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Storia orale dell'eliminazione dell'Italia
16 nov 2017
16 nov 2017
Dalla sconfitta con la Spagna alla disfatta di San Siro: la nostra eliminazione riletta attraverso tutte le parole dei suoi protagonisti.
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13 min
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Quando finisce una storia d’amore arriva sempre il momento in cui la si ripercorre mentalmente per trovare il momento in cui le cose sono iniziate a precipitare, per capire se avremmo potuto evitarlo in qualche modo. È vero: in pochissimi stavano vivendo una storia d’amore con la Nazionale allenata da Gian Piero Ventura. Ma quanti avevano fatto davvero i conti con il pensiero di vivere un’estate mondiale senza il rito collettivo della partita dell’Italia - l’attesa, gli abbracci, i gridi di disperazione e liberazione, la gioia dopo una vittoria – prima del fischio finale di Lahoz? Di quei momenti sicuramente siamo da sempre innamorati.

Lunedì ciò che ci sembrava impensabile solo poche settimane fa ci è comparso improvvisamente davanti agli occhi, e oltre alla disperazione non ci è rimasto che ripercorrere le ultime tappe di questo percorso di qualificazione nella speranza di razionalizzare qualcosa che ancora non ci riusciamo realmente a spiegare. Quasi nessuno, d’altra parte, ha mai vissuto un Mondiale senza l’Italia.

Atto I: L’ottimismo si schianta sulla Spagna

Insomma, quand’è che le cose hanno iniziato a prendere una brutta piega? Qual è il momento in cui avremmo dovuto iniziare a preoccuparci, correre a Coverciano per cercare di cambiare le cose, impedire che l’inevitabile effettivamente accadesse? I protagonisti di questa tragedia indicano la sconfitta per 3-0 in casa della Spagna come il momento in cui la valanga è iniziata a cadere.

Lo ha detto Chiellini, ad esempio, già dopo lo scialbo pareggio con la Macedonia, che la Spagna ci aveva «tolto l'entusiasmo che serve per lavorare bene», che bisognava già da allora «ripartire con il lavoro, la continuità, fiducia, ma anche spensieratezza e personalità». Lo ha confermato lo stesso Ventura, poco prima che iniziasse l’agonia dello spareggio con la Svezia: «È il momento più importante della mia storia. Al Mondiale ci andiamo. Le difficoltà di questa stagione sono figlie della sconfitta in Spagna».

Eppure, andando oltre l’ottimismo di facciata precedente a quella sconfitta (Ventura, ad esempio, dopo il rinnovo agostano dichiarò: «Abbiamo 3 obiettivi: qualificarci, essere la sorpresa dei Mondiali ed essere fra i favoriti per l'Europeo») già allora si intravedeva un fatalismo premonitore delle peggiori sciagure, un rassegnarsi al playoff che poi ci è stato fatale.

Tavecchio, ad esempio, presentava quel rinnovo più come un modo per cercare di aiutare una persona in difficoltà che come un reale investimento in fiducia sul progetto di un allenatore: «La federazione è conscia di una situazione molto particolare. Siamo in testa alla classifica con la Spagna, ma abbiamo voluto mettere il nostro allenatore nelle migliori condizioni spirituali possibili per affrontare questa difficoltà». Lo stesso presidente della FIGC, anche prima della partita del Bernabeu, sembrava già guardare ai playoff come una tappa inevitabile: «In caso di pareggio o sconfitta ci saranno sempre i playoff, ma questa formula è ridicola. Mi auguro che entrambe le Nazionali vadano al Mondiale, ma ci ritroveremo sempre questi problemi».

In questo senso, la sconfitta con la Spagna non è stata altro che la conferma di un’inferiorità già interiorizzata e non a caso è stata presentata come una lotta eroica ma vana contro una divinità invincibile. «In generale si è vista la differenza di condizione e di qualità, poi alcune cose le abbiamo sbagliate e regalate e un po' ci abbiamo messo del nostro», dichiarò Ventura nel post-partita «In questo momento noi siamo umani e loro lo sono meno». Belotti parlò di Spagna «nettamente superiore sia fisicamente che qualitativamente» e addirittura di «giocatori che sono di un altro pianeta», mentre Barzagli disse che «la differenza con loro c’è sempre stata» appena prima di ricordare l’Europeo del 2016 in cui l’Italia sconfisse la Spagna in maniera piuttosto netta.

D’altra parte, quella era la sensazione anche del pubblico. Andrea Monti, direttore della Gazzetta dello Sport, ad esempio ha tirato in ballo immagini omeriche per presentare la partita: «I guerrieri in rosso come Achille, baciati dagli dei e quindi invincibili salvo un tallone che pare difficile individuare nell’undici di Lopetegui. Gli azzurri come Ettore, eroici ma disperatamente umani e quindi votati alla sconfitta. È proprio così? Sulla carta non siamo lontani dalla realtà».

Ventura, d’altra parte, verrà criticato non tanto per la sconfitta in sé, quanto per l’atteggiamento tenuto dalla squadra, considerato troppo spregiudicato per un avversario simile. Urbano Cairo, nel tentativo estremo di difenderlo, dichiarò: «È ingiusto accusare Ventura se, magari andando contro la sua natura prudente, ha osato troppo per cercare di vincere con la Spagna».

Atto II: La prima presa di coscienza

Ma anche dopo quella sconfitta, il pensiero di non andare ai Mondiali russi continuava a non sfiorarci nemmeno. Tavecchio, ad esempio, presentava la questione in termini biblici, come se questa ipotesi fosse paragonabile a livello di probabilità all’invasione delle cavallette: «L'ipotesi della non qualificazione al Mondiale la riterrei un'apocalisse. Ma ci andremo. Se dovesse verificarsi il contrario faremo tutti gli atti a tutela degli interessi federali».

È solo dopo il grigio pareggio con la Macedonia e l’ancora meno convincente vittoria con l’Albania, che ci ha portato matematicamente allo spareggio, distruggendo contemporaneamente tutte le nostre certezze, che l’ipotesi di non qualificarci per il Mondiale ha iniziato ad infilarsi nel cervello di allenatore, stampa e giocatori. Proprio nella conferenza post-partita con la Macedonia, Ventura aveva detto in maniera sciaguratamente profetica che: «Se giochiamo così non andiamo al Mondiale».

«Ma bisogna anche vedere i presupposti delle partite», aveva continuato il CT della Nazionale, iniziando a scaricare preventivamente le responsabilità su fattori esterni «Vedremo in Albania, intanto possiamo dire di essere ufficialmente secondi. Se andremo agli spareggi li giocheremo, sperando che 4-5 giocatori ci siano e che giochino più nelle loro squadre di club. Ci sono troppi giocatori che non giocano nelle loro squadre di club e hanno cominciato a calare a livello di condizione con il passare dei minuti. D'altronde, il nostro campionato è questo...».

Ormai lo spettro di una mancata qualificazione era nelle nostre teste, a partire dai giocatori che più di tutti avrebbero dovuto rassicurarci, i cosiddetti senatori. «Siamo l'Italia e al Mondiale dobbiamo andarci per forza», dichiarò Barzagli «Oggi ci son stati dei fischi per il risultato. C'è da non stargli dietro ma ognuno può esprimere quello che vuole. Abbiamo fatto bene, a tratti potevamo fare meglio. Ci manca quella convinzione e fiducia in campo che ci vuole sempre, perché dà sicurezza nelle giocate». Sembrava ancora più preoccupato Buffon: «Pensare di vedere un Mondiale senza Olanda o Argentina o… fermiamoci qui, rattristerebbe».

Durante il percorso di avvicinamento al sorteggio per il playoff la sicurezza di presentarsi da teste di serie, ed incontrare quindi un avversario dal livello tecnico molto più basso del nostro, era ormai passata in secondo piano. C’era solo l’ansia di non andare davvero al Mondiale, con i termini per definirla che erano passati dall’essere biblici a semplicemente catastrofici.

«L'eliminazione dal Mondiale sarebbe una tragedia sportiva per il nostro Paese: di tutte le cose che possono capitare a un presidente di federazione, che la Nazionale non si qualifichi per i Mondiali sarebbe qualcosa da non augurarsi», dichiarò il presidente del CONI, Malagò «Ma cerchiamo di essere ottimisti, anche se l'infortunio di Belotti ci preoccupa. Oggi la matematica ci fa capire che si andrà agli spareggi, e lì anche se siamo testa di serie, non troveremo squadre materasso». Dichiarazione a cui rispose lo stesso Ventura, non senza una certa dose di ironia ambigua: «Prima si è parlato di apocalisse, poi di tragedia, io dico invece catastrofe».

L’angoscia sotterranea di non qualificarsi al Mondiale ormai si era appiccicata alla retorica del nostro CT, anche se a parole cercava di scacciare quel pensiero in ogni occasione possibile. Dopo che il sorteggio ci diede in sorte la Svezia, Ventura dichiarò: «Affronteremo un avversario forte che merita il massimo rispetto: la Svezia, nel cammino che l'ha portata ai playoff, ha battuto la Francia a Stoccolma ed è arrivata davanti all'Olanda. Ci prepareremo alla doppia sfida di novembre con fiducia e determinazione: nessuno ha mai preso, e prende, in considerazione l'ipotesi di non andare al Mondiale».

Atto III: L’agonia dello spareggio

Nei giorni che hanno preceduto il play-off la differenza tra la concretezza e la chiarezza d’idee della Svezia e i nostri disperati tentativi di aggrapparci all’imponderabile – la tradizione, il blasone, la storia – è, a rivederlo oggi, drammaticamente evidente.

Il tecnico svedese Andersson era perfettamente consapevole di non avere nulla da perdere ma allo stesso tempo sembrava anche lucido nell’analizzare i vari punti di forza e debolezza: «La Nazionale azzurra ha un'ottima difesa, ma noi abbiamo fatto 26 gol in vario modo. Dobbiamo fare molto movimento, in casa abbiamo fatto 18 reti e questo promette bene per domani. L'Italia ha pregi e difetti, è una superpotenza, ma in campo vanno sempre undici giocatori contro undici». Emil Krafth, sprezzante delle possibili ripercussioni in Italia, è arrivato addirittura a delineare la strategia di “gioco sporco” che poi effettivamente la Svezia ha applicato in campo: «Se li stressi, diventano nervosi. Dovremo stringerci attorno ai nostri avversari, far perdere loro un po’ la testa».

D’altra parte, bastava veramente poco per capire che i nostri giocatori avrebbero perso la testa facilmente. Per dire queste sono solo alcune dichiarazioni prima dell’andata di Solna:

  • Buffon: «La Svezia è una nazionale solida, va rispettata perché ha qualità e non regala niente. La prima volta che ho giocato qui in azzurro ho perso, la Svezia fa sempre la sua partita».

  • Chiellini: «La Svezia non va sottovalutata, ha messo in difficoltà la Francia che può contare su 25 fenomeni. Il loro 4-4-2 è perfetto, con delle linee corte e strette che neppure disegnandole verrebbero così precise».

  • De Rossi: «Io ci tengo molto a fare il quarto Mondiale, è il mio lavoro, devo farlo in maniera seria. Se non riuscissi ad approdare al Mondiale, sarebbe un marchio sulla mia carriera»

  • Florenzi: «Ognuno di noi sogna di giocare un Mondiale nella propria vita. Non ci sono riuscito nel 2014, voglio morire sul campo pur di giocare quello del 2018».

Il terrore che generava nei giocatori di Ventura una Nazionale tecnicamente modesta, che a Florenzi evocava addirittura immagini di morte, si rifletteva anche nelle parole dei nostri vertici dirigenziali. Tavecchio parlò addirittura di “timore reverenziale” per una squadra che è stata «una grande Nazionale che ha portato tanti calciatori in Italia, dai tempi del Gre-No-Li fino a tanti altri campioni, ultimo Ibrahimovic», mentre Malagò tornò ancora sulla paura di non qualificarsi al Mondiale: «Onestamente io non voglio prendere in considerazione l’eventualità che l’Italia non si qualifichi. La Svezia è una squadra che ha tutto per passare il turno, soprattutto in una doppia partita. Non bisogna fare errori».

Dopo l’1-0 dell’andata le cose ovviamente sono peggiorate e mano a mano che la consapevolezza della Svezia si rafforzava, il nostro stato d’animo scendeva sempre di più negli abissi della disperazione e del vittimismo. Mentre Bonucci se la prendeva con l’arbitro e Parolo parlava di rabbia, Berg continuava anche fuori dal campo nella strategia svedese di andarci sotto pelle: «Nel secondo tempo hanno provato a farmi prendere ancora un cartellino, hanno voluto provocarmi. Io dico solo: troppo teatro, ma veramente troppo. E non sono neanche bravi come attori!».

L’Italia, anche al di là dei giocatori, sembrava invece non poter fare altro che aggrapparsi a tutto ciò che era al di fuori del campo: alle ingiustizie dell’arbitro (con la grottesca chiamata di Tavecchio a Infantino), al “biscotto” del 2004 (con i continui tentativi dei media di punzecchiare l’immaginario popolare), alla forza di San Siro (con gli appelli quasi disperati di Ventura ai tifosi di Milano).

In questo scenario, l’unico giocatore italiano rimasto lucido è chi era già al tramonto della propria carriera e dagli Stati Uniti poteva guardare all’intera situazione in maniera distaccata. «San Siro si farà sentire, ma non ho mai visto nessuno far gol dagli spalti», dichiarò Pirlo in collegamento da New York «I giocatori devono dare di più, deve esserci più qualità per vincere queste partite, mi sembra riduttivo anche attaccarsi agli arbitri, in campo europeo certi scontri non sempre vengono fischiati, non è come in Italia dove al primo contatto il gioco si ferma e, in quest'ottica, ho visto anche qualche atteggiamento sbagliato».

Atto IV: La fine

Com’è andata a finire Italia-Svezia lo sappiamo tutti. La prevedibile gogna mediatica che ne è seguita, oltre a buttare il sale sulle macerie con interpretazioni imbarazzanti, ha banalizzato l’impatto emotivo sui giocatori di una disfatta come questa, sottolineando il carattere profondamente infantile del mestiere del calciatore. Il proverbiale “Andate a lavorare”, ripreso in copertina dal Tempo con tanto di vanga, è la constatazione implicita che i calciatori non lavorino davvero e che quindi anche che non soffrano davvero, o almeno non quanto lo facciamo noi.

Eppure, è proprio il carattere infantile del mestiere del calciatore, il fatto cioè di legarsi come pochi altri a ricordi e sogni di infanzia, a renderlo intimamente doloroso nei fallimenti. Non è un caso che Buffon, posto di fronte alla realtà della fine della sua carriera in Nazionale, abbia richiamato proprio la sua infanzia per giustificare le lacrime nell’immediato post-partita: «L'unico obiettivo per me oggi era non deludere quei bimbi che sognano di giocare in Nazionale. Come me, che non piansi per il palo di Rizzitelli contro la Russia. Invece non ci sono riuscito, non ci siamo riusciti e chiedo scusa».

Bernardeschi ha dichiarato che: «Vedere Buffon in lacrime è una delle cose più difficili da affrontare, perché è il capitano e un simbolo». Perché non c’è solo la semplice delusione professionale, come dice Barzagli, in momenti come questi si va più a fondo nel personale, nelle aspirazioni e nei ricordi che uno si è formato da bambino. In questo senso, non c’è nessuna iperbole nelle parole nerissime di Chiellini: «Questo il punto più basso da quando sono al mondo».

Per dire, Gino Pivatelli, centravanti dell’Italia eliminata dall’Irlanda del Nord nel 1958, ha detto di vergognarsi ancora oggi, a 60 anni di distanza: «Avevo 24 anni, oggi ne ho 84 ma la ferita di quella sconfitta mi ha accompagnato per la vita, è un’indelebile cicatrice […] Giocassimo altre cento volte, vinceremmo cento e uno. Ma abbiamo perso quella, ci siamo vergognati per anni. Abbiamo dovuto conviverci per il resto della carriera».

Alla delusione della sconfitta, con la notizia dei ritiri contemporanei di Barzagli, Buffon e De Rossi (a cui forse si aggiungerà a breve anche quella di Chiellini), si è aggiunta anche la consapevolezza della chiusura definitiva di un ciclo, di una generazione calcistica che, nonostante tutto, ci ha portato una Coppa del Mondo e due finali degli Europei, oltre a diverse altre gioie sparse.

Per noi, il pubblico, soprattutto per quello che è cresciuto insieme a questa generazione, c’è soprattutto l’amarezza del tempo che è passato, e che ce ne vorrà molto adesso per ricostruirne un’altra che sia anche solo all’altezza. Ma per i giocatori la sensazione di fine della giovinezza è probabilmente ancora più acuto, proprio perché quel periodo è coinciso con il lavoro che hanno svolto ogni ora, ogni giorno della propria vita fino a quel momento.

Come ha detto De Rossi, che quando c’è da parlare di nostalgia riesce sempre a tirare fuori le parole più toccanti: «È finito un altro percorso, quello dei vecchietti. Era nell’aria e speravo finisse tra qualche mese. Volevo smettere dopo l’Europeo 2016 perché mi piace smettere dopo un buon ricordo. Ho amato questa squadra e questa maglia: ho avuto due pelli tatuate addosso tutta la vita e abbandonarne una mi fa molto male. Mi fa male sapere che non vedrò più con questa costanza gente con cui ho condiviso veramente tanto, ma anche con i nuovi».

Se è doloroso per noi il pensiero di non poter vivere quest’estate le emozioni di un Mondiale – vivere una partita, soffrire, sperare e gioire insieme - pensate quanto può essere per un calciatore l’idea di non poter tornare a provarle mai più in prima persona.

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