A un adolescente appassionato di calcio capita sempre quel momento in cui incrocia per caso il filmato di una vecchia partita, o sfoglia per la prima volta quei polverosissimi libroni su cosa succedeva nel mondo del pallone prima che fossimo in grado di intendere e di volere. Quei momenti in cui si scopre l'ovvio che poi tanto ovvio non è: che c'era una volta una grande squadra di nome Foresta di Nottingham, che una volta l'Italia ha vinto i Mondiali con un portiere di quarant'anni, o che un'altra volta siamo stati eliminati dalla Corea del Nord!
Alcune cose non tornano, inquadrate con la lente della modernità. Prendiamo per esempio la partita del secolo, Italia-Germania 4-3: come mai giocatori così forti e già abbastanza divi, alcuni persino timidi testimonial delle prime pubblicità, esultavano in modo così banale, tutti uguali, abbracciandosi per un po' prima di trotterellare tutti insieme a centrocampo, al limite alzando le braccia al cielo con una robusta percentuale di goffaggine, come comparse di una candid camera?
Diamine ragazzi, avete segnato il gol del secolo – nemmeno una cucaracha, un boogie-woogie, un ballo del mattone?
Com'è giusto che sia da quando il postmoderno ha definitivamente trionfato, in fatto di esultanze calcistiche il Ventunesimo Secolo ha aperto i battenti a una contaminazione selvaggia, dal wrestling a Fortnite, fino a spettacolini one-shot mai più ripetuti come quando Cristiano Ronaldo mostrò gli addominali dopo un gran gol al Manchester United, prima di lasciar perdere perché il gesto forse era sembrato un po' cafone.
Anni fa ci siamo sollazzati sui social con le bizzarre esultanze degli islandesi dello Stjarnan (la preferita di chi scrive è certamente quando fanno finta di pescare un grosso salmone), degnissimi eredi di una tradizione importata dal Sudamerica, come il viaggio di Colombo al contrario: negli anni Ottanta dai televisori accesi in sala da pranzo piovvero le capriole un po' artigianali stile ora di educazione fisica di Hugo Sanchez e poi quelle in versione più acrobatica di Tino Asprilla, le danze attorno alla bandierina di Juary e le pose da statua rinascimentale di chi la bandierina la impugnava fiero come Gabriel Batistuta. Dopo di loro, il diluvio. Perciò, visto che da qualche anno esiste un premio FIFA per il gol più bello ed è intitolato a Ferenc Puskas, noi proporremmo umilmente di crearne uno analogo anche per la miglior esultanza. E intitolarlo a Miguel Angel Guerrero.
Milano, 1994
Il 16 ottobre 1994 non è un giorno come gli altri. Intanto, perdono tutte insieme l'Inter, il Milan e la Juventus – e tutte e tre largamente favorite alla vigilia: la Juve di Lippi perde 2-0 a Foggia giocando molto male, con l'ombra di un gol-fantasma concesso al foggiano Bresciani anche se forse il pallone è stato abbrancato da Peruzzi prima che superasse la linea di porta. Il Milan di Capello campione d'Europa perde 2-0 addirittura a Padova contro una squadra che ha totalizzato un punto nelle prime cinque giornate, colpisce due pali, rimane in dieci, un disastro. E l'Inter perde in casa contro il Bari, che nelle sue precedenti ventidue gite a San Siro contro i nerazzurri aveva rimediato sei pareggi e sedici sconfitte, tra cui un 9-2 nel 1938 e un 9-1 nel 1948. Ci saranno solo quattordici “13” al Totocalcio e ognuno vincerà la bellezza di 960 milioni di lire a testa. Ma non è la circostanza più divertente del pomeriggio.
Al momento di uscire dall'hotel di Milano per andare allo stadio, i giocatori del Bari ricevono una sgradita sorpresa: il pullman ha avuto un guasto improvviso e bisogna chiamare una decina di taxi, caricare nel bagagliaio borsoni e tutto e fare questa figura barbina di arrivare alla Scala del calcio come si arriva al calcetto del giovedì, con una macchinata e sperando che non ci sia traffico. È una squadra giovane, zeppa di esordienti in serie A: Bigica, Manighetti, Amedeo Mangone, Ricci, Gautieri, Pedone, Igor Protti. Li allena Giuseppe Materazzi, ancora ignaro che suo figlio – quel pomeriggio in panchina durante Ischia-Trapani di serie C1 – diventerà l'idolo di quello stesso pubblico a cui stanno per far passare una brutta giornata. Il pezzo pregiato del mercato dovrebbe essere questo centravanti colombiano, appunto Guerrero, che è arrivato in estate dall'Atletico Junior, società di Barranquilla che ha trascinato a un clamoroso titolo nazionale segnando 34 gol in campionato.
Ma il ct dei "Cafeteros", il grande Paco Maturana, non lo ama e non lo ha portato a USA '94, risparmiandogli di partecipare a quella tragica avventura che farà morti e feriti, e non solo in senso figurato. Insomma Guerrero, privo della classica vetrinetta internazionale, è costato molto meno del previsto e il direttore sportivo Carlo Regalìa è convinto di aver fatto l'affare: è volato a Barranquilla su segnalazione di un tifoso barese che vive in Colombia e ha bruciato sul tempo una società messicana anche lei interessata al “Niche” (“il nero”). I suoi idoli sono Vialli e Van Basten, la serie A è un sogno. Ma l'inizio è complicato: a Guida al Campionato il pendolino di Maurizio Mosca aveva previsto un suo gol alla Juventus alla seconda giornata, ma lui sbaglia un rigore. Due settimane dopo a Padova ne sbaglia un altro, alimentando il sospetto che non sia un esempio di sangue freddo. È destinato a passare alla storia del Bari non per quello che fa in campo la domenica, ma per quello che sta provando insieme ai compagni durante la settimana.
Quando si vede costretto a salire su un taxi per andare a scoprire San Siro, Guerrero non fa una piega. È abituato ai disagi del viaggiatore: è arrivato in Italia partendo da Bogotà, dov'è stato derubato di un borsello contenente duemila dollari; poi ha fatto scalo a Caracas, dove non gli hanno caricato i bagagli per Venezia, dov'è finalmente sbarcato per raggiungere i suoi nuovi compagni a Mezzano di Primiero (Trento), sede del ritiro barese. Perciò ogni posto nel mondo è casa sua, compreso il terreno di gioco dello Stadio Giuseppe Meazza, e ci mette 70 secondi per diventare il ras del quartiere. Gautieri scappa a destra e mette in mezzo un pallone trattato malissimo da Beppe Bergomi, con una sufficienza davvero sorprendente per l'irreprensibile Zio: assist involontario per Guerrero che tira una bordata a occhi chiusi sotto l'incrocio, con Pagliuca già sdraiato verso il palo opposto.
Dennis Bergkamp avrebbe una buona occasione per pareggiare, ma viene murato in scivolata da Amedeo Mangone, alla sesta partita da titolare in A, non ancora gratificato del soprannome di “Thuram bianco” che riceverà a Bologna dal suo futuro presidente Gazzoni Frascara, perché a riposo porta gli occhialini da intellettuale come il difensore guadalupense. San Siro assiste speranzoso allo scorrere dei minuti, pensando che più si va avanti e più il Bari si rassegnerà a farsi assediare; ma invece quelli vanno come ossessi e proprio Guerrero ha l'occasione della doppietta a San Siro, con un sinistro che si stampa in pieno sul palo. Finché, sull'ennesima sgroppata a destra di Gautieri, arriva il cross fatale incornato di testa dal Cobra Tovalieri, attaccante di provincia ma di squisita fatta. E quello è il momento.
“Quell'esultanza l'avevo già sperimentata in Colombia qualche volta”, dirà sempre Guerrero nelle tante interviste nostalgiche a cui si è sottoposto negli anni, ogni volta svelando un dettaglio in più. «Abbiamo dovuto lavorarci su parecchio», gli farà eco Tovalieri, «perché all'inizio era piuttosto complesso capire qual era la giusta posizione di gambe e braccia. Finalmente dopo tre mesi siamo riusciti a proporlo».
Il trenino diventa incredibilmente uno strumento di instant marketing, subito notato e commentato da tutti gli opinionisti di gran pregio. «Il Bari ha presentato il festoso trenino dei giocatori carponi alla cagnolino», riflette Gian Paolo Ormezzano su La Stampa: «Stavolta, però, nessuno ha avuto l'idea di alzare la gambetta a simulare la minzione: progresso o regresso?». Altri invece parlano di “danza colombiana”, benché gli studi etnologici sulla Colombia non ne facciano menzione.
Le giornate passano e, anche se Guerrero accumula più panchine che partite, il trenino viene portato avanti dalla più memorabile coppia-gol della storia del Bari: Protti e Tovalieri, Igor e il Cobra, concentrato di tecnica, destrezza, classe e senso del gol. Certe volte il Bari esagera, vittima dell'entusiasmo: a Brescia il trenino parte dopo un autogol di Baronchelli che tutti hanno scambiato per gol di Protti e deve intervenire l'arbitro Collina a redarguirli, che non sta bene esultare così per lo svarione di un avversario. E riparte ancora a Genova, a Roma contro la Lazio, di nuovo a Milano contro i rossoneri vicecampioni d'Europa alla penultima giornata (e fanno sei punti a San Siro per la prima e unica volta nella storia del club). E poi dilaga dappertutto, porta entusiasmo al San Nicola, in Italia e nel mondo, sembra quasi uscire dallo schermo come la locomotiva dei fratelli Lumière e diventa virale quando ancora l'aggettivo virale viene pronunciato solo dai dottori con aria grave e accigliata.
«Ai tempi dei Giochi del Mediterraneo 1997», gli chiede il giornalista, «c'era la Macarena e tutti cantavamo “eh vai Guerrero vai Guerrero vai Guerrero”. Tu te lo ricordi questo?». Guerrero sorride: «Sì, me lo ricordo».
Roma, 1997
Nel 1996 Igor Protti diventa il primo e ultimo capocannoniere della storia della serie A a essere retrocesso nello stesso anno: segna 24 gol ma il Bari di Fascetti abbandona la compagnia, in attesa di ritornarci l'estate successiva. Contributo alla causa di Guerrero rivedibile: otto partite, un gol. Protti è troppo forte per giocare in B e infatti lo compra la Lazio di Zeman, con cui però si prende poco e niente: tanto silenzioso e laconico è il Boemo, tanto ciarliero è Igor, uno degli oratori più raffinati che sia mai capitato di vedere sui campi italiani.
Zeman viene esonerato a gennaio e gli subentra Dino Zoff che non è molto più loquace, ma inizia a dare spazio a Protti in una striscia di risultati positivi per la squadra ma non per lui, che a metà aprile è ancora fermo a una rete soltanto. Ma poi, come spesso accade, i gol escono tutti insieme come la maionese dal tubetto: tripletta alla Reggiana, alla vigilia del derby di ritorno contro una Roma dodicesima in classifica, che aspetta con impazienza l'unica partita che può salvare la stagione dopo la sostituzione di Carlos Bianchi con l'antico Nils Liedholm.
Il 4 maggio 1997 Protti parte dalla panchina, arma da lanciare nella ripresa al posto di uno tra Signori e Casiraghi. La Lazio è più forte ed è in piena zona UEFA, ma la Roma, che non vince un derby da quasi tre anni, gioca alla morte e passa in vantaggio con un gol di rimpallo di Balbo che non si capirà mai se ha superato la linea di porta o no. A metà ripresa Zoff sfida il popolo biancoceleste togliendo Beppe Signori, che non giocherà mai più un derby. Entra Protti, ma dopo quattro minuti l'espulsione di Favalli sembra far calare il sipario. Invece c'ha ragione Liedholm, “in dieci si joca meglio”, specialmente se quello in undici – lui – manda in campo Bernardini e toglie il migliore in campo, Francesco Totti. E allora la logica perde con la disperazione: a crossare ci va Casiraghi (!), la sponda di testa la fa Rambaudi e Protti si allunga da vero predatore dell'area perduta per anticipare Cervone e ammutolire tre quarti d'Olimpico.
Per qualche motivo che afferisce alla sfera dell'inconscio, come per una gioiosa regressione all'infanzia, il primo pensiero di Protti dopo aver pareggiato un derby al 90' è il trenino: sotto la Sud, subito imitato da Paolo Negro (che non immagina la sorte che gli toccherà, in un derby di qualche anno dopo...). Il trenino deraglia subito felicemente, travolto dall'abbraccio dei giocatori e della panchina, ma rimane uno degli episodi più felici di quegli anni di Lazio dimessa, appena prima dell'ondata di campioni, coppe e miliardi di fine Novanta. A fine partita, davanti al bancone della sala stampa dietro a cui un Liedholm affranto sta snocciolando i motivi della brutta giornata, si presenta non si sa come Gabriele Paolini, il disturbatore della televisione, che gli porge un preservativo srotolandoglielo sul tavolo. Il vecchio Barone ascolta in silenzio il suo appello alla prevenzione a favore di telecamere, poi lo guarda e lo gela: «Grazie, ma non lo uso più».
E Protti? Andrà via a fine stagione, diventando re a Livorno dopo una brutta parentesi a Napoli. E tornerà a guidare il trenino per festeggiare una rete in casa contro il Lecco nel gennaio 2001: un gol qualunque di una stagione di serie C qualunque, ma tremendamente importante per chi vive il calcio come un bambino che gioca sul tappeto di casa.
Lecce, 2015
Come il nano di Amélie, come un ordigno della Seconda Guerra Mondiale che si scopre ancora inesploso, il trenino riappare in luoghi inconsueti, a volte un po' desolati e desolanti come può esserlo lo stadio Via del Mare di Lecce in un posticipo di Lega Pro del lunedì sera disposto per esigenze televisive (ma le esigenze di chi?). Il 7 settembre 2015 la Fidelis Andria sta già vincendo per 2-1 quando, in pieno recupero del secondo tempo, le viene concesso un calcio di rigore. Si presenta a tirare Nicola Strambelli, nato a Bari, cresciuto nel vivaio barese, 20 presenze e un gol in serie B con il Bari, 27 anni compiuti il giorno prima. Facendo un rapido calcolo, nel 1994 aveva sei anni e si sa che a quell'età certi modelli di comportamento vengono assorbiti come spugne. Strambelli si cimenta in un beffardo cucchiaio e vi aggiunge lo sberleffo supremo ai cugini leccesi: per l'appunto, il trenino. I locali non la prendono troppo bene.
Quando Liverani proverà a portarlo a Lecce nel mercato di gennaio del 2018, intendendo magari regalargli un ruolo da protagonista nel doppio salto fino alla serie A, dal gorgo del web riemergerà il trenino dell'infamia e Strambelli resterà a Matera, passando le sue domeniche pomeriggio in serie C a fischiettare “Non, je ne regrette rien”. Ad ogni modo, in tutto il parapiglia che si è generato quella notte, passa inosservato il nome del marcatore del secondo gol dell'Andria: Francesco Grandolfo.
Bari, 2010
Qualche anno dopo Gazzoni Frascara, anche Fabio Capello cedette alla tentazione che coglie tutti i Grandi Vecchi di ogni mestiere: diventare mentori, prevedere il futuro e segnalare per primi il talento nascosto, fin lì sempre sfuggito agli occhi della gente normale. “Mi ricorda un Thuram bianco”, disse di un difensore centrale della Primavera della Juventus, credendoci talmente tanto – lui così refrattario ai giovani – da farlo esordire nella mezz'ora finale di uno Juve-Inter di campionato. Quella sarà l'unica presenza in bianconero di Andrea Masiello, che ritroviamo nel 2010 in uno dei suoi giorni più felici, perché quasi tutti i bambini a un certo punto sognano di fare il capotreno.
È l'ultima giornata dello splendido campionato del Bari di Gian Piero Ventura, arrivato addirittura decimo con un gioco spettacolare e tanti scalpi illustri, dalla Juventus alla Lazio, oltre a due pareggi con l'Inter di Mourinho. È un pomeriggio di primavera insolitamente autunnale, riscaldato dal rumore di ferraglia di un quel convoglio entusiasmante che parte a un segnale convenuto alla fine di un 2-0 alla Fiorentina, segnatamente dopo il secondo gol di Rivas: il cielo è grigio ma sembra azzurro, e quello sembra proprio il treno dei desideri che nei pensieri all'incontrario va.
Andò all'incontrario pure la carriera di Andrea Masiello, nel senso letterale del termine, se riteniamo che farsi deliberatamente autogol sia il contrario del gioco del calcio. L'anno dopo, l'addio stagionale al San Nicola fu molto più amaro e coincise con l'ultima partita casalinga del Bari in serie A.
Nell'ultima assoluta, uno 0-4 a Bologna non meno chiacchierato, trovò brevissima e fuggevole vetrina, addirittura con una tripletta, quel Grandolfo che abbiamo incontrato poco fa, la constatazione che di quel Bari e del suo trenino non erano rimasti che brandelli, rottami, lamiere fumanti. Così il giocattolino finì in soffitta o peggio, come nel finale di Toy Story, rispolverato giusto in qualche occasione un po' patetica e vagamente ruffiana: aveva debuttato a San Siro negli anni ruggenti del calcio italiano, fu riesumato per esempio in un tristissimo Bari-Cittadella, sotto una Curva Nord deserta – altro che macarena. “Le merendine di quand'ero bambino, i pomeriggi di maggio, non torneranno più!”, piagnucolava disperato Nanni Moretti verso la fine di “Palombella Rossa”, che quest'autunno ha compiuto trent'anni. Il trenino oggi ne ha fatti venticinque, ma non tornerà più neanche lui.