
Carlos Alcaraz sta iniziando il movimento del servizio, fa per lanciarsi la palla, ma all’improvviso si scuote dalla sua concentrazione. Quando vengono disturbati i tennisti sembrano tornare a galla da un sonno pesante. Alcaraz si volge verso gli spalti, ma senza quel tipico sguardo di disapprovazione che si riserva ai disturbatori, e lì abbiamo già capito. È una scena vista e rivista in queste settimane: uno spettatore si sta sentendo male. Ha sicuramente avuto un colpo di calore. Segue il solito rito: un capannello di gente risale preoccupata verso il corpo; ghiaccio, acqua, asciugamani. Si chiama un medico. Il gioco resta fermo per una decina di minuti, nei quali i tennisti gironzolano imbarazzati sul campo. Che devono fare per non perdere la concentrazione senza sembrare scortesi o, peggio, insensibili?
Il gioco riprende, ma venti minuti dopo è uno dei due giocatori a sentirsi male. Alexander Zverev comincia a ciondolare, tremendamente spossato. Ogni suo colpo si svuota di enfasi, il suo corpo costretto a ripetere gesti sempre più vacui e nauseanti. Ha caldo, si sente male, si rifugia un attimo negli spogliatoi, poi rientra e la partita smette di essere tale. Zverev decide di non ritirarsi, forse per rispetto del pubblico, ma perde velocemente e Alcaraz sembra insolitamente triste. «Mi sento male per lui», dirà poi ai microfoni.
È solo l’ultimo di una serie di episodi in cui, nelle ultime due settimane, le condizioni ambientali nord americane hanno compromesso la possibilità di giocare a tennis. Pochi giorni fa una scena disturbante. Arthur Rinderknech stramazza al suolo per il caldo. A Cincinnati è pieno pomeriggio, ci sono quasi 30 gradi ma l’umidità al 66% ne fa percepire molti di più. Rinderknech sente di poter morire. Si accuccia nell’unico spicchio di campo all’ombra, si stende un asciugamano sulla faccia e non ci pensa troppo su. Non fa caso che la telecamera lo inquadra, il pubblico lo fissa preoccupato, i telecronisti non sanno che dire: non stiamo più guardando una partita di tennis ma un uomo che cerca di sopravvivere a condizioni mortali.
Succede da sempre negli Stati Uniti: è vero. Anzi, si può dire che il caldo estremo sia una parte fondante dell’estetica della stagione americana: cemento azzurro, campi roventi, ventilatori umidificati, salsicciotti di ghiaccio. Questi giocatori che vanno a sedersi, ogni due game, come motori surriscaldati di automobili che vanno a riposarsi sotto l’unico albero dell’autogrill. Frances Tiafoe ha provato a resistere, dopo un primo set difficile contro Rune. Ha continuato a stropicciarsi un asciugamano bagnato sulla faccia; poi è stato costretto a ritirarsi, ufficialmente per un problema alla schiena. Francisco Comesana doveva andare a servire, e poi ci ha ripensato un attimo: aveva troppo caldo. Ha chiamato l’intervento del medico che lo ha curato con gli integratori. Cos’altro fare?
A Cincinnati si gioca a tennis dal 1899: un’enclave di tennis che ha resistito a tutti i cambiamenti avvenuti negli Stati Uniti in più di un secolo. Tornei chiusi, spostati, falliti, rinati. Solo gli US Open sono un torneo più antico. Entrando è difficile non rimanere colpiti dalla modernità della struttura. Dai profondi ed eccezionali miglioramenti compiuti dal milionario Ben Navarro, padre della giocatrice Emma. Lo dico per sentito dire, ma lo dicono tutti. Su qualcosa i soldi non possono intervenire: la temperatura, che in Ohio a metà agosto raggiunge i quaranta gradi. L’umidità ti prende alle gambe, diventano gelatina, la vista si appanna, la luce del sole acceca e distorce come in un delirio marocchino di William Burroughs. Si sente il bisogno di fermarsi, accasciarsi, trovare riparo.
Come si può giocare a tennis, quel tennis che giocano i migliori al mondo, in quelle condizioni?
Quando il torneo non è stato angosciante, ricordandoci l'urgenza e la gravità della crisi climatica che potrebbe mettere fine alla nostra vita su questo pianeta, è stato patetico. Non so come altro definire scene come quella di Daniil Medvedev completamente stralunato, a torso nudo, lo sguardo fisso nel vuoto e una salsiccia di ghiaccio avvolta nella testa. Poi ficca la testa in una ghiacciaia della Gatorade. Zverev che si accascia in un angolo d’ombra come un operaio allo stremo delle forze. Jakub Mensik è riuscito a giocare una quarantina di minuti contro Francesco Nardi, prima di alzare bandiera bianca, pallidissimo, in uno stadio completamente deserto alle due del pomeriggio. Viene quasi da ridere.
Alejandro Davidovich Fokina - uno degli esseri umani più in forma sulla terra - deve ritirarsi mentre ha praticamente vinto la sua partita di secondo turno contro Joao Fonseca. È avanti di un set e di un break nel secondo, eppure preferisce abbandonare il campo e andarsi a fare una doccia. Si era già ritirato a Toronto contro Rublev. Ha attribuito la decisione alla stanchezza, ma l'impressione è che su questa stanchezza abbia pesato la temperatura bestiale.
Cosa stiamo guardando? Chi ha bisogno di questo spettacolo sadico in cui vince chi sopravvive più a lungo? Ci si rompe la testa per capire come far crescere l’attenzione verso questo sport e il massimo che si riesce a pensare è ingrandire i tornei, allungarne le date, saturare tutti gli spazi in calendario; e in cambio si hanno svenimenti, giocatori ammalati, partite mozzate, un tabellone sventrato dal caldo. Tornei in cui il pubblico sugli spalti è uno stormo di piccoli ventagli agitati su e giù. Cercano di rinfrescarsi abbastanza da non collassare.
Abbiamo già scritto di come l’intensità del tennis contemporaneo - del calendario ma anche degli stili di gioco in sé - stia trasformando il colore di questo sport. Lo sta rendendo più interessante, forse, ma anche più cupo e spietato. I tennisti cercano di cavarsela. Chi può permetterselo, gioca meno, tutti gli altri cercano di resistere.
E di fronte a questo problema cosa dicono i tennisti, la ATP, i giornalisti? Cosa diciamo, anche noi? Che fa caldo. È agosto, siamo in Ohio, il cemento scotta: fa caldo. Di fronte alla gravità della situazione, si distoglie lo sguardo. Parliamo di continuo di come cambiare il calendario, e di come mandare prima i tennisti in vacanza. Come conciliare queste due rette parallele: le necessità del corpo umano e le necessità del capitale. Le leggi del corpo e quelle del profitto. Mentre i tennisti si spezzano, cadono in pezzi, la ATP gli chiede di giocare ancora un po’, un altro po’. E loro un po' brontolano, ma poi se lo fanno andare bene. Magari c'entra anche un rammollimento generale dei giocatori, che hanno perso lo stoicismo di quelli del passato. Qualcuno lo crede davvero. Si cita sempre, in questi casi, il fatto che Federer non si sia mai ritirato. Mi pare un altro modo per sviare l'attenzione dal problema.
In tutti questi discorsi il discorso della crisi climatica, arriva a margine: inaffrontabile. Un iperoggetto, talmente sproporzionato da non presentare alcuna maneggiabilità. È anche inutile parlarne perché soluzioni non sembrano alla portata. Il tennis è particolarmente esposto al problema del surriscaldamento del pianeta per due caratteristiche: in un mondo novecentesco, precedente alla crisi climatica, il tennis si è strutturato in un circuito globale alla costante ricerca del sole. La seconda è che è uno sport tradizionalista, reazionario, che cambia mal volentieri. Gli interessi economici degli ultimi anni hanno appesantito l’infrastruttura, rendendola ancora più difficile da modificare. Ora il calendario si presenta come un colossale incastro di interessi reciproci messo in piedi con calcolo millimetrico. Ogni spostamento di calendario potrebbe provocare frane da milioni di dollari. Come si fa a immaginare un mondo in cui non si gioca d'estate? Invertire la stagione australiana con quella americana, o prendere altre decisioni drastiche dentro uno scenario del genere?
La rivista FiveThirtyEight si è fatta un po’ di calcoli. Nel 2050 la temperatura media agli Australian Open dovrebbe raggiungere i 41 gradi; a Wimbledon 37. L’erba dell’All England Club fa una fatica sempre più grande a restare verde, nonostante i giardinieri ne abbiano modificato la semina per renderla più resistente alle alte temperature. A Londra, persino nella temperata Londra, le persone svengono guardando la partita e il gioco si deve interrompere e Alcaraz deve improvvisarsi paramedico. Quest’anno il record storico di alte temperature nel torneo è stato abbattuto.
I giocatori parlano spesso da vittime della situazione, ma sono anche gli unici che possono davvero fare qualcosa. Il tennis è sostanzialmente gestito da un’associazione di giocatori, la ATP, e se è vero che la forma di controllo esercitata è piuttosto rigida e astratta, i giocatori mantengono un potere enorme. Soprattutto i migliori giocatori, quelli che muovono i capitali, detengono anche il potere per provare a cambiare le cose. Eppure anche loro abitano incerti questa contraddizione, tra soldi e salute. Danno forfait, quando possono permetterselo, accettano gli inviti alle esibizioni - perché non c'è mai limite a quanti soldi uno possa desiderare.
La ATP e i vari tornei, soprattutto gli Australian Open, non possono scappare dal problema più di tanto. Chiudono il tetto non solo per pioggia ma anche per le alte temperature; impongono dei cooling break, hanno sviluppato un indice per capire quando la situazione va fuori controllo. Sembrano misure piccole piccole, che cercano di contenere e gestire il problema. L’impressione - amara, cinica da dire mi rendo conto - è che si aspetti il morto. Facciamo finta che il problema riguarda il futuro, invece ha già a che fare col presente.
Abbiamo già superato il punto critico, guardiamo la realtà: i Masters 1000 di Toronto e Cincinnati, cioè due dei tornei più ricchi e prestigiosi dell’anno, sono stati stravolti dalla crisi climatica al punto da comprometterne lo spettacolo, a falciare una porzione significativa di giocatori in gara. A ridurre alcuni degli esseri umani più in forma del pianeta allo stremo delle forze. Fino a rendere il tennis, o almeno diverse partite del torneo, qualcosa di estremo, sgradevole, un esercizio di sopravvivenza fisica. Qualcosa di angosciante da guardare, certamente non sport.