dopo una sola stagione in seconda. Vignal ha dovuto chiedere un permesso speciale alla Federazione francese per lasciare il ritiro e andare a giocare e, dato che all’epoca non c’erano sostituzioni, dopo essersi rotto il braccio ha finito la partita in attacco. Per poco non è riuscito a segnare. Peccato, sarebbe stato un finale ancora più epico.

 


Il primo gol subito da Vignal in Inghilterra-Francia nel 1951 (qui ci sono gli highlights interi ).



 

In realtà, quattro anni dopo quell’infortunio Vignal è tornato a giocare nel Bèziers, dopo aver vinto la battaglia giuridica con il Racing Club con cui aveva firmato un contratto a vita - cioè fino ai 35 anni -

all’epoca. Un secondo finale, questo del ritorno alle origini, durato comunque solo qualche partita, perché Vignal “non sopportava l’autoritarismo dell’allenatore”.

 

Quella di Vignal è una storia di spregiudicatezza ma anche di occasioni mancate. A cominciare dal Mondiale del 1950 - Vignal era all’apice del proprio successo, nei due anni precedenti il Racing era arrivato in finale di Coppa di Francia, vincendo nel ’49 e perdendo nel ’50 - che la Francia ha solo sfiorato, perdendo lo spareggio con la Yugoslavia e rifiutando poi il ripescaggio (dopo il forfait del Belgio) perché sarebbe costato troppo mandare la squadra in Brasile.

 

Una volta smessi definitivamente i panni del giocatore, Vignal avrebbe voluto allenare, ma non lo ha fatto perché gli è stata negata la licenza quando l’ha chiesta: mancavano 8 giorni ai suoi 35 anni (prerequisito della federazione francese) e non aveva un diploma di educatore (altro prerequisito). Lui la prese come una mancanza di riconoscenza.

 

Un’interpretazione meno epica e più sfumata di Vignal è possibile già a cominciare dallo stile, ed è qualcosa di cui si erano accorti anche i suoi contemporanei. Aimé Mignot, calciatore del Lione negli anni Cinquanta, dice che Vignal “faceva un po’ di lavoro per i giornalisti e i fotografi perché ogni volta che c’era un pallone volava a destra e a sinistra. Era veramente spettacolare”. Negli stralci dei giornali dell’epoca si legge già l’ambivalenza del messaggio di Vignal: “Spesso criticato dagli spettatori per le sue imprudenze che giudicano inutili, gli strappa delle grida di ammirazione con le sue parate acrobatiche”.

 

E la sensazione scioccante che portava con sé: “Vignal non diceva mai

, ma









Lo stesso Vignal, in tarda età,

del fatto che il calcio moderno fosse diventato

: “Il mio era un calcio champagne, spumeggiante, dove se subivi 2 gol pensavi a farne 3. Era più gradevole per gli spettatori. Certo, per i portieri lo era meno”. Denis Baud,

, sostiene che in lui “c’era anche una volontà di essere un portiere indimenticabile, e quindi faceva spesso spettacolo anche a costo di essere approssimativo”.

 

Cosa avrebbe detto il pubblico di Vignal, se ci fossero stati Twitter e Facebook negli anni ’50?

 

Ne avrebbero lodato per il coraggio o avrebbero usato i suoi errori per farci i meme?

 

Entra in conflitto con la nostra idea di passato, come sempre più autentico del presente, ma René Vignal non era molto diverso da quei giocatori che cercano nel calcio il mezzo per mettersi al riparo dall’incertezza economica e ottenere quell’anticipo di immortalità che chiamiamo fama. “Ogni giorno c’era un articolo su di me, tutti i giorni. Ero molto mediatizzato. I miei compagni al Racing erano invidiosi”, ricorda Vignal a poche settimane dalla morte.

 

Sempre nei giornali dell’epoca si legge di una partita (contro Angers) in cui l’allenatore avversario gridava dalla panchina che Vignal era dopato per quante parate aveva compiuto, in cui Vignal aveva bloccato un rigore a fil di palo e lanciato l’attaccante smarcato in contropiede per il gol con cui il Racing ha vinto per 1-0. A fine partita persino il pubblico avversario lo aveva applaudito e lui, nello spogliatoio, dice ai compagni: “So che vi dà fastidio, ma ditemi una cosa: chi vi ha fatto vincere la partita da solo?”. “Lo sappiamo René”, rispondono i compagni, “sei stato te…”.

 

La reale straordinarietà di Vignal non si può separare dalla gloria più vana e autodistruttiva che lo ha portato anche a compiere errori irrimediabili. Vignal compariva nella pubblicità di un sarto parigino ed era così famoso che il settimanale fotografico

ha realizzato un reportage direttamente dalla sala operatoria durante un suo intervento alla spalla. Con la danzatrice Michelle Marconi avevano girato uno sketch in tv in cui lei ne aveva imitato i saltelli nella “danza del portiere”.

 

“I calciatori fino ad allora erano rimasti un po’ nell’ombra, sul piano artistico intendo, ma quando sono arrivato io, sono entrato a far parte del jet-set

. Mi ha permesso di conoscere non solo sportivi, ma anche molta gente dello spettacolo.”

 





Se René Vignal, come mi sembra di capire, è stato il calciatore più famoso di Francia quando ancora in attività, perché la sua storia è così poco conosciuta anche in Francia (al di là di pochi fatti e di un culto di nicchia)? Cosa ci lasciano davvero gli atleti? Qual è la durevolezza del loro messaggio?

 

A novant’anni, dopo averne passati quasi dieci in prigione, praticamente cieco e dimenticato - se non da pochi: non è neanche segnalato tra gli sportivi degni di nota nati a Béziers

- alla periferia di Tolosa, René Vignal ricordava ancora con piacere quegli anni: “Ero famoso e avevo dei soldi. E non ero tirchio. Ero famoso in campo e fuori dal campo. E per questo ho fatto una vita molto gradevole per molto molto tempo”.

 

C’è un po’ di confusione sulla vita di Vignal dopo il ritiro. Da quanto ho capito, inizialmente ha vissuto con la moglie e i due figli su un terreno che aveva acquistato in campagna, al sud. Ma si annoiava: “Non mi mancavano i soldi, avevo un terreno di 40 ettari, avevo tutto per essere felice. Ma mi mancava qualcosa: l’adrenalina. Non ero fatto per quel tipo di vita all’ombra, io dovevo stare sotto i riflettori”. Vignal ha divorziato dalla moglie ed è diventato rappresentante per lo champagne Ruinart e per Martini, a Parigi e Marsiglia. “Ero il miglior venditore di champagne Ruinart!”

 

A un certo punto ha comprato un bar, secondo alcune versioni a Tolosa, in altre a Bèziers, che si chiamava “L’Éclair” (il fulmine) oppure “Le Penalty” (il rigore). Ha fatto anche parte del SAC, servizio di polizia gollista, perché gli piaceva De Gaule e non gli piacevano i comunisti. Faceva da guardia del corpo, attaccava locandine. Denis Baud dice che Vignal era contradditorio: aveva una vita incasinata ma amava l’ordine e le persone oneste. Forse ha investito anche in slot-machine.

 

La cosa sicura è che una decina d’anni dopo René Vignal torna sui giornali come rapinatore (banche e supermercati). Sempre Baud dice che “rapinava per ritrovare l’adrenalina del portiere che para un rigore”.

 



 

Secondo la narrazione comune Vignal era entrato in contatto con la mafia marsigliese grazie al lavoro notturno di rappresentante di champagne e la fama del calciatore, ma in realtà nessuno dei suoi complici aveva precedenti penali. I giornali la chiamavano “la banda dei padri di famiglia” e l’avvocato che ha difeso Vignal dice che era “composta da gente piuttosto simpatica”. Quindi, forse, le cattive frequentazioni, sono servite solo a fargli venire l’idea - di mettersi a rapinare banche.

 

“Lo abbiamo seguito perché lo ammiravamo”, ha detto uno dei suoi complici, e Vignal riconosce il proprio ruolo in tribunale prendendosi tutte le colpe: “Si è comportato come un signore. Si è preoccupato che ne uscissero nel modo migliore possibile e si è sacrificato”, racconta l’avvocato del resto della banda.

 

Di solito questa parte della storia viene descritta come una sorta di discesa agli inferi, la versione noir del declino di

, predecessore di René Vignal tra i pali della Nazionale francese e suo modello stilistico, finito, dopo una breve esperienza come allenatore, in tournée per 8 mesi con un circo, a parare rigori agli spettatori al centro della pista (tuffandosi, secondo France Football, 25 volte a serata, per un totale di 700 tuffi al mese).

 

Ma Vignal la ricorda con piacere. Ad esempio, poteva andare fiero del fatto di aver compiuto la rapina più veloce della storia di Tolosa: 35 secondi, in una banca in centro; come del fatto che non era mai stata compiuta nessuna violenza fisica durante le loro rapine - secondo alcune versioni le pistole erano addirittura scariche. Era orgoglio persino delle qualità dei suoi complici: “Uno era un serraturiere, ma un serraturiere bravissimo, lo chiamavamo mani di fata, sapeva aprire anche le casseforti”. A questo punto a Vignal viene da ridere: “Rido… certo non è il massimo dell’onestà, ma è andata così…”.

 

L’ultima rapina è stata quella in un supermercato vicino a Bordeaux, che il caso ha voluto fosse diretta da un dirigente del Bordeaux.

 

In tribunale sono venuti a difenderlo giornalisti sportivi ed ex giocatori (Albert Batteaux, Raymond Kopa, Just Fontaine, attaccante francese che nel Mondiale del ’58 ha segnato 13 gol, record ancora imbattuto) testimoniando da una parte la moralità di Vignal come compagno di squadra e dall’altra la difficoltà per un calciatore di tornare a una vita normale. Lui ha ammesso solo 4 delle 27 rapine di cui era accusato e l’accusa ha chiesto l’ergastolo, ricordando che c’era anche la pena di morte, alla fine gli verranno dati 15 anni. “Eravamo in cinque e c’è chi ha preso 5 anni, chi 3. A me, 15. Perché? Perché mi chiamo René Vignal e sono il portiere della Nazionale francese.”

 

Alla fine sconterà 8 anni, creerà la squadra di calcio del carcere - negli stessi anni in cui

portava avanti il dibattito sulle prigioni - e grazie allo sport tornerà “un uomo sano di corpo e di mente”. Più volte nelle parole di Vignal torna il concetto di “destino”, che le cose sono andate nel modo in cui in fondo dovevano andare; autoassolutorio, magari, ma Vignal lascia l’impressione rarissima di essere stato un uomo totalmente a suo agio nel mondo, che si sarebbe trovato bene anche in prigione in Vietnam o in Siberia: “Ho perso otto, nove anni della mia vita. Ma è stata una bella esperienza. Non lo rifarei, perché è durata troppo, ma è andata così.”



René Vignal era quel tipo di uomo, di cui non ne nascono molti in nessuna epoca, in grado di plasmare la propria identità direttamente nello sguardo degli altri uomini, riducendoli a spettatori. “Mi vedo come un eroe”, diceva con profonda sincerità a novant’anni. Ed è prima di tutto perché lui si immaginava così che è difficile, per noi, non vederlo come un eroe. Anche se magari non lo era.

 

Non posso nascondere di provare una sensazione opposta, di rifiuto, nei confronti di una storia come questa, che racconta anche di una società che idolatra gli atleti come simbolo di energia vitale, anche se non c’è niente di vitale nel modo in cui li consuma. René Vignal era un intrattenitore nato, forse davvero un artista, sarebbe stato perfetto per i valori che il marketing cerca nello sport contemporaneo, ma quando gli chiedevano perché dalla sua vita non era mai stato tratto un film lui rispondeva: “Me lo hanno proposto più volte, addirittura Jean Paul Belmondo (

) ma ho sempre risposto che la mia vita non sarebbe un buon esempio per i giovani, e che mi rifiutavo di farla arrivare al grande pubblico”.

 

Se lo sport ci aiuta a immaginare la vita - la grande metafora che ci rende capaci di superare gli ostacoli, che ci ricorda della nostra forza interiore capace di cambiare la realtà esterna e infrangere record - che vita stiamo immaginando veramente?

 

 

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