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Umberto Preite Martinez
Il ciclismo sta tornando alle origini?
31 mag 2023
31 mag 2023
Il talento di van der Poel, van Aert, Evenepoel e Pogacar sembra suggerirlo.
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Umberto Preite Martinez
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IMAGO / Panoramic International
(foto) IMAGO / Panoramic International
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Parliamoci chiaro: il ciclismo è uno sport fondamentalmente noioso. Lo è in modo intrinseco e non ci sono santi che tengano, è nella sua stessa natura. Si potrebbe dire che tutti gli sport sono noiosi, il che in parte è vero, se si pensa che persino nel calcio c’è chi sostiene che 90 minuti per una partita in fondo siano troppi rispetto agli highlights su YouTube o ai reel su TikTok.La noia del ciclismo però è diversa rispetto ad altre noie sportive, perché è contemplata a priori nella struttura stessa delle corse. La maggior parte di ciò che avviene durante le gare di ciclismo non viene nemmeno mostrato dalle televisioni perché non è interessante. Potremmo dire che non succede niente, almeno televisivamente parlando, e quindi non ha senso star lì a guardare. Non è detto che la noia non la faccia da padrona anche nelle fasi conclusive, negli ultimi cinquanta o cento chilometri di una gara; fra uno scatto e l’altro o magari nell’attesa che accada qualcosa o che arrivi quella salita o quel muro o quel settore di pavé.In uno sport intrinsecamente noioso chiedersi cosa renda bella una corsa non è scontato. Per alcuni la bellezza sta nella capacità di una corsa di restare aperta e incerta fino alla fine, come la Milano-Sanremo che si decide negli ultimi 15 chilometri dopo quasi 280 chilometri di attesa. Ma gli esempi sarebbero tanti: il Giro d’Italia 2022, rimasto aperto fino all’ultimo e deciso sull’arrivo in salita nell’ultima tappa di montagna dopo tre settimane piuttosto piatte.La bellezza in questo caso sta proprio nella noia prolungata che sfocia in un’improvvisa scarica di adrenalina, confinata agli ultimi minuti della corsa. Un ideale che ben si sposa con le esigenze televisive di avere dei brevi momenti di highlights da vendere o dei momenti ben definiti di pathos su cui puntare per fare picchi di ascolti.Per altri, invece, la bellezza sta nei continui scatti, nei duelli, negli attacchi frontali dei grandi protagonisti che lottano fra loro senza mai riuscire veramente a superarsi. Ma che ci provano e ci riprovano incessantemente, con continui cambi di ritmo e ribaltamenti. A queste due tipologie di corsa se ne deve però aggiungere una terza, che forse è la più classica, almeno nel ciclismo. La fuga solitaria. Di esempi di questo tipo, di corse rimaste nella leggenda di questo sport, ce ne sono tante, soprattutto nel secolo scorso, quando le televisioni non esistevano o erano ancora nello stadio primordiale del loro sviluppo tecnologico e le corse - di conseguenza - si vivevano alla radio o il giorno dopo attraverso i racconti sui giornali di quei pochi fortunati che la vedevano coi propri occhi, sulla strada, e che poi scrivevano e narravano ciò che avevano visto, regalandoci pagine di storia dello sport e del giornalismo. ___STEADY_PAYWALL___ Oggi invece che l’appassionato si è trasformato in un telespettatore, anche il ciclismo è cambiato di conseguenza. Fernando Escartin - l’uomo che disegna i percorsi della Vuelta - ha sostenuto in un’intervista a Gabriele Gianuzzi di volere tappe corte e intense «in cui gli attacchi siano favoriti ma senza generare troppi distacchi». «Noi crediamo che al giorno d’oggi non servano sei ore di tappa, certo in alcuni casi ci può stare, ma non sempre. Pensiamo che raggruppare l’azione in tre - quattro ore massimo sia perfetto sia per gli atleti che per il pubblico. Vedere che negli anni anche il Giro e il Tour ci hanno copiato in questa direzione ci fa molto piacere e ci dice che forse stiamo andando in una direzione corretta. In generale penso che se arrivati al finale ci siano 2-3 corridori a giocarsi la vittoria, ma perché no anche 5-6 sia molto positivo perché aumenterebbe la suspense e la suspense attira grande pubblico».Questa filosofia che va incontro a quelle che sembrano essere le necessità del pubblico televisivo contemporaneo però mal si sposa quindi con l’epica classica del ciclismo e in particolare con la fuga solitaria, la sua massima espressione artistica se vogliamo. L’uomo solo al comando, per citare Mario Ferretti, che sfida solitario le montagne, i suoi avversari e i suoi stessi limiti. Non è un caso che la tappa Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia del 1949 sia universalmente considerata come la più bella di sempre, nonostante - o probabilmente proprio per questo - nessuno l’abbia vista in diretta se non i pochi giornalisti al seguito della corsa. Nemmeno, forse, Mario Ferretti che raccontava alla radio le gesta eroiche di Fausto Coppi e del suo lunghissimo volo solitario attraverso le Alpi piemontesi.

Non è solo la televisione ad aver reso il ciclismo allergico a questo tipo di impresa, ma anche la cosiddetta iperspecializzazione. Un ciclismo che si potrebbe definire scientifico, o forse sarebbe meglio dire scientificizzato. In cui ogni minimo dettaglio viene preso in considerazione, ogni situazione sezionata al millesimo fino ad avere l’outcome perfetto, infallibile. Corse fatte di attendismo e scatti nel finale. Alejandro Valverde, uno dei più grandi campioni di quest’epoca, è l’esempio più fulgido di questo periodo storico. Il prototipo perfetto del ciclista che non spreca neanche una goccia in più del necessario, che attende nascosto nell’erba alta che la sua preda faccia un passo falso per poi azzannarla in volata senza lasciarle scampo.L’obiettivo di questa strategia è cercare di risparmiare più energie possibile in vista del finale, anche se non è esente da problemi, non solo per lo spettacolo. Il principale difetto è il maggior peso lasciato all'aleatorietà. Attendere il finale va bene se si ha il ciclista più veloce e più resistente in gruppo oppure semplicemente il più resistente fra gli uomini veloci. Ma anche così, l’elemento casuale intrinseco alle volate rende questa strategia meno sicura di quanto possa sembrare a prima vista. Anche perché il tratto dove cercare la vittoria diventa più breve e quindi lo spazio di manovra molto più ridotto.È anche per questo motivo che in questi ultimi anni alcuni grandi ciclisti - per lo più giovani o comunque nuovi al ciclismo su strada - cercano altri modi per raggiungere la vittoria. Modi che per loro - per le loro caratteristiche tecniche, certo, ma anche per la quantità di talento che hanno a disposizione - sono più sicuri. E il modo più sicuro di tutti - non il più facile, sia chiaro: il più sicuro - è quello di andar via dalla media distanza, staccare tutti e arrivare al traguardo da soli. In una specie di ritorno al ciclismo eroico.L’impressione che si stia passando a un’altra epoca deriva anche dal ricambio dei suoi protagonisti. In questi anni si stanno ritirando uno dopo l’altro tutti i grandi protagonisti dello scorso decennio. Da Vincenzo Nibali a Philippe Gilbert passando per Alejandro Valverde e Tom Dumoulin, sono tanti i grandi campioni che hanno segnato l’epoca più recente del ciclismo contemporaneo che si sono già arresi allo scorrere del tempo. Altri - come Mark Cavendish e Peter Sagan - hanno già annunciato che questa sarà la loro ultima stagione in gruppo; altri ancora invece si avviano lentamente al tramonto delle loro carriere, come Nairo Quintana e Chris Froome.Alcuni di questi ciclisti non sono nemmeno così vecchi: Peter Sagan è del 1990, così come Thibaut Pinot e Tom Dumoulin che si è già ritirato l’anno scorso per motivi più psicologici che fisici. Le carriere di tanti di questi ciclisti nati nei primi anni Novanta - schiacciati tra la generazione degli anni Ottanta e le nuove leve - sono rimaste come compresse: si potrebbe dire mai veramente sbocciate a pieno nonostante le vittorie e le soddisfazioni che sono riusciti a togliersi. Hanno potuto approfittare per un breve lasso di tempo di un piccolo vuoto di potere quando i più vecchi hanno fisiologicamente tirato i remi in barca. Ma poi sono arrivati i giovani, che a volte giovani non sono ma lo sembrano, perché sono talmente estranei a quel mondo da sembrare di un’altra generazione.È la cosiddetta generazione di fenomeni del ciclismo: Tadej Pogacar, Mathieu van der Poel, Wout Van Aert, Remco Evenepoel. Alle loro spalle poi ci sono i vari Tom Pidcock, Arnaud De Lie e via dicendo: ciclisti in grado di tenere testa a quei quattro, almeno fino a un certo punto, ma che con loro condividono uno stesso stile, la stessa mentalità nell’approcciarsi alle corse e - soprattutto - nel ricercare la vittoria.Van der Poel contro Van AertCome detto, non tutti questi ciclisti fanno parte della stessa generazione. Van Aert e Van der Poel sono invece ancora Millennials, nati nella prima metà degli anni Novanta (rispettivamente 1994 e 1995). Molto prima dei Gen Z come Pogacar, Evenepoel e Pidcock, tutti nati dal 1998 in poi ed esplosi giovanissimi.Van Aert e Van der Poel però sono arrivati al ciclismo su strada più o meno in contemporanea rispetto ai loro più giovani colleghi perché entrambi hanno dedicato buona parte della loro esistenza al ciclocross, specialità di cui sono gli assoluti padroni da ormai quasi un decennio. Sono arrivati con prepotenza nel ciclismo su strada nel biennio 2018-2019: prima Van Aert, poi il rivale Van der Poel. Se l’impatto di Van Aert è stato più morbido all’inizio prima di diventare mostruoso da un punto di vista della completezza, quello di Mathieu van der Poel è stato un avvio folgorante solo in seguito normalizzato nella sua specificità tecnica. Van Aert è un ciclista che sa fare praticamente tutto, forte in volata, fortissimo a cronometro, va alla grande sul pavé, si difende sulle grandi montagne. Non a caso è l’uomo perfetto per accompagnare Jonas Vingegaard al Tour de France, visto che da solo riesce a ricoprire due o tre ruoli insieme. Van der Poel è invece un ciclista che sa fare poche cose ma molto bene: va fortissimo sul pavé, è devastante sui brevi strappi tipici delle corse del Nord, velocissimo negli arrivi con volata ristretta. Però sulle salite lunghe non va e a cronometro non ci si è mai dedicato molto. Il risultato è un ciclista meno completo, in generale, ma più specializzato su quelle cose su cui ha deciso di basare la sua carriera su strada.Quello che però hanno fatto entrambi è stato cambiare il canovaccio tattico delle corse, rendendo non solo possibile ma consigliabile ciò che prima di loro era considerato impossibile. L’esempio più classico è la vittoria di Van der Poel all’Amstel Gold Race 2019. Nel finale della classica olandese erano da soli in testa Jakob Fuglsang e Julian Alaphilippe che erano stati bravi a scappare via dal gruppo dei migliori. La coppia di testa era ampiamente in vantaggio, tanto che la vittoria di uno dei due sembrava scontata fino a un paio di chilometri dal traguardo.Questo perché nonostante il vantaggio non fosse così immenso, di solito in queste situazioni è molto difficile che dietro si riesca a trovare il modo di organizzare un inseguimento ben fatto, prolungato e costante. Invece, complice anche il rallentamento della coppia al comando, da dietro Van der Poel ha iniziato a tirare il gruppo senza curarsi di chi si sarebbe portato dietro a ruota, con il solo obiettivo di ricucire lo strappo. Come una locomotiva di un treno malconcio, Van der Poel si è messo davanti mentre i piccoli vagoni del trenino che cercavano di stargli a ruota si allungavano e in parte perdevano contatto.Nessuno sa esattamente come sia successo. Van der Poel sul Cauberg aveva un minuto di ritardo e mancava poco all’arrivo. Non inquadrato dalle telecamere, se non per qualche sporadico secondo, Van der Poel aveva deciso che era il momento di partire. Probabilmente informato del fatto che davanti erano saltati tutti gli accordi e quindi c’era ancora qualche speranza.Come una pallina di neve che rotola sul fianco della montagna, Van der Poel era partito trascinandosi dietro tutto quello che incontrava. Alla sua ruota un giovane Bjorg Lambrecht (che purtroppo morirà pochi mesi dopo durante una tappa del Giro di Polonia). I due insieme vanno a riprendere tutti quelli che avevano provato a sganciarsi nell’inseguimento solitario: Bardet, Mollema, Trentin, Simon Clarke. Uno dopo l’altro, come le briciole di Pollicino. E come Pollicino, Van der Poel li raccoglie tutti e alla fine li vede, là davanti, sul rettilineo: Alaphilippe, Fuglsang e Kwiatkowski che rientra e ci prova in contropiede.Normalmente in questi casi dal gruppetto inseguitore qualcuno dovrebbe lanciarsi, sacrificarsi per gli altri. Condannarsi alla sconfitta per provare a chiudere quell’ultimo buco e lanciare la volata disperata. Ma ai quattrocento metri parte invece Mathieu van der Poel che lancia lo sprint più lungo della sua carriera. Davanti, Alaphilippe lo vede e anche se non è il momento giusto parte anche lui. Ma Van der Poel è sempre più vicino, è lì attaccato. Lo affianca, lo passa e lo lascia lì, secco, senza fiato, senza parole, senza speranze.Con Simon Clarke incollato alla sua ruota, Mathieu van der Poel, 29 anni dopo suo padre Adri, vince la “sua” Amstel Gold Race. Lo fa tagliando il traguardo senza avere la forza di alzare le braccia, una mano sul manubrio, l’altra a tenersi la testa perché non ci crede nemmeno lui e sembra urlare a se stesso e agli altri la sua incredulità. Dopo il traguardo si butta a terra, distrutto dopo aver compiuto una delle più grandi imprese ciclistiche di questo secolo. Un’impresa che ha cambiato, come dicevamo in precedenza, la concezione tattica delle classiche del Nord rendendo possibile l’idea di lanciarsi in un inseguimento più o meno solitario senza fare troppi calcoli, senza la paura di perdere a congelare ogni possibile mossa.

“He was out of it, he was finished, he was done, it was never ever supposed to happen”. Una di quelle telecronache che rimarranno nella storia di questo sport così come l’evento a cui è legata.

Un’altra gara-simbolo di questa nouvelle vague del ciclismo è il Giro delle Fiandre 2020 di cui avevamo parlato a suo tempo. È forse il primo grande duello fra Van Aert e Van der Poel ad alti livelli su strada ma è anche il momento in cui appare chiaro che il Giro delle Fiandre, ma non solo quello, è a un punto di svolta. È vero che il Giro delle Fiandre, come anche in generale le corse sul pavé, è sempre stata una cosa molto difficile da interpretare e che poteva risolversi anche in situazioni imprevedibili; ma è anche vero che quelle che prima erano situazioni appunto imprevedibili e sorprendenti, adesso sono la normalità. Da quel 2020 in poi non solo non ci stupiamo se la corsa esplode molto lontano dal traguardo ma è esattamente ciò che ci aspettiamo che avvenga.In parte perché questi nuovi campioni hanno la capacità fisica di sopportare sforzi prolungati di quel tipo e hanno delle grandi doti di recupero nel breve termine. In parte però anche perché tatticamente è per loro conveniente far saltare in aria la corsa molto lontano dal traguardo per evitare di rimanere invischiati in complessi giochi di squadra o di strategia, come alla Gand-Wevelgem 2020 corsa una settimana prima di quel Fiandre.In più, il Giro delle Fiandre presenta un’altra caratteristica fondamentale che l’ha resa terreno fertile per queste che possiamo considerare delle sperimentazioni: i muri in pavé in stradine strette e tortuose. Quando si è in gruppo, per prendere i muri in pavé in testa le squadre si impegnano per portare avanti i propri capitani che devono quindi limare in gruppo per portarsi davanti. Una dinamica che porta un grande dispendio di energie oltre a tanti rischi viste le alte velocità, le strade strette, il nervosismo e il fatto che tutti vogliono star davanti anche se non c’è spazio.Quando si è in fuga, invece, si possono prendere i muri con il proprio ritmo, senza doversi spremere prima per arrivarci in testa. I rischi sono minori, la fatica mentale è praticamente nulla e sommando tutti i fattori alla fine è meno faticoso così. Inoltre, le strade strette e tortuose non consentono di sfruttare a pieno la squadra per organizzare un inseguimento nei confronti di chi è in fuga rendendo molto complicata la gestione della gara da un punto di vista tattico.Attaccare da lontano, anticipare e andar via da soli o in un piccolo gruppo di selezionati atleti, è quindi l’opzione che questi nuovi fenomeni del ciclismo hanno adottato per ovviare a questi problemi tecnici. Una volta davanti, poi, per gli avversari è praticamente impossibile andare a chiudere,per le caratteristiche del percorso ancor prima che per la forza disarmante di questi ciclisti.Non è un caso quindi che il Giro delle Fiandre sia diventato per questi ciclisti la corsa per eccellenza, quella che sembra disegnata su misura per le loro caratteristiche e il loro stile di gara. Non è un caso, ancora, che da due anni a questa parte anche il terzo attore protagonista di questa nuova stagione del ciclismo abbia deciso di puntare con forza sul Giro delle Fiandre come terreno scelto per sfidare i due fenomeni del ciclocross.Arriva PogacarSi tratta dello sloveno Tadej Pogacar, classe 1998 con già un podio alla Vuelta nel 2019, due Tour de France vinti nel 2020 e 2021, la Liegi-Bastogne-Liegi portata a casa nel 2021 e la doppietta al Giro di Lombardia nel biennio 2021-2022. Un palmares di tutto rispetto, che già così lo proietta su un piano che è totalmente estraneo alla quasi totalità dei ciclisti del nuovo millennio. Non contento, Pogacar ha deciso nel 2022 di ampliare il suo ventaglio di classiche primaverili aggiungendo, fra le altre, la Milano-Sanremo e il Giro delle Fiandre.Alla Milano-Sanremo si è però scontrato contro un percorso inadeguato alla sua idea di mondo. La Classicissima è ormai una corsa paralizzata nell’attesa del Poggio, salita con pendenze più che abbordabili che fa selezione solo se presa in un determinato modo e solo perché arriva dopo quasi 300 chilometri di gara. Pogacar ha provato nel 2022 a piegare il percorso della Sanremo alla sua necessità di giocare all’attacco: ha quindi messo la squadra a fare il forcing sulla Cipressa per poi attaccare sulle prime rampe del Poggio ma senza riuscire a fare la differenza come avrebbe voluto. Nel 2023 ha invece deciso di adattarsi al contesto, rassegnato all’idea che nella attuale Sanremo è praticamente impossibile inventarsi qualcosa di diverso dal solito. Ha posticipato l’attacco sul Poggio, riuscendo a portar via il quartetto da cui poi è evaso Mathieu van der Poel per andare a prendersi la vittoria in solitaria sul traguardo di Via Roma. La Milano-Sanremo quindi ancora sfugge dalle mani di Pogacar, ma è pur vero che è quasi impossibile controllare il finale di quella corsa; difficilissimo gestire la randomicità di quei momenti, pochi attimi in cui si decide tutto senza possibilità di correggere o sistemare eventuali errori.

Alla Sanremo 2022 Pogacar parte a 2.7 km dallo scollinamento del Poggio senza riuscire a fare la differenza. Nel 2023 invece è scattato a 1.4 chilometri, dopo aver sfruttato il lavoro di Tim Wellens e favorito dal buco alle sue spalle aperto da Matteo Trentin

Il Giro delle Fiandre invece è l’esatto opposto. Una corsa che fornisce ai suoi campioni terreno fertile per provare qualsiasi cosa in qualunque momento. Non esiste un canovaccio standardizzato e inscalfibile. E così Pogacar si presenta al Fiandre 2022 con lo stesso approccio della Milano-Sanremo: attaccando come un disperato in ogni momento. Stavolta però resta solo con Van der Poel che poi lo intorta in una volata strana in cui da dietro rientrano Madouas e Van Baarle a soffiare anche il podio allo sloveno.Quello che però dimostra il Fiandre 2022 è che quella è la corsa in cui poter fare tutto, in cui potersi inventare situazioni nuove, in cui poter sperimentare nuove strategie e spingere sé stessi e il ciclismo verso nuovi limiti.Per questo motivo il Giro delle Fiandre 2023 era così atteso: si trattava finalmente dello showdown, il momento della verità fra questi tre enormi campioni. Tre ciclisti di simile grandezza ma con caratteristiche fisiche completamente differenti che si ritrovano a sfidarsi nella stessa corsa, come avessero scelto come luogo dello scontro il terreno che potesse essere adatto a tutti e tre.C’è da dire che, a guardare le sfumature, il Giro delle Fiandre è più adatto a Mathieu van der Poel rispetto agli altri due tenori. Questo perché l’olandese ha uno scatto bruciante sugli strappi brevi, è molto esplosivo e questa cosa ben si adatta ai muri del Fiandre. In più, Van der Poel ha forse più degli altri due la capacità di recuperare fra uno sforzo e l’altro all’interno della stessa corsa e quindi riesce meglio di altri a effettuare più attacchi uno dopo l’altro, un muro dopo l’altro. La terza caratteristica è la sua incredibile padronanza del mezzo che si traduce in una capacità unica di far scorrere la bici sul pavé, di trovare sempre la posizione migliore per affrontare le pietre e di conseguenza risparmiare energie preziose. Come se non bastasse, poi, Van der Poel ha sempre dimostrato di essere il migliore dei tre sugli sprint ristretti, quelli in cui si parte quasi da fermi e si deve quindi accelerare bruscamente in uno spazio molto ristretto. Wout Van Aert, a differenza del rivale, è meno esplosivo nello scatto secco ma ha maggiori doti sul passo che lo rendono più adatto a correre su salite leggermente più lunghe in cui poter fare la differenza con uno sforzo costante e prolungato. Di conseguenza è anche il più forte dei tre nello sprint lanciato ed è anche tosto da distanziare perché torna sempre sotto in progressione se il terreno gli offre questa possibilità.Se però fra Van der Poel e Van Aert, con tutte le differenze del caso, riusciamo facilmente a trovare somiglianze chiare ed evidenti, Tadej Pogacar ci proietta invece in un altro mondo. Lo sloveno viene dai grandi giri, è uno scalatore - o per meglio dire un passista-scalatore come spesso vengono definiti questo genere di corridori capaci di andar forte in salita grazie anche alle loro doti sul passo, per l’appunto.Pogacar è un ciclista da grandi corse a tappe che sa anche gestirsi molto bene nelle classiche. Diverso rispetto sia ai grandi passisti-scalatori alla Froome sia rispetto ai ciclisti come Contador. A dirla tutta, un tipo di ciclista che negli ultimi anni si era visto molto raramente e di certo mai a questi livelli. Per trovare qualcosa di simile bisogna forse tornare a Gianni Bugno o ancora meglio a Laurent Fignon: ciclisti che ormai appartengono ad altre epoche storiche.Come Fignon, anche Pogacar è esploso giovanissimo vincendo il Tour de France a 22 anni e poi facendo il bis l’anno successivo. Entrambi avevano grandissime doti in salita, molto simili anche fisicamente, entrambi capaci di far bene anche nelle classiche e a cronometro - per quanto possa sembrare paradossale visto che parliamo di uno che ha perso due grandi giri per colpa di due cronometro. Ma Fignon non andava piano in quella specialità, basti pensare che al Tour del 1984 vinse tutte e tre le crono individuali (escluso il prologo) contro Bernard Hinault che alla fine fu secondo a oltre 10 minuti in classifica generale.Le somiglianze purtroppo si interrompono qui perché la carriera di Fignon fu funestata dagli infortuni. Pogacar invece può in un certo senso portare a termine quella realizzazione definitiva che mancò al francese. Le caratteristiche di Pogacar sono molto particolari e molto diverse rispetto agli altri due protagonisti: è molto più snello e leggero, ha meno potenza vera e propria ma riesce comunque ad essere esplosivo sullo scatto secco e abbastanza veloce in volata ristretta (per quanto su questo aspetto è ovviamente nettamente inferiore ai due rivali).Se il Lombardia e la Liegi sembravano naturalmente alla sua portata (sono due corse che da sempre si sposano bene alle caratteristiche degli uomini da grandi giri perché presentano salite più lunghe e meno frequenti rispetto alle altre classiche), quando ha deciso di affrontare il Fiandre in tanti hanno storto il naso: troppo leggero per affrontare le pietre, troppo disabituato a guidare la bici in quelle condizioni, troppo inesperto per muoversi in gruppo su quelle stradine. Invece Pogacar già nel 2022 ha dimostrato di saperci fare sulle pietre: ha uno stile molto particolare nell’affrontare i settori in pavé, sempre nel mezzo della schiena d’asino, non cerca quasi mai le canaline a bordo strada. Un po’ per non rischiare, un po’ perché forse la sua statura fisica è più adatta alle pietre che al fango. Smarcato il problema della guidabilità sulle pietre, ha risolto il problema dello stare in gruppo nelle stradine strette lanciandosi all’attacco da lontano, sgretolando il gruppo e distruggendo così sul nascere ogni preoccupazione di sorta.

Pogacar affronta il pavé a centro strada mentre Van Aert e altri alle sue spalle cercano la canalina laterale per evitare le pietre.

Il problema della potenza però rimaneva: dovendo agire da seduto ed essendo lui più abituato a scattare alzandosi sui pedali, la sua azione perdeva di efficacia contro Van der Poel che invece ha una stazza diversa e la capacità di esprimere molta più potenza restando seduto sul sellino. Problema che faceva pensare che in fondo la sua missione di vincere anche il Giro delle Fiandre fosse un’impresa impossibile. Invece, come nelle peggiori commedie sportive americane, Tadej Pogacar è riuscito a staccare tutti anche sulle pietre andando a vincere il Giro delle Fiandre 2023. Ci è riuscito dopo una corsa che è stata contemporaneamente un lunghissimo inseguimento e un lunghissimo attacco da lontano. Ha saputo sfruttare le caratteristiche dei suoi due avversari per riavvicinarsi al gruppetto in fuga riuscendo a trovare la collaborazione di tutti prima di sferrare l’attacco decisivo sull’ultimo passaggio sull’Oude Kwaremont e andar via da solo.Una vittoria che ancora una volta ha acceso dibattiti e domande: abbiamo sbagliato finora a seguire il dogma della specializzazione? O forse è solo Tadej Pogacar che è talmente forte da riuscire - da solo - a spezzare queste catene? Pogacar è sembrato far invecchiare in un attimo tutti i discorsi sull’iperspecializzazione che continuavano a imperversare nel dibattito ciclistico. Portato all’estremo a cavallo dei Novanta e Duemila, questo concetto aveva creato una nettissima distinzione fra gli uomini da classiche e uomini da corse a tappe, e anche all’interno degli uomini da classiche un’altra distinzione fra pavé e non pavé.L’obiettivo di questo approccio positivista e iper-razionale al ciclismo era di concentrare le energie di ogni ciclista su un piccolo ventaglio di corse molto specifiche su cui incentrare la preparazione. Da Armstrong che correva praticamente solo il Tour de France per sparire prima e dopo, siamo passati a Tom Boonen che per buona parte della sua carriera è esistito solo in quei due mesi di classiche del Nord o ancora Alberto Contador che nella sua vita non ha mai neanche pensato di provare a vincere una classica nonostante probabilmente avesse i mezzi per farlo. Già in passato c’era chi rompeva questo schema, come Vincenzo Nibali e in parte anche Alejandro Valverde, ma sempre limitandosi - per così dire - a ciò che si pensava fattibile. Mosche bianche, in ogni caso. Anche lo stesso Sagan, che da giovane aveva le caratteristiche per essere competitivo su praticamente tutti i terreni, venne plasmato e trasformato in un ciclista da pavé e volate, magari aumentando il suo numero di vittorie complessivo ma di certo limitandone lo sviluppo della carriera.Il talento di Pogacar, il suo dominio su tutti i terreni, ha fatto immediatamente sembrare vecchia questa concezione. E oggi, mentre ci aspettiamo nuove eroiche battaglie tra questi tre ciclisti, l’iperspecializzazione ci appare come un relitto del passato, relegata ai ciclisti meno talentu

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