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Breve storia del fumetto sportivo giapponese
22 nov 2018
22 nov 2018
Rocky Joe, Holly e Benji, Slam Dunk e Giant Killing sono solo i capitoli più importanti della storia dello spokon, il manga a tema sportivo.
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Josè Velasquez è stato uno dei giocatori più eleganti della sua generazione. Per la sua visione di gioco, il suo talento e la sua tecnica fuori dal comune, è annoverato tra i più forti centrocampisti della storia del Perù. C’è anche lui, il 21 giugno del 1978. Al Gigante de Arroyito, in quel di Rosario, indossa la numero 6 e scende in campo coi suoi compagni, contro i padroni di casa dell’Argentina, nella seconda fase a gruppi del Mondiale del 1978. In palio, per l’Albiceleste, c’è la finale iridata, ma per arrivarci deve battere il Perù con almeno tre reti di scarto, in modo da scavalcare il Brasile per differenza reti. Va in scena quello che sarà ricordato come la Marmelada Peruviana (cioè, letteralmente, la marmellata peruviana): Velasquez e i suoi perdono 6-0, l’Argentina vola in finale contro l’Olanda, e quattro giorni più tardi solleva la Coppa del Mondo davanti a Jorge Videla e al resto dei generali.

Secondo molti è una vittoria pilotata, come, secondo alcuni, anche tutto il resto del Mondiale. L'intenzione di Videla è quello di dimostrare al mondo attraverso i Mondiali che l'Argentina una nazione civile, moderna e all’avanguardia, e che le voci di torture, violenze, soprusi e sparizioni sono dicerie prive di fondamento. E grazie alla vittoria della Coppa, in parte, ci riescono.

In Giappone, ad esempio, il Mondiale è un grande successo di pubblico, e delle brutalità del regime argentino, della repressione sistematica dei dissidenti politici non si sa ancora nulla.

Yoichi Takahashi quell’estate è solo un ragazzo di 18 anni ed è talmente affascinato dalle prodezze di Mario Kempes da rimanere incollato alla televisione per quasi tutte le partite. Il numero 10 dell’Argentina colpisce talmente tanto la sua immaginazione che tre anni più tardi, quando decide di intraprendere la carriera di disegnatore professionista, presenta alla casa editrice Shueisha un fumetto incentrato sul calcio, ricalcando il protagonista sulle fattezze di Mario Kempes.

Il fumetto in questione si chiama Captain Tsubasa (o, come verrà tradotto poi in Italia, “Holly e Benji”), cioè il più importante, influente e popolare fumetto sportivo di tutti i tempi. La sua uscita non è però né estemporanea né inaspettata. Nel 1981, infatti, il manga sportivo è un genere già affermato, almeno in Giappone, al punto da essere indicato con un termine ben preciso, e cioè spokon.

Le radici dello spokon

La spinta propulsiva alla nascita dello spokon parte infatti dalle Olimpiadi di Tokyo del 1964. È la prima volta in assoluto che in Asia si svolgono i giochi olimpici, e per l’occasione vengono introdotte due nuove discipline, e cioè la pallavolo femminile e soprattutto il judo. Non solo: è anche la prima volta che le immagini delle Olimpiadi vengono trasmesse in diretta in tutto l’emisfero settentrionale, grazie al satellite Sycom III.

È una vittoria innanzitutto diplomatica per il Giappone, che può mostrarsi al mondo come una delle maggiori potenze economiche mondiali, nemmeno 20 anni dopo l’esperienza apocalittica della Seconda Guerra Mondiale. Ma la manifestazione sarà anche un successo sportivo, dato che alla fine della manifestazione il medagliere giapponese risulterà il terzo più ricco, alle spalle di Stati Uniti e Unione Sovietica.

Eppure per il paese del Sol Levante quell’edizione delle Olimpiadi sarà comunque un trauma. Nonostante la pioggia di medaglie d’oro (alcune importanti e inaspettate, come nella boxe, nella lotta libera e nella pallavolo), il Giappone subirà infatti una sconfitta epocale nella disciplina in cui pensava di essere maestro incontrastato. Akio Kaminaga, uno dei campioni più amati dai giapponesi, non riesce a completare l’en plein di medaglie d’oro conquistate nel judo da Nakatani, Okano e Inokuma, e viene sconfitto nella finale della categoria Open da Anton Geesink, leggendario judoka olandese.

Geesink riceve l'oro alla sinistra di Kaminaga (Foto Keystone / Stringer). Trovate delle belle immagini dell'incontro qui.

Per i giapponesi la disfatta di Akio Kaminaga è un vero e proprio dramma collettivo. Da quel momento in poi, quella di impegnarsi nello sport per dimostrare di non essere secondi a nessuno – soprattutto in discipline legate a doppio filo con l’identità nazionale, come per l'appunto il judo - diventerà una vera e propria ossessione. Lavare via l’onta della sconfitta di Kaminaga si trasforma un imperativo categorico, e la promozione dello sport, a livello scolastico e locale (cavallo della politica nazionale giapponese già a partire dal secondo dopoguerra, a dire la verità), diviene più importante che mai.

Il mondo del fumetto è uno dei tanti settori della società giapponese che viene investito da questa missione. Il primo a capirlo è Asaki Takamori, che di lì a poco diventerà il padre nobile dello spokon. Le sue opere sono state così importanti che secondo alcuni Osamu Tezuka - il più grande autore di fumetti giapponesi, detto anche “Il dio dei manga” - non abbia mai voluto cimentarsi nella scrittura e nel disegno di uno spokon per evitare qualsiasi paragone diretto con lui.

Prima di Takamori, per la verità, in Giappone erano già stati pubblicati alcuni manga che ruotavano attorno al mondo dello sport, ma la rivoluzione che apporta al genere è comunque totale. Takamori, infatti, vuole indirizzare le sue capacità di storyteller in un genere di fumetto che fa della drammaticità e del pathos i suoi punti di forza, estremizzando al massimo le componenti sportive degli atleti, enfatizzando l’emotività dei protagonisti, che possono diventare così dei modelli in cui i lettori possono immedesimarsi.

Takamori si inserisce in una diatriba che sta interessando l’intero mondo del fumetto giapponese. In quegli anni, infatti, diversi autori, capitanati da Yoshihiro Tatsumi, hanno intrapreso una battaglia culturale contro il manga inteso come prodotto culturale per bambini, inaugurando una serie di opere, che prendono il nome di gekiga, che hanno un piglio drammatico e serio, e sono pensati per un pubblico adulto.

È sulla base di queste premesse che nel 1966 Takamori sceneggia il primo, vero spokon della storia del Manga: Kyojin no Hoshi, cioè Tommy La stella dei Giants.

La rivoluzione di Asaki Takamori

La storia di Kyojin no Hoshi è piuttosto semplice. Il protagonista è un bambino, Hoshi Hyuma, che, sotto la supervisione del padre Ittestu (un ex giocatore di baseball che ha dovuto rinunciare ai suoi sogni di gloria a causa dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale) diventerà uno dei più forti giocatori di baseball del Giappone, nonché la stella dei Giants, attraverso una serie di allenamenti estremi.

Kyojin no Hoshi è sin da subito un grande successo di critica e pubblico, e questo principalmente per due ragioni. Innanzitutto, utilizzando un bambino come protagonista, Takamori si rivolge a un target di lettori piuttosto giovane, inserendosi nel filone dei manga per ragazzi, intesi come lettura di svago, che continuavano a riscuotere grande successo nonostante le ultime evoluzioni del genere.

Dall’altro lato, però, attraverso la brutalità degli allenamenti che Ittetsu infligge al figlio Hoshi per farlo diventare più forte (celebre l’armatura di ferro per modellare la muscolatura), e l’epica quasi militare delle partite, Takamori dimostra che il fumetto può aspirare a diventare un tipo di narrazione in grado di rivolgersi anche (per non dire soprattutto) agli adulti. Il successo di Kyojin no Hoshi, però, non porta a Takamori quella tranquillità economica che forse avrebbe desiderato.

Negli anni ‘60 essere un autore di fumetti significa ancora lavorare moltissimo e guadagnare pochissimo. Le case editrici sono le maggiori beneficiarie degli introiti delle vendite, e sono solo alcuni, famosissimi autori (come i maestri Osamu Tezuka e Yoshihiro Tatsumi) a godere di autonomia creativa, a guadagnare, tutto sommato, discretamente, e a potersi permettere uno staff di collaboratori.

Takamori per sopravvivere è costretto a lavorare su più serie contemporaneamente, spesso su riviste concorrenti. Per farlo, si cela dietro diversi pseudonimi - come Asao Takamori o Ikki Kajiwara - e per non insospettire le case editrici per cui lavora inventa addirittura dei background fittizi per ognuno dei suoi vari alias.

In questo modo, tra il 1968 e il 1971, mentre è impegnato a sceneggiare Tommy la Stella dei Giants, Asaki Takamori produce una grande quantità di opere destinate a cambiare per sempre il panorama fumettistico giapponese, tra cui: L’uomo tigre, Arrivano i superboys (il primo spokon sul calcio), Il demone del pugilato, Giant Typhoon (un manga sulla storia del Gigante Baba, un famoso wrestler giapponese) e Una pazza vita per il karate. Ma soprattutto dà vita a quello che è, senza ombra di dubbio, il suo vero capolavoro: Ashita no Joe, conosciuto in Italia come Rocky Joe.

In tutte le sue opere, Asaki Takamori dipinge lo sport come una metafora della vita, uno dei mezzi principali in grado di portare un individuo ad autodeterminarsi attraverso l’impegno quotidiano e la disciplina personale. Solamente attraverso l’allenamento, la dedizione ad una causa e una ferrea forza di volontà l’individuo può affrancarsi dalla sua condizione, che il più delle volte, nei fumetti di Asaki Takamori, è misera. Per riuscirci, il protagonista deve letteralmente piangere sudore e sputare sangue per raggiungere il suo obiettivo. Privazioni, sofferenza e tormento sono l’unica strada per il successo, che rimane comunque una gioia effimera. Subito dopo la vittoria, l’eroe deve rimboccarsi di nuovo le maniche e ricominciare ad allenarsi, per non vanificare il lavoro svolto fino a quel momento ed evitare l’onta della sconfitta e quindi del disonore.

Nei manga di Asao Takamori non manca nemmeno una critica politico-sociale al Giappone di quegli anni. All’interno di una capitale ipertecnologica come Tokyo, proiettata verso un futuro radioso grazie alla laboriosità dei suoi abitanti, vengono infatti poste delle baraccopoli abitate da individui ai margini della società, simbolo del degrado economico e sociale ancora ben radicato nella società nipponica. Lo sport, in questo contesto, è per Takamori il veicolo attraverso il quale avere un riscatto nei confronti di una società che li ha sempre snobbati ed emarginati.

Asaki Takamori, su queste strutture narrative, crea un archetipo ben definito, delineando una serie di tratti peculiari comuni, che tutti gli autori di spokon utilizzeranno dopo di lui. Su tutti, spicca la presenza di un allenatore “orco”, che torchia il protagonista con lo scopo di tirar fuori il meglio di lui; la sconfitta come insegnamento, come sprone a non fallire di nuovo, e come caduta prima dell’ascesa; la presenza di avversari disposti a tutto, e che inducono il protagonista ad impegnarsi fino al limite delle proprie capacità, spesso conducendolo alla propria autodistruzione.

Per circa vent’anni, Asao Takamori e il suo modo di intendere il fumetto sportivo sono il faro che illumina tutti coloro che si cimentano nella creazione di nuovi spokon. Gli anni ’70, in questo senso, rappresentano una sorta di età dell’oro, e il baseball, la disciplina principe in Giappone, monopolizza sin da subito la quasi totalità delle storie di sport dei nuovi autori. Questi fanno soprattutto leva sul sogno di ogni ragazzino giapponese: giocare le finali del campionato liceale all’interno del mitico stadio del Koshien (storico stadio di baseball situato a Nishinomiya). Tra questi, i più famosi sono i fumetti di Shinji Mitsushima, che dà vita al classico Dokaben.

Complice anche l’oro olimpico di Tokyo del 1964 e la presenza di una nazionale di pallavolo femminile tra le più forti del mondo, fioccano gli spokon sul volley: nel 1969, Shiro Jinbo e Akira Mochizuki pubblicano, sulla rivista Shojo Furendo, The Sign is V; sulla rivista concorrente invece, Magaretto, Chikako Urano disegna N°1: Attack no. 1!, che conosciamo con il nome Mimì e la nazionale di pallavolo.

L’influenza di Takamori sugli spokon successivi è tale che gli autori successivi iniziano ad abusare delle sue strutture narrative, tramutandole in stereotipi e cliché. Lo spokon, lentamente, inizia una parabola discendente che potrebbe portarlo all’oblio editoriale.

L’unico autore che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 riesce a distinguersi è Mitsuru Adachi. Adachi rimane nel solco della tradizione tracciata da Takamori, aggiungendovi però un tocco personale fatto di lirismo, poetica e avvenimenti presi dalla vita quotidiana. I suoi manga, per lo più incentrati sul baseball, vedono lo sportivo totalmente proiettato raggiungere l’obiettivo che si è prefissato, come nelle storie di Takamori, ma con una vita anche al di fuori dello sport.

Nonostante l’idea di raggiungere il fantomatico Koshien rimanga un punto fisso della sua narrazione (e una vera e propria ossessione), Mitsuru Adachi cala i protagonisti delle sue storie anche nella vita di tutti i giorni, dove la scuola, gli amici, la famiglia e i primi amori (con le loro emozioni e le loro delusioni) sono una componente fondamentale – e addirittura più importante – del semplice risultato sportivo. Se nei fumetti di Asaki Takamori vincere nello sport equivaleva a vincere nella vita, in quelli di Adachi è l’equilibrio nella vita di tutti i giorni a poter consentire all’atleta di vincere anche nello sport.

L’arrivo di Holly e Benji cambia tutto

Ma il vero anno spartiacque è il 1981. In quell’anno, infatti, Yoichi Takahashi produce la prima serie di Capitan Tsubasa, che rivoluziona, di fatto, il genere sportivo. Se i fumetti di Asaki Takamori sono il Big Bang che porta alla nascita dell’universo dello spokon, Holly e Benji è la rivoluzione copernicana che sconvolge, in pochi anni, tutti i punti fissi dello storytelling sportivo giapponese su fumetto.

Forse l’aspetto più curioso di Capitan Tsubasa è il fatto che la sua popolarità a livello nazionale e internazionale derivi da elementi che normalmente verrebbero bollati come difetti. La distorsione del calcio giocato di Holly e Benji diventa il suo vero punto di forza, nonché quello che i simpatizzanti, soprattutto del cartone animato, ricordano con più nostalgia: i campi lunghi chilometri, costruiti in cima a una collina; i palloni deformati in ovali incandescenti, in grado di sfracellare le mani del portiere avversario e bucare la rete alle sue spalle; i tiri incrociati e le catapulte infernali; partite lunghe anni interi, inframmezzate da flashback altrettanto infiniti.

Inoltre, l’opera originale, il manga di Yoichi Takahashi, mette ancora più al centro lo sport rispetto alla sua controparte animata. Se il cartone si dilunga in azioni infinite e ripetute fino alla nausea, il manga è l’esatto opposto. Le partite sono disegnate in maniera diretta e dinamica, con splashpage che colpiscono il lettore per la loro vivacità grafica, per sottolineare la velocità della partita e dare l’illusione della progressione fulminea delle azioni di gioco.

Capitan Tsubasa è un manga dinamico e vivace, uno spokon che mette per la primissima volta, al centro di tutto, lo sport praticato per il puro piacere di praticarlo, e per questo una frattura totale rispetto ai canoni fissati da Takamori. I lettori giapponesi, abituati a baseball, arti marziali, sudore, lacrime e sangue, rimangono spiazzati da un fumetto mai letto prima.

Tsubasa, il protagonista della storia, è un bambino letteralmente innamorato del pallone. Non ha nessuno allenatore “orco” che lo torchia e lo costringe a giocare, e la grazia priva di sforzo con cui esprime il proprio tipo di calcio lo rende a tutti gli effetti in una sorta di incarnazione stessa del Dio Pallone. Se negli spokon precedenti lo sport era visto principalmente come sforzo e sacrificio, in Capitan Tsubasa viene specificato che il calcio è un sogno, che lo sport è prima di tutto un divertimento e che il pallone, se vuoi, è il tuo migliore amico.

In Capitan Tsubasa sia a livello narrativo che estetico conta solamente il calcio giocato: i protagonisti della storia sono solamente uno strumento di cui il calcio si serve per mostrarsi in tutta la sua bellezza ad una nazione che, fino a quel momento, probabilmente non l’aveva capito fino in fondo.

Forse è proprio questa sua cifra stilistica a portare Capitan Tsubasa ad avere un impatto enorme non solo nel mondo del fumetto, ma anche in quello dello stesso sport giapponese. I bambini e gli adolescenti che lo leggono su Weekly Shonen Jump, la rivista su cui Capitan Tsubasa viene pubblicato settimanalmente, per la maggior parte non hanno infatti la più pallida idea di cosa sia un pallone da calcio.

Nel 1968, la Nazionale di Calcio giapponese aveva ottenuto uno strabiliante terzo posto nel corso delle Olimpiadi di Città del Messico, ma la sua popolarità – che aveva portato Asaki Takamori, tra le altre cose, a scrivere Akakichi no Eleven, cioè Arrivano i Superboys, il primissimo spokon sul calcio – era stata un fuoco di paglia. Il calcio nipponico, negli anni in cui Capitan Tsubasa esordisce, vive in una condizione di semiamatorialità, ed è proprio il manga di Yoichi Takahashi uno dei propulsori a dare una spinta decisiva al calcio giapponese.

Nel 1981, prima della pubblicazione di Capitan Tsubasa, i giapponesi che vogliono giocare a calcio sono solo poche migliaia. Ma dal 1981 al 1987, anno in cui viene pubblicata la prima serie di Holly e Benji, i ragazzini che a scuola iniziano a giocare a pallone diventano più di 250mila.

Holly e Benji, dove la nazionale giapponese alla fine riesce a conquistare la Coppa del Mondo, è una piccola profezia auto-avverante in cui si possono leggere le aspirazioni e i sogni sportivi di un intero paese. Siamo negli anni ’80, e il Giappone è ormai una potenza mondiale e leader di mercato. Il reddito pro capite ha superato quello degli Stati Uniti, e molti analisti ritengono che, nel giro di pochi anni, il Giappone sia destinato a divenire la prima superpotenza del mondo. Proiettare la nazionale juniores di calcio sui tetti del mondo è la naturale conseguenza del modo di pensare dei giapponesi in quegli anni.

Non è un caso, in questo senso, che l’exploit della Nazionale giapponese, con la vittoria della Coppa d’Asia nel 1992 e la prima, storica partecipazione ai Mondiali di Francia ‘98, coincida con la maturità della generazione che, per prima, è cresciuta leggendo Capitan Tsubasa. Hidetoshi Nakata, che di quella generazione, era la stella indiscussa, più volte ha dichiarato che, da ragazzino, trascorreva intere giornate nel tentativo di emulare la tipica rovesciata di Tsubasa.

E se fino a qualche tempo fa Yoichi Takahashi si scherniva ancora, dichiarando che il suo contributo alla nascita e alla crescita della Lega Calcio giapponese è sempre stato, tutto sommato, marginale, ci ha pensato proprio la J-League a conferire a Capitan Tsubasa il degno tributo, con una serie di spot televisivi in cui le varie stelle del campionato si dilettano nel ricreare i tiri più famosi dell’universo di Holly e Benji.

L’importanza di Slam Dunk

Dopo il successo planetario di Holly e Benji, lo spokon si è mosso sempre in relazione al fumetto di Yoichi Takahashi. Le strade erano quindi sostanzialmente due: produrre fumetti sportivi sulla falsariga di Capitan Tsubasa, presentando una serie di sport sopra le righe fatta di campioni dalla tecnica divina; oppure seguire il percorso diametralmente opposto, optando per uno storytelling più aderente alla realtà.

Non mancano esempi né dell’una né dell’altra direzione. Il recentissimo Kuroko no Basket, ad esempio, è una sorta di Holly e Benji proiettato su di un campo da basket. Il suo autore, Tadatoshi Fujimaki, mostra la bellezza della pallacanestro attraverso una serie di personaggi che, oltre ad amare questo sport, sono in grado di effettuare super-tiri e mosse speciali, segnando da qualsiasi parte del parquet. Lo stesso discorso può essere applicato per Eyeshield 21, del talentuoso Yusuke Murata, il quale ci parla di football americano attraverso una serie di partite e giocatori eccezionali.

Takehiko Inoue invece, all’inizio degli anni ’90, compie il percorso inverso, scegliendo la strada del realismo. Inoue, influenzato profondamente dal fumetti di Shinji Mitsushima, è un fanatico del basket, e la leggenda vuole che si faccia inviare dall’America le copie di Sports Illustrated. È un appassionato della NBA, e quando la casa editrice Shueisha decide di affidargli una serie settimanale su Weekly Shonen Jump, decide quindi di disegnare uno spokon sul basket, cioè Slam Dunk.

Slam Dunk diventa, nel giro di pochi anni, la serie a fumetti più venduta di tutto il Giappone, assieme a Dragon Ball. Esattamente come Capitan Tsubasa qualche anno prima apre ai giovani lettori giapponesi l’amore nei confronti della pallacanestro, introducendoli alla sua cultura (complice anche l’exploit del Dream Team di Barcellona nel 1992).

All’interno del fumetto di Inoue sono presenti giocatori, azioni e casacche che ricordano in tutto e per tutto quelle della NBA. L’autore giapponese non si fa scrupoli a inserire squadre liceali che sono a tutti gli effetti la trasposizione dei Chigago Bulls, dei Los Angeles Lakers o dei Boston Celtics. I giocatori sono creati secondo caratteristiche e potenzialità di quelli reali, e per i momenti clou delle sue partite, Inoue decide di replicare alcuni dei momenti più iconici del basket americano degli ultimi anni. Ad esempio, Kogure che effettua il fondamentale tiro da 3 contro il Ryonan (e che si rivelerà fondamentale per la vittoria della sua squadra) ricorda chiaramente John Paxton in gara 6 contro i Suns di Charles Barkley.

Il modo di intendere lo spokon di Takehiko Inoue è quello che, soprattutto in questi ultimi anni, sta riscuotendo maggiore successo di pubblico e di critica. Sono molti gli spokon saliti agli onori della ribalta seguendo le orme di Slam Dunk. In questo senso, è doveroso ricordare alcuni dei titoli più importanti, come Haikyū!! - L'asso del volley, di Haruichi Furodate, e Ping Pong! di Tayo Matsumoto.

Il più interessante tra gli spokon pubblicati negli ultimissimi anni in Giappone è probabilmente Giant Killing, di Masaya Tsunamoto e Tsujitomo, che racconta di una squadra di calcio fittizia (l’ETU) che nel disperato tentativo di non retrocedere ingaggia come allenatore la sua più grande stella del passato. Il duo artistico sta dando vita a un’opera che contiene tutti gli elementi stilistici della storia degli spokon, proiettandosi anche oltre, aspirando a divenire il nuovo termine di paragone per coloro che decideranno di cimentarsi in questo genere narrativo.

Il calcio di Giant Killing è realistico e viene esplorato in tutti i suoi molteplici aspetti. In questo senso, il calcio giocato è visto sia come sacrificio e sforzo, ma anche come divertimento. Il collettivo è ciò che consente alla squadra di vincere le partite, ma la giocata del singolo fuoriclasse, un tiro fortuito o un episodio a sfavore sono elementi imprevedibili in grado di sconvolgere i piani tattici degli allenatori.

Il realismo di Tsunamoto e Tsujitomo arriva al punto da mostrarci come funziona una società di calcio dal punto di vista amministrativo e finanziario, facendo luce sulla complessità che comporta la gestione di un club sportivo. Il tutto senza tralasciare le dinamiche riguardanti i rapporti tra la società, la tifoseria e gli ultras.

Anche se non è ancora possibile dare un giudizio definitivo su Giant Killing, essendo un fumetto in corso d’opera, è probabile che l’opera di Tsunamoto e Tsujitomo andrà ad inserirsi di diritto tra i tasselli fondamentali della storia dello spokon, alla stregua dei manga di Asaki Takamori, di Yoichi Takahashi, di Mitsuru Adachi e Takehiko Inoue.

Ognuna di queste opere ha influenzato profondamente la società giapponese che le ha prodotte, lasciando su di essa un segno indelebile. Nonostante sia un genere giovane e ancora poco considerato, lo spokon è un prisma ineludibile attraverso cui guardare la storia del sport nipponico e del Giappone nella sua totalità, con le sue ambizioni, le sue paure, i suoi cambiamenti.

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