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Stefano Collicelli
Inghilterra-Australia, sotto la cenere
27 giu 2023
27 giu 2023
Le radici di The Ashes, la rivalità più suggestiva del cricket.
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Stefano Collicelli
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IMAGO / News Images
(foto) IMAGO / News Images
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In Inghilterra è estate per una manciata di giorni l’anno, a cavallo tra giugno e luglio. L’estate in quanto state of mind, invece, dura il tempo della stagione del cricket: da aprile a settembre. Per un paio di mesi è il campionato delle contee a prendersi le attenzioni di un numero sempre più ristretto appassionati (si tratta di un torneo che in varie forme esiste dal ‘700); poi l’attenzione aumenta tutto d’un colpo. I mesi di giugno e luglio (e agosto fino a un paio d’anni fa, poi ci arriviamo) sono quelli dei Test match, in cui la Nazionale di casa ospita i tourists di turno— squadre nazionali d’oltremare.

Il Test cricket è il format più tradizionale e nobile, dove si affrontano squadre nazionali espressamente autorizzate dall’International Cricket Council (la federazione internazionale)— quelle che hanno raggiunto full status. Per i puristi è l’unico format. A oggi, solo 12 squadre maschili sono considerate sufficientemente competitive per giocare Test cricket. Più che un elenco, è una mappa dell’ex Impero britannico: Afghanistan, Australia, Bangladesh, India, Indie dell’Ovest, Inghilterra, Irlanda, Nuova Zelanda, Pakistan, Sri Lanka, Sud Africa e Zimbabwe.

Si gioca con undici giocatori per parte. Entrambe le squadre battono (bat) e lanciano (bowl) per due turni (innings) ciascuna (di norma). Vince chi accumula più runs nell’arco dei due innings, cercando nel frattempo di eliminare tutti-meno-uno i battitori avversari. Ogni partita può durare fino a 5 giorni. Qualora alla fine del quinto giorno di gioco il secondo innings fosse ancora in corso (ovvero: la squadra al lancio non è riuscita a eliminare tutti-meno-uno i battitori avversari), il match finisce in parità (draw), a prescindere dal numero di runs sul tabellone. Il draw non va confuso con l’altra parità, più rara (tie): entrambe le squadre si ritrovano con lo stesso numero di runs e l’ultima in battuta con tutti-meno-uno i giocatori eliminati. Test cricket si gioca in serie di 3, 4 o 5 partite. Vincere un match non è sufficiente: l’obiettivo è vincere la serie, che può durare fino a 7 settimane—giorni di riposo inclusi. Può succedere che dopo più di un mese di gioco la serie finisca senza un vincitore.

Si capisce immediatamente come il tempo assuma una connotazione tutta sua durante un Test match. Si gioca in tre sessioni, scandite dai pasti: inizio alle 11 del mattino; lunch dalle 13 alle 13:40; tea tra le 16 e le 17, per 20 minuti; per poi finire in serata, a seconda di cosa arriva prima tra pioggia, buio, o numero massimo di over giocati. Può essere che per una giornata intera entrambe le squadre si studino e di fatto in campo succeda poco o nulla. Non è raro scorgere spettatori che sugli spalti si siano portati un libro, o che sonnecchino. E la partita diventa sottofondo, contorno. Si osservano i vicini, si chiacchiera, si sceglie quale sandwich mangiare tra qualche minuto, mentre si tende un orecchio alla radiolina portatile da dove arriva la cronaca della partita. E intanto in campo lanciatore e battitore prima di affrontarsi a viso aperto devono studiarsi, circospetti, all’inizio di ogni over (6 lanci fanno un over); fintare un attacco, vedere come risponde l’altro, per poi provare a venire allo scoperto. Fino a che il battitore risponde deciso agli attacchi della palla, colpendola per 4 e 6 run alla volta; o il lanciatore rischia un colpo inaspettato e si gioca la traiettoria a sorpresa che aveva tenuto nascosta fino a quel punto.

Nel frattempo il cuoio della pallina si crepa, si deforma, inizia a sfaldarsi, il terreno si ammorbidisce rendendo i rimbalzi della palla sempre meno prevedibili. Il cricket, e soprattutto Test cricket, è forse l’unico sport dove gli strumenti e la superficie di gioco devono deteriorarsi durante una partita. A seconda dell’abilità di lanciatori e battitori, può essere a vantaggio di entrambi, basta saper leggere ogni situazione.

Le alternative al Test cricket

È proprio questo rapporto unico con il tempo che sta condannando il Test cricket a una lenta e inesorabile agonia. Per la trita formula che il tempo è denaro, partite che durano quattro/cinque giorni, per ore, sono ben al di là dei limiti della sostenibilità economica, salvo che per tre squadre: Australia, Inghilterra e India. Sempre più spesso, ormai, queste tre Nazionali si ritrovano a spartirsi i compensi dei diritti TV che tengono in piedi il gioco, facendo valere il bacino d’utenza e il livello di attenzione che i loro giocatori riescono a generare. E questo prima ancora di arrivare alla questione della soglia di attenzione di un pubblico non appassionato. Insomma, i prospetti di crescita al di fuori di questi tre Paesi sono nulli, o quasi.

Negli anni, sono nati altri format, tutti con una caratteristica comune: una durata ridotta rispetto al Test cricket. Partite a 50 over si risolvono in una giornata (ogni squadra lancia per 50 over, ovvero 300 lanci); gli incontri di Twenty20 sono ancora più brevi (20 over per squadra: 120 lanci). Lo spostamento di attenzioni e risorse verso format ridotti si è accelerato drasticamente dopo il 2011, con il successo straripante della Indian Premier League (IPL), il campionato a franchigie più seguito, competitivo e ricco del cricket. Un mondo dove proprietari miliardari si sfidano in aste pre-campionato a colpi di rilanci, contendendosi alcuni tra i migliori giocatori del pianeta, ai quali offrono, per una manciata di partite tra aprile e giugno, stipendi milionari.

Si gioca sotto i riflettori, le divise sono di colori sgargianti, la musica sparata dagli altoparlanti a livelli proibitivi. Fiamme lanciate in aria all’ingresso delle squadre. Nomi come “Titans”, “Royals”, “Super Titans”. Le partite sono veloci (per i tempi del cricket: durano due/tre ore), l’azione in campo martellante, i colpi sempre esuberanti. Non si rifiata: c’è da segnare più run possibili in 120 lanci. Pronti, via, a rotta di collo, senza guardarsi indietro.

Oltre a quella indiana, anche altre federazioni hanno deciso di non perdere il treno. Così quella inglese si è inventata un nuovo format, ancora più breve: The Hundreds. Per tutto il mese di agosto — strappato così al Test cricket — cento lanci per squadra, senza più over tra “Invincibles”, “Rockets” e “Superchargers”. Allo stesso modo quella sudafricana ha fabbricato una nuova lega Twenty20 dove anche qui si ritrovano “Super Giants”, “Super Kings” e “Royals”. Mentre ad Abu-Dhabi si gioca T10 cricket: dieci over per squadra, 60 lanci, 90 minuti di gioco in tutto.

Insomma, il Test cricket è uno sport in via d’estinzione, ogni stagione che passa sempre di più. Anche per questo tradisce l’impronta insieme nobile e sfrontata, ossequiosa, vellutata e arrogante che il gioco ha assorbito a partire dalla metà dell’Ottocento. Sui campi da gioco delle scuole private nella campagna inglese si formava la futura classe dirigente dell’Impero, a colpi di sfide tra palla e mazza. Tradizioni e regole non scritte ancora oggi valgono quanto, se non più, delle leggi del gioco (e nel cricket sono leggi, non regole). Vestiti di bianco da capo a piedi, a esaltare il verde immacolato dei prati curati, su quei campi si apprendeva l’importanza dei concetti di leadership e lealtà, o almeno questo era l’intento.

Leadership, quindi. Il capitano, lo skipper, è figura centrale in ogni format, ma soprattutto nel Test cricket. Ha un ruolo attivo nel scegliere i giocatori di cui circondarsi, e come utilizzarli nelle varie fasi di attacco e di difesa. In attacco lancia la sfida al battitore di turno che si trova a difendere il suo wicket (bails e stumps). Sceglie chi mandare al lancio e quanto farlo rimanere là fuori; sceglie quanto essere aggressivo nel piazzare il resto della squadra (il field) attorno al battitore avversario, così da ottimizzare le opportunità di presa al volo, e quindi di eliminazione. Il capitano deve saper reagire su due piedi all’altalenare del momentum di una partita; deve saper attendere lo sviluppo di un passaggio di gioco. Deve saper leggere i propri avversari, che siano in attacco o in difesa. Deve sapere quando accelerare il gioco, quando addormentare la partita.

Il resto della squadra deve essere leale verso il proprio capitano, ma sopra ogni altra cosa, verso il gioco, verso il cricket. Si apprende che rispettare l’autorità dell’arbitro, le cui decisioni in campo sono insindacabili—è una questione d’educazione. Che l’onore viene prima tutto: se si sa di essere stati eliminati in battuta, si esce, senza aspettare l’arbitro—è una questione d’integrità. Per il resto vale l’adagio per lamentare la corruzione di usi e costumi. Its not cricket. Poi, certo, oggi tra occhi di falco, telecamere varie e tracciamenti della palla, si è insinuata la modernità a denudare una realtà di cui si sapeva tutti, e a cui si preferiva l’illusione: gli arbitri non sono infallibili e i gentlemen sul campo non sempre si ricordano di esserlo. Ma, in fondo, come ricorda Mike Brearley, leggendario capitano della nazionale inglese a cavallo tra anni settanta e ottanta (uno che ha lasciato il cricket a venticinque anni per insegnare filosofia in università, prima di tornarci a ventinove; per poi reinventarsi psicanalista) anche il cricket non può che essere specchio delle complessità e dell’ambivalenza che intrappolano ognuno; che definiscono l’umano e la sua stessa eccellenza, persino. Con buona pace dello spirito del cricket.

Ancora oggi il Test cricket si gioca tutti rigorosamente in bianco, arbitri compresi. Tra lo sconcerto generale — e il sollievo di chi commenta in TV e radio — l’estate del 2019 ha visto introdotti per la prima volta i numeri identificativi sul retro delle maglie. Fortunatamente, sostengono alcuni, quest’ennesima deriva modernista è arginata dal pullover, tipico riparo dall’estate inglese: con quello indosso l’ordine è presto ristabilito. Si sono scritti saggi sull’estetica e l’etica del cricket: i panni candidi, il verde dell’erba appena tagliata, l’usanza della squadra di casa di offrire lunch e tea agli ospiti (che si stia giocando nel villaggio o a Lord’s), l’elogio del dilettantismo e la diffidenza verso il professionismo. E tutto questo si può riassumere in un’unica rivalità, quella tra Inghilterra e Australia, che in questi giorni stanno rinverdendo il loro rapporto con la serie di Test più attesa degli ultimi anni.

C’è un modo per provare a spiegare cos’è Inghilterra-Australia. Partiamo da dove iniziano tutte le partite giocate in casa dalle Nazionali inglesi: l’inno, Jerusalem.

Jerusalem

Dopo l’inquadratura-omaggio a East Enders, Danny Boyle decide di tuffarsi nel Tamigi, infilarsi in metropolitana, attraversare a piedi il Thames Tunnel, prima di salire in auto e trovarsi davanti lo stadio olimpico. È una geografia un po’ distorta, piegata dalla narrazione. All’interno dello stadio Bradley Wiggins aspetta con indosso la maglia gialla ancora umida dal Tour appena vinto. Quando la camera è su di lui, si incammina verso una campana (colata nella vicina Whitechapel Bell Foundry, la stessa fonderia da cui sono uscite nei secoli Big Ben e una manciata di campane più piccole commissionate da Damon Albarn), afferra la corda legata al battaglio e tira. L’eco del rintocco si perde tra le urla di entusiasmo e gli ultimi applausi che rimbombano tutt’intorno. Poi il silenzio.

Una singola voce, sottile e penetrante, si alza: c’è un coro di voci bianche seduto in mezzo al pubblico e un bambino, solo, è in piedi a intonare Jerusalem. La sua voce fa da didascalia a quanto avviene al centro dello stadio, che nel frattempo si è animato. È un idillio bucolico, fuori del tempo, dove si improvvisano partite di calcio, si gioca spensierati tra gli alberi da frutto, si danza in cerchio aggrappati ai nastri colorati di maypoles rigogliosi, mentre in un angolo si gioca a cricket—il tock! della mazza di salice che in contra il cuoio della pallina a fare da sottofondo.

And did those feet in ancient time / Walk upon Englands mountains green: / And was the holy Lamb of God, / On Englands pleasant pastures seen!

Ha una storia curiosa, Jerusalem. La Gerusalemme del titolo è una metafora e anche un luogo: una terra promessa che Blake a fine settecento si immagina raggiunta da Cristo una volta concluso un improbabile pellegrinaggio dalla Palestina su fino in Inghilterra, dalle parti di Glastonbury (quella del festival e delle ley lines tanto care a Thom Yorke). Fatto sta che Boyle, che la usa per la cerimonia inaugurale di Londra 2012, non la sceglie a caso.

Dall’inizio del Novecento la poesia, che è diventata inno grazie all’orchestrazione di Elgar, si è ritrovata a essere manifesto nostalgico per un passato immaginario. Nelle sue strofe ha trovato rifugio una Nazione in preda alla disillusione dell’età matura; vi si sono rintanati, insonni di sudore nelle notti afose, i contabili, gli amministratori dell’Impero, dimenticati lungo l’equatore e giù nell’emisfero australe, a mesi di navigazione da casa; tra una parola e l’altra è stato proiettato il bisogno di abitare una realtà incontaminata da contraddizioni, diseguaglianze socio-economiche e ciarpame fisico e morale. Sono gli anni in cui il compositore Cecil Sharp gira in lungo e in largo le contee del sud dell’Inghilterra a raccogliere e catalogare migliaia di melodie folk, preservandole dal passaggio del tempo ma anche decidendo cosa custodire e cosa no. Jerusalem è anche escapismo, malinconia.

La poesia di Blake si può però leggere anche diversamente. È un monito, una previsione, un’esortazione. Chiede che gli si porgano il suo arco d’oro e la sua lancia, che gli sia portata la sua biga avviluppata dalle fiamme: c’è da ricostruirla Gerusalemme. Ricostruirla, sì, perché nel frattempo è arrivata la rivoluzione industriale che ha avvelenato tutto.

And did the Countenance Divine, / Shine forth upon our clouded hills? / And was Jerusalem builded here, / Among these dark Satanic Mills?

Il prato sul quale fino a un attimo prima si giocava al pallone, a cricket e si danzava, viene sradicato. Dalla terra nera, fertile, crescono le ciminiere, una foresta di coni rovesciati in mattoncini di cotto che diventeranno presto neri di fuliggine. Le città inghiottiscono le campagne attorno e iniziano a collassare sotto il peso della sovrappopolazione, mentre i villaggi si spopolano. Dove Sharp cercava melodie, George Orwell trova—tra Lancashire e Yorkshire—le fabbriche demoniache che Blake aveva visto nascere. Dalle pagine su cui registra le sue impressioni ancora oggi esala il tanfo di corpi sporchi costretti a vivere ammassati in abitazioni fatiscenti, senza luce, acqua corrente, né ventilazione. Orwell brancola in un girone infernale che Blake aveva intuito sarebbe cresciuto attorno alle ciminiere, di lì a poco.

I will not cease from Mental Fight, / Nor shall my sword sleep in my hand: / Till we have built Jerusalem, / In Englands green & pleasant Land.

Green & pleasant Land. Si ritorna al verde, quindi, che oggi è tutto quel che rimane di un’opera di denuncia sociale. Quella terra verde, rigogliosa e pleasant (che è piacevole, ma di un piacevole sobrio, morigerato, sommesso, accogliente, ma senza soffocare, elegante, dignitoso) è diventata luogo dello spirito dove la modernità corruttrice non si è spinta; dove non esistono città, ma solo villaggi—garden cities, al massimo. È un verde che rasserena, che rinfranca e rassicura. Placa l’angoscia del moderno. È un regno di cui riappropriarsi, da strappare a chi l’ha deturpato. È la destinazione di un pellegrinaggio impossibile a ritroso verso un’infanzia che non si è vissuta, ma che si è abitata per osmosi, attraverso immagini e racconti. Spesso inventati. È la terra promessa, culla di una Nazione. Dove il tempo, impercettibilmente, rallenta.

The Ashes

When we beat Australia it is a joy that you cannot possibly transmit or communicate to others. It is so intense it radiates your whole being, and you skip on air for weeks. When we lose to Australia ... Oh God!” you know, we kind of laugh — Stephen Fry

Its been going on for a long, long time; we still hate each other, and its wonderful — Ian Botham

Tra le note di Jerusalem risuona la nostalgia di un passato sfocato, bagnato da una luce dorata, dolce; ci si nasconde l’Impero britannico, le sue contraddizioni soffocate dalla musica. E quando si spande su un campo da cricket sotto il cielo dell’estate inglese è come se quel passato iniziasse a colare dagli altoparlanti, giù sugli spalti, fino a invadere il prato, a inzupparlo di un profumo rassicurante. Si svolge tutto in un tempo che conosce solo presenti eterni, dove l’unica cosa che si può fare è premere pausa aspettando di ricominciare alla prossima partita. Jerusalem è il bottone play. Jerusalem, e ricomincia tutto.

Erano anni che oltremanica non si fremeva così davanti al tasto play: quest’estate i tourists sono gli australiani. La rivalità che attanaglia Inghilterra e Australia è al pari delle schermaglie tra India e Pakistan, al netto della perenne minaccia di conflitto armato. La fetta di identità e orgoglio nazionale investiti è la stessa. La sfida tra coloni e padroni, di più, tra carcerati e carcerieri; tra larrikins (teppisti) e snob, come sostiene Brearley. Sono le partite che catturano l’immaginazione di un Paese, il cui racconto ha lo stesso potere delle storie della buonanotte, dice ancora Brearley: di quelle di cui sai già il finale, ma che non ti stanchi mai di rivivere per la tensione, in attesa della la catarsi.

Il primo Test tra le due nazionali risale al 1877, ma tutto precipita sul finire del mese di agosto dell’anno 1882. Gli australiani hanno la sfacciataggine di vincere un Test match contro gli inglesi, a Londra. Non era mai successo prima. Per intenderci, gli inglesi sono quelli che nel calcio quarant’anni più tardi si sfileranno dalla FIFA, non riconoscendone l’autorità. Il calcio l’avevano inventato loro, d’altronde. E il calcio era lo sport della working class, figuriamoci con il cricket. Quindi, con un misto di auto-ironia, compostezza, lucidità d’analisi e umiltà che contraddistingue il carattere britannico dinnanzi allo scricchiolio dello status quo, sullo Sporting Times del 30 agosto appare un necrologio: In Affectionate Remembrance of English Cricket, which Died at the Oval on 29th August,1882. The body will be cremated and the ashes taken to Australia.

È nato il mito.

Quando ripartono alla volta della periferia estrema dell’Impero, gli australiani non si portano solo il corpo cremato del cricket: si sono presi anche l’anima. La coscienza collettiva inglese è segnata, al punto che di lì a breve Ivo Bligh, capitano degli sconfitti, promette di imbarcarsi e riconquistare le ceneri per riportarle in patria. Riesce a raccattare una squadra formata da reduci della disfatta di Londra e un’aggiunta di amatori, e con loro fa rotta verso l’Australia.

Gli inglesi vincono la serie 2-1 e approfittando dell’estate australe si fermano per qualche partita non competitiva. La “stagione” dell’alta società li travolge: pomeriggi afosi spesi nei giardini opulenti dell’aristocrazia, in sottofondo il tock! delle mazze che spizzano la pallina verso i limiti del campo dove sotto le tende si chiacchiera, si sposta il cibo nel piattini e qualcuno accenna un applauso. Nella cortese convivialità del dopo-partita, alcune tra le mogli, fidanzate e figlie dei padroni di casa decidono che non sta bene far imbarcare Bligh e i suoi a mani vuote: hanno pur diritto a un trofeo da mostrare al ritorno. Una di loro, Florence Murphy, scelta una boccetta di profumo, si adopera a riempirla con della cenere. Qui storia, mito e leggenda svaniscono l’uno nell’altra. C’è chi sostiene che le ceneri siano quelle del cuoio di una vecchia pallina da gioco; chi giura siano quelle dei bails usati nel terzo match della serie; altri, quasi un secolo dopo, suggeriranno che in realtà si tratti di uno scialle bruciato in tutta fretta. Ad ogni modo, l’urna di fortuna viene offerta a Bligh che, in trionfo, la riporta in Inghilterra, prima di compiere il viaggio inverso, ancora una volta destinazione Australia, per sposare Florence.

Da allora la sfida si ripete a intervalli più o meno regolari, al massimo un paio d’anni d’attesa tra una serie e l’altra. L’urna originale, seppur chiusa in un museo, viaggia idealmente tra i due emisferi appena una Nazione la strappa all’altra sul prato di gioco. In totale 72 serie, per 341 Test; 34 serie vinte dagli australiani, 32 dagli inglesi e 6 pareggiate. In quanto a Test: 141- 108 Australia, con 92 pareggi. L’ultima serie è quella giocata tra dicembre 2021 e gennaio 2022 in Australia, 4-0 per i padroni di casa, detentori dell’urna dal gennaio 2018.

Se è vero che il Test cricket è un format in affanno, quando a giocare contro sono Inghilterra e Australia è vero il contrario. Durante un Test di Ashes nulla di tutto questo vale più.

Le partite tra Inghilterra e Australia sono imbevute di un sentimento che non si ritrova in altre partite: la ferocia. E questo ne fa incontri imperdibili, memorabili. I fast bowlers vanno per la giugulare. Proiettili lanciati al corpo dell’avversario a 140 chilometri orari, forzando le leggi del gioco e dimenticandosi del suo spirito. In tempi recenti, chiedere a Steve Smith. Nel Test cricket gli innings sono due, perché, come nella vita, c’è sempre una seconda possibilità, dicono. Smith è al rientro dopo una squalifica di 12 mesi rimediata per il suo ruolo—da capitano della squadra australiana—nell’incidente, se così vogliamo chiamarlo, in un Test in Sud Africa nel 2018: manomissione della palla a mezzo di striscia di cartavetro fatta nascondere nelle mutande del più giovane della squadra. Torna al cricket per dimostrare che è rimasto comunque uno dei migliori battitori in circolazione. Entra a testa alta sul prato per giocarsi la sua seconda possibilità. In Inghilterra, contro i nemici secolari. Ma la vita ti mette davanti un lanciatore come Jofra Archer, per ricordarti che la seconda possibilità ha comunque un prezzo.

Che ci crediate o no, è tutto fuorché un caso isolato. La serie 1932-33 è da giocarsi in Australia e il problema più pressante per gli inglesi si chiama Don Bradman, battitore australiano con una media in eccesso di 130 runs per innings (tante). Il capitano inglese Douglas Jardine si inventa un piano d’attacco che chiamerà Leg-theory, ovvero lanciare al battitore dalla parte delle gambe, invece che dalla parte della mazza: Bradman sembrava meno sicuro quando doveva intercettare lanci da quel lato. E infatti fatica di più a contrattaccare, tanto che spesso la palla finisce per colpirlo sul corpo, lancio dopo lancio. Gli australiani insorgono, la stampa specialmente: non è nello spirito del gioco mirare al corpo dell’avversario; e la pratica è ribattezzata, più accuratamente e didascalicamente, Bodyline. Nella squadra inglese stessa c’è chi si rifiuta di mettere in pratica il piano: Mohammad Iftikhar Ali Khan, Nawab di Pataudi non riesce ad abbandonare la cavalleria impostagli dall’ambiente aristocratico che l’ha formato. Jardine dalla sua si crogiola nell’odio che gli viene rivolto dagli spalti e dalle pagine dei giornali: con misurato disprezzo snob, contraccambia.

Ci sono poi gli swing bowlers la cui ferocia prende forma di beffa, derisione, quasi. Shane Warne era il più grande di tutti. Il 4 giugno 1993 calpesta il prato del suo primo Test match in una serie Ashes. La prima palla della sua prima partita contro gli inglesi diventa the ball of the century. Per un battitore è probabilmente più doloroso di un colpo al corpo: out senza capirne il motivo, nel tempo di un battito di ciglia. Se non è ferocia questa.

Soprattutto, però, i Test Ashes sono quelli delle rimonte improbabili—alcune delle più emozionanti, per ragioni imperscrutabili, nello stesso stadio, Headingley, dalle parti di Leeds, Yorkshire.

Estate 1948. Ritroviamo Bradman da turista con la squadra australiana. È la sua ultima serie di Ashes, il quarto Test di cinque. Il punteggio è di 2-0 per l’Australia, con il terzo Test pareggiato. Comunque vada, l’urna rimane con gli australiani che la detengono; ma gli inglesi non hanno certo intenzione di perdere la faccia in casa, almeno quella. Dal primo giorno, sulle tribune si stringono in centocinquantamila ad assistere a un primo innings inglese ineccepibile: 496 runs in 192 over, in battuta per tutto il primo giorno e fino al pranzo del secondo. Quando in battuta ci arrivano gli australiani, i padroni di casa si chiedono se in effetti le cose non stiano iniziando finalmente a girare appena Bradman è eliminato per sole 33 run. I turisti finiscono il loro primo innings con 458 run, non lontani dagli avversari. La partita è ancora bilanciata. Si arriva così al quarto giorno, dove in battuta tornano gli inglesi, per rimanerci fino alla mattina del quinto e ultimo giorno. Si accontentano di 365 run, per fissare agli avversari l’obiettivo di 404, da raggiungere in poco più di cinque ore di gioco prima che scenda la sera. Fino a quel giorno, il punteggio più alto raggiunto inseguendo in una serie di Ashes era un rispettabile 332, a nome degli inglesi nel 1928.

Con il wicket (qui inteso come il rettangolo di campo dove si affrontano battitori e lanciatori) crepato dal sole e scavato dai colpi di mazza, martoriato dai rimbalzi della pallina e dall’accanirsi del cuoio delle punte e dei tacchi delle scarpe, il vantaggio è tutto per la squadra che attacca: la palla sarà illeggibile per i battitori. E infatti, in un’ora gli australiani raccolgono solo 44 run. Briciole. L’impresa inizia a muoversi verso i confini dell’impossibile quanto uno dei due battitori d’apertura si lascia eliminare per 17 run appena, con 347 ancora da conquistare. Gli subentra Bradman che assieme a Morris—il battitore d’apertura sopravvissuto—si assicura 64 run nella mezz’ora che precede il pranzo. Ha voluto mettere le cose in chiaro con il primo lancio che si è visto arrivare contro: una sferzata secca verso l’estremità del prato, per 4 run. Sopravvivono fino al tea, a 116 run dalla vittoria, con un solo battitore eliminato. Quando finalmente gli inglesi riescono a rompere la partnership Morris-Bradman, i due hanno fatto razzia di 301 run in tre ore e mezza. Bradman viene raggiunto in battuta da Miller che ci rimane per appena il tempo di 12 run, per farsi eliminare quando di run per la vittoria

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