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Tadej Pogacar il cannibale
24 mag 2024
24 mag 2024
Il ciclista sloveno è a metà dell'opera per la leggendaria doppietta Giro-Tour.
(copertina)
IMAGO / Sirotti
(copertina) IMAGO / Sirotti
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"Dopo questa nona vittoria di Merckx c’è solo da chiedersi se un campione come lui sia un bene o un male per il ciclismo. In proposito i pareri sono discordi. Qualcuno ritiene che un grande campione rappresenta pur sempre una bandiera, soprattutto per i giovani che vedono in lui un luminoso esempio da imitare. Qualche altro ribatte che un Merckx che spadroneggia, che vince quando vuole e che non ha assolutamente rivali, finisce per togliere interesse a uno sport che ha bisogno di equilibrio e d’incertezza per appassionare le folle. Tutte le opinioni sono da rispettare, ma su un punto sono tutti d’accordo: sul fatto che Merckx in questo momento non ha proprio avversari e impone veramente la sua legge. Egli poi ha inaugurato un nuovo modo di correre più moderno, più istintivo, più elementare. Sta sempre in testa per non avere brutte sorprese e appena può è lui il primo a dare battaglia".

Questo che avete appena letto è un estratto di un articolo di Ciro Verratti, inviato del Corriere al Tour de France del 1970. Nel pezzo Verratti parla della vittoria del "Cannibale" della sua epoca, quell’Eddy Merckx che nel 1970, a soli 25 anni, si era già imposto come il dominatore assoluto del ciclismo mondiale completando per la prima volta nella sua carriera la doppietta Giro-Tour nello stesso anno (impresa ripetuta poi anche nel 1972 e nel 1974).

Il dibattito sui grandi campioni, i grandi dominatori, esiste quindi da quando esiste lo sport, e il ciclismo in particolare. Sono un bene o un male? Si possono considerare “spettacolari” le loro azioni anche se ammazzano la corsa da lontano? E ancora: dove finiscono i loro meriti e iniziano i limiti dei loro avversari? Tutte domande legittime, che Verratti e i suoi contemporanei si facevano ragionando su Eddy Merckx e i suoi trionfi, così schiaccianti e netti da sembrare quasi scontati. "È difficile parlare degli altri quando c’è un Merckx, perché gli altri sono troppo oscurati dalla sua luce. Quelli che hanno conquistato i posti d’onore sono in realtà ben lontani da lui come valori assoluti", proseguiva Ciro Verratti lasciando intendere che sì, Merckx era forte, fortissimo, ma che forse i suoi rivali non erano davvero all’altezza della situazione.

Il paradosso del fuoriclasse consiste quindi proprio in questa ambiguità di fondo che è dura a morire. Da una parte lo strapotere, il talento fuori dal comune, la forza straordinaria di un atleta capace di azioni impensabili; dall’altra il dubbio, le incertezze sugli avversari, sul periodo storico e sull’impatto che un dominio di quel tipo può avere sullo sport in questione. Tadej Pogacar - ma non lo scopriamo certo oggi - sta elevando il suo sport verso un’epoca d’oro, ma lo sta facendo paradossalmente riportandolo indietro, facendo riaffiorare di nuovo le stesse domande.

Ho visto un re

Alla vigilia del Giro d’Italia 2024 era piuttosto scontata la vittoria di Tadej Pogacar. Nessuno avrebbe mai osato proporre un vincitore alternativo a meno di voler considerare eventuali cadute, infortuni, malattie, sciami di cavallette o tutte le piaghe d’Egitto. Senza imprevisti, ecco, Tadej Pogacar era sulla carta il più forte - nettamente - fra tutti i pretendenti alla maglia rosa.

Ce lo diceva il suo curriculum fin qui, prima di tutto: a 25 anni, lo sloveno ha già vinto due volte il Tour de France, tre volte il Giro di Lombardia, due volte la Liegi-Bastogne-Liegi, l’Amstel Gold Race, due Strade Bianche. Poi è andato a testarsi sul pavé e si è preso un Giro delle Fiandre battendo tutti gli specialisti, compresi Mathieu van der Poel e Wout Van Aert. Ma soprattutto non è mai uscito dal podio in tutti i grandi giri a cui ha partecipato nella sua carriera: ne ha vinti due, è arrivato secondo due volte e fu terzo alla Vuelta nel 2019 al suo esordio assoluto.

Negli ultimi 4 anni, l’unico in grado di batterlo in una grande corsa a tappe è stato il danese Jonas Vingegaard che si è così guadagnato i galloni del rivale prediletto, l’anti-Pogacar per eccellenza. L’unico, finora, in grado di dimostrarsi superiore su almeno uno dei terreni di caccia prediletti di Pogacar. E però Vingegaard al Giro d’Italia non c’è.

I suoi principali avversari sono Geraint Thomas, Daniel Martinez, Ben O’Connor e Romain Bardet. Poco più indietro i giovani Cian Uijtdebroeks, Antonio Tiberi e Thymen Arensman. Nomi di un certo livello, anche se potrebbero sembrare non così straordinari. Eppure Thomas è uno dei pochi ciclisti in attività a poter vantare la vittoria in un Tour de France, anche se sono passati 6 anni da quel magico 2018. Ma nel 2022 fece di nuovo podio al Tour alle spalle di Pogacar e Vingegaard, nel 2023 invece la vittoria del Giro d’Italia gli scivolò via dalle mani per soli 14 secondi nell’ultima cronoscalata al Monte Lussari.

Nonostante questo, la superiorità di Pogacar sembrava comunque scontata. Una sensazione confermata anche su strada: lo sloveno fa saltare il gruppo nella prima tappa, anche se la vittoria gli sfugge per colpa - si fa per dire - di un Narvaez in stato di grazia. La maglia rosa se la prende il giorno dopo, staccando tutti nella salita verso il Santuario di Oropa. A salvare il gruppo, o quel che ne rimane, ci pensa Florian Lipowitz che come un novello Atlante si mette il peso del mondo sulle spalle e trascina il suo capitano Martinez verso il traguardo, e con lui anche gli altri rivali annientati da Pogacar.

Ben O’Connor è l’unico che prova a seguirlo ma pagherà lo sforzo fino a essere addirittura staccato dagli altri uomini di classifica nel finale. «Sono stato coraggioso, volevo provare a seguire Tadej, ma sono stato probabilmente anche il più stupido».

La seconda mazzata arriva nel secondo weekend di gara, alla fine della prima settimana. Pogacar vince una cronometro spettacolare, giocata di tattica contro Filippo Ganna, gestendo le forze nel tratto in pianura e scaricando tutta l'energia possibile nell'ultimo settore in salita verso il traguardo di Perugia. Gli avversari non sono molto distanti: Arensmann prende 59 secondi in 40.6 chilometri; Tiberi 1’20”, Martinez 1’48”, Thomas 1’59”. Cian Uijtdebroeks è il peggiore fra gli uomini di classifica a quasi 3 minuti, ma si ritirerà pochi giorni dopo per un’influenza che già gli stava mangiando le forze. A quel punto la classifica è già abbastanza definita e a Prati di Tivo Pogacar si limita a controllare la fuga - con una grande prestazione di tutta la UAE Emirates al suo servizio - e poi vincere la tappa in cima alla salita regolando in volata il gruppetto dei migliori.

Le altre vere legnate arrivano la settimana successiva: la prima è di nuovo una cronometro, stavolta piatta e quindi Ganna ha la meglio togliendo almeno questa vittoria di tappa dalle grinfie dello sloveno. I distacchi con gli altri però sono simili a quelli della prima crono di Perugia e il suo vantaggio nella generale aumenta di conseguenza, inesorabilmente anche se non ancora a livelli astronomici. Il vero capolavoro, però, doveva ancora arrivare.

Il 19 maggio si corre la tappa numero 15, 222 chilometri da Manerba del Garda fino a una pista da sci fra le montagne sopra Livigno. Qualcuno ci ha messo su una colata d’asfalto e l’ha chiamata Mottolino, qualcun altro ha pensato di farci arrivare il Giro d’Italia. Ci si arriva dopo aver scalato il Mortirolo e il Passo di Foscagno, oltre al Colle San Zeno a inizio tappa. Una frazione molto dura, resa ancora più complicata dal chilometraggio che supera abbondantemente la soglia mistica dei 200 chilometri, oltre i quali ad alcuni ciclisti si spegne la lampadina, per utilizzare una felice espressione di Auro Bulbarelli.

Si pensava infatti che Pogacar potesse pagare un po’ la distanza, lui sempre così esplosivo. O che magari potesse accusare l'altitudine dei passi sopra i 2000 metri, terreno sul quale negli scorsi anni ogni tanto ha effettivamente sofferto con Vingegaard, nonostante un netto miglioramento su questo fronte già al Tour 2023.

Lo svolgimento della tappa quella mattina poteva lasciar presagire una situazione non favorevole alla maglia rosa, che aveva lasciato andare la fuga del mattino a oltre 5 minuti piazzando la sua squadra a controllare la situazione senza mai forzare. Abbiamo visto spesso nella storia recente situazioni di questo tipo che si rivelavano poi essere dei puri e semplici bluff, degli spiegamenti di forza atti soltanto a scoraggiare eventuali attacchi e nascondere una giornata storta del capitano. Il ritmo abbastanza blando imposto dalla UAE sul Mortirolo sembrava proprio uno di questi bluff, con la fuga che continuava a guadagnare terreno e il gruppo maglia rosa sempre ben nutrito.

Lungo la salita al Passo di Foscagno (14.6 km al 6.5% di pendenza media) la UAE inizia invece a incrementare il ritmo e accorcia le distanze dai fuggitivi riportandoli a poco più di 3 minuti. Un distacco comunque imponente, difficile da colmare. Ed è lì che all'improvviso si accende la miccia: Rafal Majka è in testa a tirare, si volta per un attimo alla sua destra e quasi non si accorge che dall'altro lato un fulmine rosa gli sta sfrecciando accanto. Nessuno accenna nemmeno un abbozzo di risposta mentre Tadej Pogacar si alza sui pedali con quell'andatura molleggiata che abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi anni. In una manciata di chilometri, su una salita non insormontabile con pendenze intorno al 6-7%, Pogacar guadagna 2 minuti e mezzo su tutti i suoi avversari. Riprende uno dopo l'altro i brandelli della fuga rimasti davanti, anche quelli che pensavano di essere a distanza di sicurezza. Nairo Quintana è l'ultimo a essere raggiunto, sulle prime rampe del Mottolino, prima che Pogacar si involi in solitaria su quel muro arrivando al traguardo con le braccia al cielo.

Dopo l’attacco, Pogacar si volta ma alle sue spalle non c’è più nessuno.

Ma ciò che impressiona più di ogni altra cosa è la facilità con la quale Pogacar ha non solo staccato i suoi avversari ma anche rifilato in un amen un distacco fuori da ogni logica. La mia generazione è cresciuta con il mito della vittoria di Alberto Contador a Verbier, quando il "Pistolero" andò a vincere con 43 secondi di vantaggio su Andy Schleck, mettendo il punto esclamativo sulla sua vittoria al Tour de France 2009. Quei 43 secondi ci avevano fatto saltare sul divano, esaltati da un distacco che in quel periodo era merce rara. L'azione di Contador a Verbier rimase per anni il metro di paragone per antonomasia, l'archetipo dell'attacco decisivo. È incredibile ora riflettere sul fatto che Tadej Pogacar, in quei pochi chilometri verso la cima del Passo del Foscagno, ha guadagnato 2 minuti e mezzo. Non contento, nel finale ha aumentato ancora il vantaggio arrivando al traguardo con 2'47” su Romain Bardet, 2'50” su Daniel Martinez e Geraint Thomas; gli altri sono arrivati tutti a oltre tre minuti, sparpagliati qua e là nella neve.

La dimostrazione di superiorità nella tappa di Livigno ha di fatto chiuso definitivamente i giochi per il Giro d’Italia, semmai ce ne fosse davvero bisogno. Pogacar ha dichiarato di aver voluto fortemente quella vittoria di tappa (la quarta in questo Giro) per il suo legame affettivo con Livigno dove si reca in inverno per allenarsi e sciare.

Finita la lotta per la maglia rosa è però iniziata una nuova fase di dibattito pubblico sulle reali intenzioni di Tadej Pogacar: si fermerà qui o continuerà a cercare vittorie di tappa? Penserà a risparmiarsi per il Tour de France o continuerà a spingere a testa bassa? Probabilmente le risposte a queste domande non le aveva quella sera nemmeno lo stesso Pogacar. Probabilmente pensava a vivere giorno per giorno, a seguire l'istinto. O forse invece aveva già in mente una pianificazione dettagliatissima delle sue prossime mosse.

Sicuramente però non aveva in mente di vincere anche la tappa successiva, quella con arrivo al Monte Pana dopo il giorno di riposo. Tant'è che aveva lasciato andare la fuga, disinteressandosi - stavolta davvero - alla vittoria di tappa. Sono state le altre squadre a ricucire il gap e a riportare sotto il gruppo. La Movistar in particolare che ha spremuto i suoi forse in vista di un attacco mai arrivato di Einer Rubio. Un segno che gli avversari ormai è come se ignorassero la sua stessa esistenza, come se Pogacar corresse in un'altra categoria.

L'attacco di Pogacar sul Monte Pana è sembrato quasi svogliato, in un certo senso obbligato dalla situazione contingente. E per questo ancor più impressionante nella sua naturalezza. Pogacar ha dato l'impressione di provare a portarsi dietro il giovanissimo Giulio Pellizzari, l'ultimo fuggitivo a essere raggiunto, ma il suo ritmo era insopportabile per chiunque pur non forzando la mano. Così, quasi per caso, forse involontariamente, è arrivata la sua quinta vittoria di tappa in questo Giro d'Italia; un bottino enorme che suggella un dominio che è parso incontrastabile per chiunque. Una sensazione che sembra essere ben chiara anche nella testa di Pogacar che a tratti è sembrato agire mosso più da uno strano senso del dovere che da una reale necessità tattica, come fosse un sovrano annoiato.

Dopo il traguardo, Pellizzari è andato da Pogacar a chiedergli gli occhiali e ha rimediato anche la sua maglia rosa.

Verso il Tour

Queste ultime tappe, con il Giro d’Italia già in tasca, probabilmente serviranno a Pogacar più per testare se stesso in vista del Tour de France che non ad accumulare ulteriori minuti di vantaggio in classifica. Certamente se dovesse presentarsi l’occasione, magari nella tappa del Monte Grappa di sabato, potrebbe approfittarne per portarsi a casa un’altra tappa ma è difficile pensare a una maglia rosa che si lancia in quegli attacchi scriteriati cui ci ha abituato in questi anni. L’obiettivo di Pogacar è adesso finalizzare quella doppietta Giro-Tour che lo proietterebbe davvero - ancor di più - nell’Olimpo del ciclismo, scrivendo il suo nome accanto agli eroi che l’hanno preceduto: Fausto Coppi, Jacques Anquetil, Eddy Merckx, Bernard Hinault, Stephen Roche, Miguel Indurain, Marco Pantani. Sette nomi, che gli appassionati ripetono a mente come una filastrocca, senza mai saltarne uno.

L’ottavo potrebbe essere proprio Tadej Pogacar. Non è scontato né sarà semplice, nonostante tutto. Dal 1998 in poi ci hanno provato alcuni dei migliori interpreti delle grandi corse a tappe dei rispettivi periodi: Alberto Contador nel 2015, Chris Froome nel 2018, Tom Dumoulin nello stesso anno. Tutti hanno fallito, per un motivo o per l’altro. Vuoi perché ci hanno provato in un momento di carriera non ottimale - come il Contador del 2015 che aveva già imboccato la fase calante della sua carriera -, vuoi perché qualcun altro si è messo di traverso, come Froome e Dumoulin che nel tentativo si sono pestati i piedi a vicenda lasciando che Geraint Thomas ne approfittasse per prendersi un’inaspettata vittoria al Tour de France.

Quell’anno Chris Froome aveva vinto il Giro d’Italia ma faticando molto più del previsto. Due cadute nelle prime tappe, per quanto leggere, e uno straordinario Simon Yates in stato di grazia l’avevano costretto a inseguire e a doversi inventare quell’impresa solitaria sul Colle delle Finestre che ribaltò la classifica generale con una fuga di 80 chilometri nella penultima tappa di montagna. Al Tour de France, Froome pagò lo sforzo e non fu in grado nemmeno di scavalcare Tom Dumoulin in classifica generale, rischiando anzi di perdere il terzo gradino del podio a vantaggio di un emergente Primoz Roglic.

Tadej Pogacar può aver imparato dall’esperienza altrui. Ha chiuso la pratica molto presto e ora si sta forse limitando a gestire, provando ogni tanto qualche cambio di ritmo, qualche forcing qua e là ma senza strafare per non gettare al vento troppe energie. Una strategia nata ben prima del Giro, perché lo sloveno si è presentato al via di Torino con soltanto 10 giorni di gara nelle gambe; pochissimi rispetto ai suoi avversari, ma anche rispetto ai vincitori del passato. Roglic, che pure aveva corso poco, nel 2023 si presentò con 14 giorni di gara; Chris Froome nel 2018 ne aveva già fatti 17 prima di arrivare al Giro. Pogacar invece ha ridotto al minimo i suoi altri appuntamenti stagionali proprio per risparmiare energie e focalizzarsi sull’allenamento, per arrivare pronto e senza troppe scorie nelle gambe sia al Giro ma soprattutto al Tour de France che partirà da Firenze il prossimo 29 giugno.

Fra il Giro e il Tour quindi Pogacar correrà pochissimo, si allenerà in altura, cercherà di recuperare il più possibile dalle fatiche del Giro - che anche se dominato comunque comporta un enorme sforzo psicofisico per un uomo di classifica che vive tutte le 21 tappe sull’attenti. Poi si presenterà a Firenze, 34 giorni dopo essersi vestito di rosa sul podio di Roma, pronto ad affrontare Remco Evenepoel, Primoz Roglic e un Jonas Vingegaard reduce da un bruttissimo infortunio al Giro dei Paesi Baschi ad aprile ma che è tornato in sella a tempo di record e sta provando ad arrivare alla Grande Boucle nelle migliori condizioni possibili.

Sarà una battaglia all’ultimo sangue, piena di insidie, in cui Tadej Pogacar dovrà affrontare avversari di un livello superiore rispetto a quelli che ha sconfitto al Giro d’Italia. Se ci dovesse riuscire, se dovesse quindi centrare la storica doppietta Giro-Tour a 26 anni di distanza da Marco Pantani, entrerebbe nella storia del ciclismo dalla porta principale. E a quel punto tutti i discorsi sul suo dominio, sui motivi reali della sua superiorità, sulla forza effettiva dei suoi avversari, diventeranno rumore di fondo prima di sparire per sempre. Relegati in un archivio che chissà forse qualcuno, come me, aprirà tra qualche anno per cercare di spiegare il presente guardando al passato con gli occhi di chi ha visto la storia compiersi.

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