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Dario Saltari
Anche lo sport ci mette davanti la crisi climatica
13 lug 2023
13 lug 2023
Cosa ci dicono le sempre più frequenti invasioni di campo degli attivisti per il clima.
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Dario Saltari
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IMAGO / Shutterstock
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Quando ha visto l’attivista entrare in campo, per un attimo Grigor Dimitrov ha pensato di volerlo fermare. «Dopo ho realizzato che non stava a me farlo». Immediatamente gli si è avvicinato un addetto alla sicurezza di Wimbledon che lo ha invitato ad allontanarsi dal campo. Nel frattempo Simon Milner-Edwards, un musicista in pensione di Manchester, lanciava in aria coriandoli arancioni e pezzi di un puzzle ufficiale di Wimbledon con una foto di Roger Federer. Poi si è tolto il k-way, ha mostrato la sua t-shirt bianca di Just Stop Oil e si è seduto al centro del campo numero 18 di Wimbledon con le gambe incrociate. Sembrava volesse dire qualcosa, ma le sue parole sono state coperte dai fischi del pubblico, che ha iniziato a gridargli di tutto. Solo dopo l’arresto le sue dichiarazioni sono state raccolte dai giornali. «Correrei davanti a una macchina in corsa per salvare i miei nipoti. I nostri politici stanno distruggendo tutto. Tra dieci anni Wimbledon non sarà più come lo vediamo oggi». «In circostanze normali questo tipo di interruzioni sarebbero interamente inaccettabili, ma queste non sono circostanze normali», ha aggiunto Deborah Wilde, un’altra attivista di Just Stop Oil arrestata insieme a Milner-Edwards sul campo 18 di Wimbledon.

Il loro atto dimostrativo è solo l’ultimo di una lunga serie di azioni simili da parte delle associazioni ambientaliste britanniche, sempre più attirate dallo sport come opportunità per dare ai propri messaggi la maggiore risonanza possibile. Un paio d’ore prima sullo stesso campo di Wimbledon un altro attivista di Just Stop Oil aveva interrotto la partita tra l’australiana Daria Saville e l’inglese Katie Boulter, che si è detta “scioccata” per quello che è successo.

A fine giugno era stato il turno del cricket. Durante il secondo test match di The Ashes, la storica sfida tra Inghilterra e Australia, altri due attivisti di Just Stop Oil, tuta lunga dell’adidas nera e t-shirt bianca, hanno invaso il campo per gettare in aria polvere arancione. Uno dei due è stato rimosso come un manichino direttamente da uno dei giocatori inglesi, Jonny Bairstow, che evidentemente non ha resistito alla stessa urgenza che Dimitrov era riuscito a reprimere.

Pochi giorni dopo, a Stoccolma, altri attivisti climatici sono entrati sulla pista d’atletica per interrompere la 400 metri a ostacoli della Diamond League. Si sono inginocchiati tenendo alto uno striscione, costringendo alcuni corridori a rallentare proprio all’arrivo. Dopo aver superato il traguardo, il vincitore, il norvegese Karsten Warholm, si è unito al pubblico nel gridare “buuu” agli attivisti, mentre venivano portati via dagli uomini della sicurezza. «È possibile protestare, ma questo non è il modo per farlo», ha dichiarato Warholm dopo la gara «È irrispettoso nei confronti di chi è venuto qui a fare un buon lavoro. Onestamente devo ammettere che sono arrabbiato».

In questo contesto, l’arrivo del Gran Premio di Silverstone ha iniziato a essere visto con sempre maggiore preoccupazione da parte dell’autorità inglesi, che sono tra quelle in Europa che più stanno rafforzando i poteri di polizia per reprimere le organizzazioni ambientaliste. L’anno scorso al primo giro la pista era stata occupata da alcuni attivisti di Just Stop Oil e avevano fatto molto discutere le parole di Lewis Hamilton, uno dei pochi nel circus a schierarsi dalla loro parte. «È bello che ci sia gente che lotta per il pianeta, abbiamo bisogno di più persone come loro», aveva dichiarato dopo la gara il pilota inglese, con la Mercedes costretta a specificare successivamente che «Lewis stava sostenendo il loro diritto a protestare ma non il metodo che hanno scelto». Non è un caso insomma se quest’anno proprio Hamilton sia stato mandato avanti dalla Formula 1 come un emissario alla ricerca di un accordo di pace. Il pilota Mercedes ha messo sul piatto il suo sostegno a delle ipotetiche manifestazioni a Silverstone purché fossero “pacifiche” e Just Stop Oil ha preso l’occasione al volo per rilanciare. «Accogliamo la dichiarazione di supporto di Hamilton a favore di manifestazioni pacifiche ma vogliamo allo stesso tempo sottolineare che l’azione non violenta richiede individui coraggiosi che decidano di mettere i propri corpi a repentaglio per chiedere un futuro migliore per tutti», ha scritto l’organizzazione britannica su Twitter. «Invitiamo Hamilton ad abbandonare Petronas come sponsor alla prima opportunità e a chiedere la fine immediata all’emissione di nuove licenze di trivellazione nel Regno Unito. Se lo facesse noi potremmo assicurare di non interrompere alcuni eventi».

La Formula 1 è lo sport dove il dibattito sull’emergenza climatica e sugli attivisti che cercano di attirare l’attenzione su di essa è più avanzato, e forse non potrebbe essere altrimenti. È un discorso che procede su due livelli. Il primo, più immediato, è che la Formula 1 produce emissioni con le sue stesse gare e si muove per il mondo seguendo un calendario sempre più fitto e con una logistica pesantissima. A muoversi non sono solo gli atleti, come negli altri sport (dove la sensibilità è rimasta alle battute di Galtier che una volta scherzò sugli spostamenti in treno del PSG dichiarando che si stava attrezzando «per muoverci in barca a vela»), ma anche automobili, gomme, attrezzature, ingegneri, meccanici. Parliamo di tonnellate di oggetti e persone spostate per il mondo a cadenza bisettimanale che producono, secondo gli studi fatti dalla stessa Formula 1, quasi 187mila tonnellate di CO2 in ogni singola stagione. È la parte più consistente di tutte le emissioni prodotte dal circus (il 73,3%) e contemporaneamente la più difficile da abbattere attraverso la cosiddetta “strategia per la sostenibilità”, cioè il piano della Formula 1 per portare l’impatto delle emissioni dei Gran Premi a zero entro il 2030.

Si avverte un senso di impotenza a leggere questi numeri, non solo perché tutte le comunicazioni aziendali restituiscono una certa vuotezza- in particolare questa, con una strategia riassunta in una presentazione PowerPoint con una foto di una Ferrari a fianco di un bosco in copertina. Ma anche perché questo primo piano del discorso è quello che interessa meno agli attivisti climatici, che invece cercano di entrare nel secondo - al tempo stesso più superficiale e più significativo. Quello che riguarda cioè le immagini che lo sport riesce a produrre, la sua capacità di raggiungere un pubblico ampio e trasversale. Da questo punto di vista le responsabilità della Formula 1 sono molto più grandi delle emissioni prodotte dalle gare e dalla logistica. E hanno a che fare con la sua funzione di vetrina delle grandi aziende automobilistiche e petrolifere, che sono poi tra le principali responsabili dell’emergenza climatica dentro cui siamo dentro tutti. Per dire: quello che noi chiamiamo Gran Premio di Silverstone ufficialmente si chiama Formula 1 Aramco British Grand Prix, dal nome della compagnia nazionale saudita di estrazione degli idrocarburi.

Le grandi aziende conoscono il potere dello sport nel fidelizzare i consumatori a un certo marchio, o per usare una terminologia solo leggermente meno aziendale, nel diffondere l’amore per un brand. La novità di questi ultimi anni è che questo potere lo hanno scoperto anche gli attivisti per il clima, che invece cercano di utilizzarlo per interrompere la sua tradizionale funzione nello scandire il tempo, mandando in mille pezzi la normalità che ci associano i suoi spettatori. È per questo motivo che le loro invasioni ci fanno infuriare, spingendoci a fischiarli, a insultarli, a chiamarli “cretini” e “imbecilli”, come ha fatto il telecronista Nicola Roggero in diretta, commentando la Diamond League.

Allo sport appiccichiamo i nostri ricordi e associamo il naturale trascorrere delle stagioni, e il fatto che qualcuno voglia stravolgere questo suo aspetto ci lascia un sottile senso di inquietudine. Ogni quattro anni ci sono i Mondiali, poi dopo due anni gli Europei e le Olimpiadi, e così via. «Il gol di Pavard mi aiuterà a ricordare come stavo in quel momento, quando magari sarà passato qualche altro Mondiale e faticherò a ricordarlo», ha scritto Daniele Manusia del celebre gol del terzino francese ai Mondiali russi del 2018. Ci sono poi i tornei annuali nella cui apparente immutabilità vediamo riflessi i nostri cambiamenti. Da quasi un secolo e mezzo Wimbledon si gioca sempre d’estate, con gli stessi abiti bianchi, sugli stessi campi verdi. È un angolo di mondo in cui il tempo non è riuscito ad arrivare, di «un verde che rasserena, che rinfranca e rassicura, che placa l’angoscia del moderno». Oggi quel verde, nella prima di molte settimane più calde mai registrate sul pianeta Terra, forse sarebbe completamente insostenibile se non fosse per un minerale fertilizzante estratto a un chilometro e mezzo di profondità, sotto i fondali del Mare del Nord. Una cosa da niente per incollarsi alla nostra percezione del tempo.

Ma Wimbledon vuol dire ventilatori accesi e ghiaccio nei bicchieri finché una persona non entra nel televisore a invadere il campo da tennis che c’era al suo interno. A quel punto anche quella persona fa parte della metafora e gli attivisti di Just Stop Oil ne sono perfettamente coscienti. Il futuro che va in pezzi come il puzzle di Federer lanciato sui campi di Wimbledon. «Non permetterò che siano i miei pronipoti a dover raccogliere i pezzi», ha dichiarato uno degli invasori di campo dei giorni scorsi. Forse è proprio perché sono entrati a far parte della narrazione senza permesso che la Ministra dell’Interno britannica, Suella Braverman, li ha definiti «egoisti».

Lo sport continua a produrre immagini potenti anche oggi che gli attivisti climatici hanno iniziato a rivolgergli le loro attenzioni, solo che non sono più quelle che ci aspettiamo. I Mondiali spostati per la prima volta nella storia dall’estate all’inverno, come quelle settimane di caldo che ci sorprendono sempre più spesso a dicembre. La sottile inquietudine nel vedere i giocatori sudare sotto il sole cocente, mentre noi a casa facciamo fatica a riscaldarci. L'anno scorso Sebastian Vettel si è presentato in Florida con la maglietta: “Miami 2060, il primo Gran Premio sott’acqua: agite adesso o nuotate dopo”. Appena un anno dopo abbiamo visto un Gran Premio, quello di Imola, andare davvero sott’acqua, sommerso dai fiumi di fango prodotti dall’alluvione dell’Emilia Romagna dove nuotare è impossibile. È difficile trovare fuori dallo sport un’immagine più potente di questa nel rappresentare l’accelerazione improvvisa dell’emergenza climatica, che avevamo inconsciamente posto in un futuro irraggiungibile. L’ansia che cresce di fronte all’assottigliarsi sempre più veloce del tempo, mentre persino in Europa il contesto politico intorno alle scelte che andrebbero prese per rallentarlo si fa sempre più difficile.

Se cerco “gran premio imola” su Google la prima informazione che mi compare in cima, poco sotto la barra di ricerca, è che il Gran Premio non si è corso a causa del “maltempo”. È un’espressione che mette i brividi, mi fa pensare a quando di emergenza climatica non sapevamo ancora niente e di fronte a una grandinata inaspettata ci dicevamo che il tempo era “impazzito”, come se fosse un sovrano capriccioso che aveva deciso di dare fuoco al suo regno. Oggi ci mettiamo davanti al televisore per una partita e di fronte a quel tizio che l’ha interrotta lanciando polvere arancione in campo scuotiamo la testa più o meno allo stesso modo, ci diciamo che è completamente pazzo, che deve avere qualche problema. Mi chiedo se ci abitueremo a queste scene come ci stiamo abituando ai video delle persone intrappolate nelle macchine che vengono trascinate via dai fiumi di fango, o se lo stato di polizia che stanno cercando di istituire intorno agli eventi sportivi alla fine cancellerà anche quest’ultimo grido di disperazione.

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