
Qualche mese fa sono andato ad Atene per il derby di Eurolega tra Olympiakos e Panathinaikos. Pochi giorni prima di partire mi è capitato tra le mani, quasi per caso, Reuniting With Football In Athens, un racconto scritto da tale Reval: una giovane ragazza scappata dalla Siria all’inizio della guerra civile, nel 2011, e sbarcata ad Atene dopo una lunga fuga passata per la Turchia e l’isola di Chio. Insieme alla sua famiglia, Reval (che ha deciso di non rivelare il suo cognome) ha trovato accoglienza nel campo profughi di Skaramagas, poco distante da Atene, dove qualche anno più tardi ha realizzato un reportage per un progetto sostenuto dall'UNHCR (l'Agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati), Goal Click Refugees.
La sua testimonianza ci fa conoscere - anche con l'aiuto delle sue fotografie - cosa significhi vivere in uno di questi campi. Un luogo di disperazione, di straziante attesa, ma a volte anche di socialità, soprattutto grazie ai programmi di alcune ONG che si sforzano per aiutare queste persone a superare trascorsi difficili. Ad esempio, attraverso lo sport.
“Quando gioco a calcio, riesco a dimenticarmi tutti i problemi che ho avuto e che sto ancora affrontando”, scrive Reval. “Per questo il calcio è così importante per me. Ci divertiamo, diventiamo amici… ridiamo!”. A noi sembra banale, ma in quelle situazioni può essere un miracolo.
Il racconto di Reval mi ha colpito e mi ha spinto a documentarmi sui tanti progetti che ci sono ad Atene, un punto nevralgico dei flussi migratori regionali; programmi che fanno leva sui valori, sulle occasioni e sulla lingua universale dello sport come strumento di integrazione per i rifugiati. Una ricerca che a sua volta mi ha portato ad andare in un paio di quartieri periferici di Atene dove hanno luogo queste iniziative. Partendo dall’episodio di Goal Click Refugees, mi sono chiesto come funzionassero nel concreto, questi progetti, e se ci sia della sostanza dietro una retorica che parte della società europea percepisce come vuota; dopodiché, ho cercato di capire come, dove, con quale impatto - e purtroppo a fronte di quale urgenza - si svolga l'attività sul territorio della capitale greca. Il prezioso lavoro, cioè, della rete di persone che provano a dare una speranza, o anche una semplice distrazione e un’illusione di normalità, alle ragazze e ragazzi a cui si rivolgono.
La voce degli emarginati
Contatto Matthew Barrett, che è l'ideatore di Goal Click, “una piattaforma globale di storytelling che aiuta le persone a capire il mondo e capirsi gli uni con gli altri, attraverso il calcio”. Parlandomi del progetto Refugees, mi spiega l’interessante prospettiva da cui è nata l’idea: «Sui media potete trovare molte storie sui rifugiati, ma è raro sentire direttamente le loro voci, vedere le cose con i loro occhi. Questo progetto si propone di sfidare stereotipi e pregiudizi, e di offrire il punto di vista personale e intimo della vita sportiva dei rifugiati: un lavoro che nessuno al di fuori di queste comunità potrebbe svolgere».
Per rendere autentico e significativo il messaggio trasmesso dalla serie, Goal Click ha spedito macchine fotografiche (rigorosamente analogiche) e registratori ai centri di una lunga lista di Paesi - dall’Australia al Kenya, dall’Italia alla Giordania, da Panama al Venezuela - per consentire ai “corrispondenti” di creare il proprio racconto, senza filtri. «Ora più che mai le voci degli emarginati devono essere ascoltate», dice Barrett.
Anche se è difficile da qua percepire tale urgenza, allargare il nostro punto di vista ci può essere d’aiuto. Nel 2024 il fenomeno di chi scappa da conflitti, povertà, miseria e catastrofi naturali è parte della vita di 120 milioni di persone, numero destinato a crescere per lo scoppio di nuove guerre e l’aggravarsi dell’emergenza climatica. La vastità di questo movimento si può evincere dalle storie da oltre 80 Paesi e cinque continenti raccolte da Goal Click, o dai numerosi report delle Nazioni Unite in merito. Di sicuro è un tema che ci riguarda da vicino, in Italia quanto in Grecia, in primo luogo per ragioni geografiche: il Mar Mediterraneo, con oltre 200mila sbarchi tentati in Italia nel solo 2023, è una delle vie più battute dai migranti; insieme alla cosiddetta rotta balcanica, cioè l’infernale porta d’accesso per chi arriva dal Medio Oriente via terra, passando per Turchia, Grecia (dove sono presenti 70mila rifugiati circa), Macedonia del Nord, Serbia e Bosnia.
Nel caso ateniese, Goal Click si è appoggiata all’ONG locale Organization Earth per spedire l’attrezzatura. Facendo delle ricerche apprendo che il campo di Skaramagas, arrivato ad essere la dimora di oltre tremila rifugiati da 28 Paesi diversi, ha chiuso i battenti nel 2021. È ancora operativa, invece, Organization Earth, con cui Goal Click aveva collaborato per far arrivare il materiale dentro al campo.
L'organizzazione, fondata tra gli altri da Petros Kokkalis (ex dirigente dell’Olympiakos), si è occupata negli ultimi anni di proporre attività ricreative ai rifugiati, dentro e fuori i centri della regione come Schisto e Ritsona (e in passato Elliniko, Eleonas e Sounio). Mi rivolgo proprio ad Organization Earth nell’intento di assistere a iniziative del genere all’interno del centro di Schisto, ma nonostante la disponibilità e il supporto dell’ONG mi devo arrendere di fronte allo scoraggiante - o forse, deterrente - iter burocratico predisposto dal Ministero Greco per la Migrazione e l’Asilo. Anche Evanthia Savvopoulou (UNHCR Greece) ed Eirini Gaitanou (Refugee Support Aegean) provano ad aiutarmi nella richiesta, ma quest’ultima mi lascia presto intendere che «non sarà facile ottenere l’autorizzazione». Negli ultimi anni infatti «è diventato molto più difficile entrare per chiunque, giornalisti inclusi» - nonostante le preoccupazioni espresse dalle Nazioni Unite nel 2023 riguardo alle difficoltà di accesso a questi centri (le cosiddette “Controlled Access Accommodation Facilities”, e i più rigidi “Closed Controlled Access Centres” presenti sulle isole).
Entrando in contatto con Organization Earth, in compenso, mi addentro nell’ampio reticolo di iniziative sportive delle ONG locali destinate ai rifugiati. Un mondo che coordina i propri sforzi per colmare le lacune nei sistemi pubblici di accoglienza, di assistenza - sanitaria e psicologica - e di integrazione sociale. Stefanos Batsis, membro di Organization Earth, mi racconta alcuni progetti degli ultimi anni e uno in particolare, portato avanti dal 2017 fino allo scoppio della pandemia, attira la mia attenzione: l’Hope Refugees Football Club, una squadra di calcio iscritta ai campionati locali e composta esclusivamente da rifugiati.
La squadra della speranza
Finanziata fin da principio da UEFA Foundation e sostenuta poi da un ambassador speciale come Antonis Nikopolidis (portiere della Grecia campione d’Europa nel 2004), la selezione di rifugiati è stata allenata da Mohammad Nasser Afash. Uno che poteva parlare la stessa lingua dei propri giocatori, fuori e dentro il campo, essendo stato il primo siriano di sempre a giocare in un club europeo, e poi il tecnico dell’Al-Ittihad Ahli campione d’Asia nel 2010. Sembrava una carriera promettente, la sua, prima che ad Aleppo esplodesse la violenza, spazzando via i sogni suoi e di altre milioni di persone.
Con uno dei ragazzi che allenava, Ahmad, condivideva ad esempio la traumatica esperienza della fuga da Aleppo. La sua testimonianza del viaggio verso Atene è un tragico promemoria degli eventi che segnano queste tratte: «Ho dovuto attraversare la Turchia via terra, poi il fiume Evros per superare la frontiera, pagando 1.500 euro a un trafficante. Arrivato a Salonicco, ci hanno preso in ostaggio per una settimana, chiedendo altri soldi». Storie del genere accomunano aree di tutto il mondo, dalla rotta balcanica alla panamericana, passando per tanti punti critici dove ogni anno si registrano migliaia di vittime. «Non tutti i migranti che erano con me ce l'hanno fatta», conferma anche Ahmad.
L’arrivo a destinazione spesso non coincide con l’inizio di una nuova vita, ma con il passaggio a un’altra fase di transizione: chi verso il rimpatrio, come nel caso a noi più vicino dei tanti tunisini - in quanto giunti da un Paese “sicuro” - che vengono rispediti al di là del Mediterraneo; e chi invece si trova intrappolato, più o meno a lungo, in centri di accoglienza che somigliano a dei carceri. E che talvolta rappresentano tutto ciò che non dovrebbero essere: un disincentivo a cercare asilo da quelle parti. In Europa, all’ondata migratoria dell’ultimo decennio sono corrisposte la chiusura di svariate frontiere (quella macedone ad esempio, nel contesto della rotta balcanica) e la diffusione di un approccio securitario all’accoglienza. Su scala globale, è un fenomeno che si manifesta in tante aree e che ha conseguenze di proporzioni più e meno gravi sulle condizioni dei migranti. Sono innumerevoli, per fare qualche esempio, i casi di detenzione a tempo indeterminato che si segnalano in Australia e Malesia, o gli “incidenti” nei punti di frontiera dell’Arabia Saudita (cioè aggressioni vere e proprie della sua polizia di frontiera). Tutti posti in cui far muovere le persone diventa anche un affare.
Dalle fila dell’Hope Refugees FC, invece, mi viene raccontata una storia a lieto fine: quella di Alias Kamara, guineano, che dopo l’odissea per approdare in Grecia è riuscito a riprendere e concretizzare il proprio sogno, diventando un calciatore professionista. «L’obiettivo principale del programma era de-ghettizzare i rifugiati, farli uscire dai campi e inserirli nella società», spiega Andreas Sabanis, vice di Mohammad Nasser Afash. E se il caso di Kamara è la punta dell’iceberg, distanti dallo sguardo della società civile ci sono tutte quelle persone che non hanno fatto e non faranno dello sport una professione, ma che sul campo hanno trovato un punto di contatto con la vita fuori dal “ghetto”.
Non potendo entrare in centri come quello di Schisto, per farmi un’idea di queste realtà mi viene consigliato di assistere a un evento in programma il giorno successivo. Si tratta di un torneo di pallavolo organizzato da Yoga and Sport with Refugees (YSR), in un centro sportivo municipale (l'Antonis Tritsis) a cui posso accedere senza troppi problemi. Il campo è vicino alla sede dell’ONG, a Kypseli, un sobborgo ateniese noto per l’alta densità abitativa e la multiculturalità, dove risiede una buona parte dei rifugiati presenti in città.
Una boccata d’aria fresca
Il pomeriggio successivo allora raggiungo Kypseli, per incontrare i volontari di Yoga and Sport with Refugees. Da quelle parti l’organizzazione gestisce una struttura al chiuso - una piccola palestra su due piani - e dà luogo a svariati eventi, sportivi e non, rivolti a rifugiati e immigrati con limitate opportunità sociali. «Noi crediamo fermamente che gli sfollati che cercano sostegno e sicurezza non debbano essere trattenuti nei CACC [cioè i Closed Controlled Access Centres di cui abbiamo parlato prima, nda]», mi spiega Claude Jonkmans, coordinatrice di YSR dal 2021. Le racconto il mio tentativo di recarmi a Schisto e non è affatto sorpresa che non sia andato a buon fine. «Quei centri sono strutture chiuse, simili a prigioni: mobilità limitata per gli abitanti, telecamere di sicurezza, grave mancanza di supporto a tutti i livelli».
Nasce proprio da qui l’impegno a creare delle occasioni per spezzare la monotonia e il vuoto delle giornate all’interno dei centri, combattendo l’alienazione sociale di chi vi risiede. Per l’occasione, YSR può contare sull’appoggio dei “colleghi” di Let’s Keep the Ball Flying, un’altra ONG attiva in diverse aree del mondo con progetti di accoglienza, assistenza e inclusione dei rifugiati. In questo caso, attraverso la passione per la pallavolo e dunque il supporto alle realtà che fanno del volley uno strumento sociale. Me ne parla un suo membro presente all’evento, Guus van den Elzen, olandese: «Con programmi come Volley Beyond Borders e Gear Up Rise Up, sosteniamo progetti come quello di Yoga and Sport with Refugees, aiutando a organizzare e sviluppare squadre, tornei ed eventi di pallavolo. Forniamo attrezzatura, formiamo gli allenatori, sosteniamo i costi di affitto dei campi e cerchiamo di creare un network con i club locali. Vogliamo aiutare le persone che sono appena arrivate in un Paese, metterle in contatto con chi condivide le loro passioni, in questo modo conosceranno altre persone e si faranno amici che potranno aiutarli a costruirsi una vita».
Al torneo sono presenti rifugiati di diverse origini, in prevalenza mediorientali e africani. Ragazze e ragazzi giocano insieme, rigorosamente mischiati, come spesso avviene in programmi di questo tipo. Ancora: a noi sembra una banalità, ma può non esserlo per chi arriva da Paesi in cui la discriminazione e le disuguaglianze di genere sono profondamente radicate. Come l’Iran per esempio, da dove è arrivato nel 2017 - prima di «vagare ad Atene per due anni senza documenti» - Hooman, che da qualche mese collabora con YSR come allenatore di pallavolo.
Al mio arrivo, trovo Hooman e Guus impegnati ad allestire il campo, montare la rete, fare le squadre: la classica routine prima di iniziare un torneo di qualsiasi sport, insomma. L’atmosfera è rilassata. Non ci sono in campo atleti di alto livello, scelti tramite un processo di selezione come era accaduto ad esempio nel caso dell’Hope Refugees FC. E non è previsto un pubblico a cui mostrare tutto ciò: è un contesto intimo, amichevole, senza troppe pretese. Quella a cui partecipo, insomma, è un’occasione di sport… normale. Pensata proprio per portare un po’ di normalità nella quotidianità di «persone che stanno passando i migliori anni delle loro vite», come sottolinea Guus, «aspettando, spesso in condizioni precarie, che altri decidano il loro futuro. Senza sapere quanto tempo debbano attendere, non potendo fare quasi nulla, senza accesso allo studio né occasioni di lavoro. Vedo così tanti giovani che avrebbero avuto un futuro, se solo fossero nati in Olanda come me…».
Al termine del torneo, infine, mi dirigo alla vicina palestra indoor gestita da YSR. La scritta a caratteri cubitali all’ingresso, “Stronger Together", rivela la sua doppia natura: un angolo dove curare il proprio benessere fisico e una valvola di sfogo, ma prima ancora un luogo di aggregazione. Al piano terra sono presenti attrezzi e strumenti per l’allenamento individuale, mentre nella sala sotterranea si svolgono ogni settimana lezioni di arti marziali, yoga, danza e corsi di autodifesa. Al mio arrivo trovo relativamente poche persone - «a causa del Ramadan», mi spiega Claude - ma dopo il tramonto la palestra si riempie.
Approfitto della visita per informarmi sulla vasta gamma di iniziative promosse dall’ONG, ad Atene e altrove in Grecia. La pallavolo e la palestra sono soltanto una piccola parte, ci sono anche il nuoto (Swim For Good) e il running (la Global Run), oltre a tutti quei progetti in cui YSR affianca altre organizzazioni non governative come la già menzionata Organization Earth, METAdrasi, Athens Comics Library e altre ancora. Tra chi si batte per aiutare nel quotidiano i rifugiati, e quei progetti - come la serie di Goal Click, e nel mio piccolo questo reportage - che cercano di sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’accoglienza.
Un dibattito più urgente che mai nel contesto europeo, caratterizzato da politiche frammentate e dall’assenza di una visione condivisa in materia. E soprattutto in un Paese come la Grecia, dove l’intensificarsi del fenomeno migratorio ha irrigidito i processi per la concessione della cittadinanza e dello status di rifugiato, parallelamente al proliferare di una retorica sempre più razzista, xenofoba e chiusa da parte dell’estrema destra (prima Alba Dorata, poi gli Spartani e ora Soluzione Greca). Adesso più che mai, come ha detto Matthew Barrett, «la voce degli emarginati deve essere ascoltata».