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Le contraddizioni della rivalità Sinner-Alcaraz
10 giu 2025
E la loro storia sembra appena agli inizi.
(articolo)
16 min
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IMAGO / UPI Photo
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La domenica pomeriggio in città c’è una strana quiete. Per le strade poche persone, fuori dalle scuole i cartoncini con le sezioni di voto ma le urne sono mezze vuote. Dalle case ogni tanto si sente un urlo ma non c’è il calcio in tv, solo due esseri umani su un campo da tennis che si tirano la pallina incatenati per l’eternità, e noi davanti a loro a cercare di star dietro a questo infinito serpente di dritti, rovesci, game e set che prendono un andamento enigmatico.

Siamo seduti sui divani, sulle sdraio, sulle sedie del tavolo della cucina, o soli con streaming precari sdraiati sul letto singolo di stanze universitarie. O anziani dentro i circoli Arci, tante teste bianche rivolte verso il televisore appeso. Nel televisore vecchio di case al mare, o su proiettori in cui i corpi dei giocatori sembrano aderire al muro. Con addosso puntati i ventilatori, in ciabatte, mangiando la prima anguria di stagione.

Il senso del tempo scompare, o cambia. Abbiamo iniziato a guardare la partita dopo pranzo magari un po’ assorti, e quando arriviamo a sera abbiamo attraversato un tale spettro emotivo che ci sentiamo trasformati. Chi ha tifato con più intensità per Sinner si è sentito dentro un’operazione a cuore aperto. Alle 18 tutto va per il meglio; alle 19.12 l’operazione è praticamente riuscita; alle 19.16 qualcosa inizia ad andare male, i segnali vitali cominciano a precipitare proprio quando sembrava fuori pericolo. Alle 19.39 altri pessimi segnali, le condizioni non migliorano. Alle 20.33 il paziente ha una reazione, ancora lotta per la sua vita. Alle 20.57 il paziente è deceduto.

Dentro questo elettrocardiogramma c’è stato tutto quello che una partita di tennis può offrire. Sinner e Alcaraz hanno raggiunto il loro limite psico-fisico, e poi lo hanno superato, spinti reciprocamente in un territorio di tennis che forse non pensavano nemmeno di poter abitare - in un climax che appartiene a tutte le partite indimenticabili.

Cinque ore e mezza di tennis sono un’allucinazione. Davanti ai nostri occhi la realtà ha cominciato a slabbrarsi, e in certi momenti la partita non sembrava nemmeno reale. Il contrasto di stili preannunciato alla vigilia si è relativizzato, e la partita è diventata pura velocità. Uno colpiva forte, l’altro ancora più forte, come se la potenza di un colpo dell’uno producesse la maggiore potenza del colpo dell’altro, in un’ascensione da film Marvel. «Io tiro forte, ma lui mi torna forte, cazzo» dice Sinner esasperato, al quinto set, mentre Alcaraz sembra aver scalato un'altra marcia. E poi la raggiunge anche lui, dando di nuovo fondo a se stesso, verso la fine del quinto. Tornando a due punti, a due soli punti dalla vittoria. E sul punto di morire, la competizione rinasce; sul punto di perdere, un giocatore riesce a sopravvivere al punteggio che si accumula, combatte l’inerzia, la stanchezza. La partita diventa un’entità a sé, un infinito Samsara di morti e rinascite - che comincia però da un momento ben preciso, quando cioè alle 19.12 Jannik Sinner ha tre match point e in qualche modo Carlos Alcaraz riesce a districarsi da quella situazione, e rinasce.

«Non dormirò bene stasera» ha detto Sinner, e anche noi, quando ci siamo messi a letto, eravamo ancora scossi. I nostri occhi così pieni di tennis che continuavamo vedere una pallina gialla filare sopra a un campo rosso e questi due tennisti scambiarsi dritti fotonici su un’isola infuocata che va alla deriva, mentre il mondo finisce, la Freedom Flottilla viene arrestata dalle forze israeliane e un tennista spagnolo agita il pugno verso una folla festante, e digrigna i denti come Feyd-Rautha di Dune nell’arena di Arrakis. Qualcuno avrà provato a rigiocare i match point nella propria testa, ma sicuramente sarà stato difficile ricordare, restituire a quei punti un ricordo nitido e dai confini meno incerti. È stata peggio quella risposta sbagliata di rovescio, oppure il dritto d’attacco troppo corto?

Di Maio ha scritto una verità indubbia, e cioè che il tennis è il mito delle occasioni perse. Esiste tutta una storia del tennis alternativa a quella realmente accaduta. Secondo Leibniz quello attuale è solo uno degli infiniti mondi possibili che vivono nella testa di Dio. Se questo è il mondo che ha scelto Dio, ci sono dei mondi deviati che esistono oltre la fisica, come quello in cui Federer ha convertito uno dei suoi match point contro Djokovic a Wimbledon nel 2019, oppure agli US Open, quando Djokovic ha tirato quella risposta a occhi chiusi sulla riga; oppure un mondo in cui McEnroe ha battuto Lendl al Roland Garros nel 1984, vincendo il torneo di Parigi per la prima volta, completando la sua stagione perfetta. Un mondo in cui i fantasmi di quel match non tornano a visitarlo, la notte, mentre cerca di dormire nel suo letto di una stanza d’albergo di Parigi.

Il mondo che abitiamo, però, è quello in cui Sinner non ha vinto pur avendo avuto tre match point consecutivi a disposizione. Non era mai successo nella finale di uno Slam dell’era Open. E questo è uno dei motivi per cui la finale è stata celebrata come una delle più belle di sempre: perché a fronte di uno spettacolo grandioso, prodotto da uno sforzo titanico di entrambi i giocatori, lo sport è spietato e decreta comunque un vincitore e uno sconfitto e la linea è sempre netta. Sinner ha vinto due punti più di Alcaraz, e forse si può persino dire che abbia giocato complessivamente meglio, ma ha perso. Dopo il match aveva gli occhi rossi e l’aria derelitta, mentre Alcaraz non ha mai smesso di ridere. Federer, che è stato spesso dalla parte del rimontato, sui social ha scritto che dopo una partita simile ci sono tre vincitori: Alcaraz, Sinner e il tennis in generale.

Un pensiero nobile, che contiene una parte di verità, ma anche parziale e un po’ consolatorio. Sinner perde la sua prima finale Slam e la sua quinta partita consecutiva contro Alcaraz, e perde soprattutto in un modo perverso, con la sensazione di avere il destino in mano, che gli bastava un solo, ultimo, colpo perfetto, in una partita di colpi perfetti, per chiudere la partita.

E non è chiaro stabilire un confine certo tra le colpe di Sinner e i meriti di Alcaraz. Quando e cosa avrebbe potuto fare meglio, e quanto i colpi del suo avversario, in quei momenti, sono stati indifendibili?

Questo è un altro motivo per cui è stata amata questa partita. E ora proviamo a passarli in rassegna. Forse nessuno sport ti restituisce la stessa sensazione di fragilità dell’uomo rispetto alle cose - e quindi l’esistenza di Dio, o come si chiama quella forza superiore che vuole farti andare estremamente vicino a un traguardo solo per togliertelo all’ultimo istante. Farti sembrare tutto così volatile, effimero.

Durante il torneo di Roma un giornalista ha chiesto a Sinner perché ripete sempre quella frase, e cioè che «le cose nel tennis possono cambiare facilmente». Lui dà una risposta intrisa di una gravità quasi monacale. Parla della fragilità del corpo, di come lo strumento del suo lavoro possa abbandonarlo da un momento all’altro senza che ci si possa far niente; ma parla anche delle partite, schiocca le dita, lo ha ripetuto anche nella conferenza post-finale, interrogato sulla sconfitta contro Djokovic a Wimbledon dopo essere stato sopra di due set a zero: «Mi ha insegnato molto su come le cose possano cambiare velocemente». È così che Sinner applica il suo dominio, i suoi continui 6-0? Allontanando i match dalla loro intrinseca volatilità?

Sinner parla con l’aria completamente devastata, triste come non lo era mai stato. È il sistema del punteggio che ha il tennis, uno dei suoi aspetti più bizzarri e respingenti per chi non segue, ad aver reso questa partita così incerta fino alla fine. Il grafico qui sotto riassume bene la fatica immane che richiede vincere una partita, e al contempo quanto questa fatica possa alla fine rivelarsi inutile. Puoi vincere quanti punti vuoi, ma conta solo chi ha vinto l’ultimo. Sinner ha vinto 193 punti, ma dovevano essere 194. Alcaraz ha vinto 191 punti, e non gliene è servito nessuno in più. Trovare la logica a questo apparato che va contro la logica è il motivo per cui ci piace così tanto parlare di tennis.

Nel 2004 Guillermo Coria non riuscì a vincere il Roland Garros nonostante due match point a favore e pur avendo vinto 14 punti più di Gaston Gaudio. La stessa differenza di punti che ci fu tra Federer e Djokovic nel 2019. Ci fu addirittura una partita tra Berdych e Federer in cui il ceco riuscì a vincere e a fare 6 game in più dell’avversario pur avendo fatto 7 punti in meno.

Puoi sempre vincere da una situazione compromessa, puoi sempre perdere una partita che pare nelle tue mani. Ed è per questo che durante la finale, quando erano sotto nel punteggio, i due tennisti si spronavano con la tipica gestualità ossessiva dei campioni di tennis. Ai microfoni Alcaraz ha ripetuto spesso l’espressione: «Go for it». Come se visualizzasse la strada intricata per arrivare a vincere la partita, e dovesse infilarcisi “senza paura” - ma soprattutto senza capire del tutto razionalmente come arrivarci. Seguendo l’istinto, o meglio: la parte profonda del suo talento.

Per questo quando è riuscito a vincere il game in cui ha annullato i match point agitava il pugno verso la folla come se avesse vinto. Si è messo al centro del campo e ha voluto mostrare il pugno a ogni singolo angolo dello stadio, come se la partita la stessero rimontando insieme. Una sorta di dissociazione mentale - nel game successivo Sinner avrebbe servito per il match - ma una dissociazione efficace, visto che da quel momento in avanti si comincia a giocare nell'eden mentale di Alcaraz e la partita entra in una dimensione completamente diversa.

Una dimensione in cui Sinner deve gestire l’uragano di Alcaraz, la sua furia, e riuscire a piegarla a proprio vantaggio; e dall’altra Alcaraz deve invece riuscire a rompere il muro fatto di aggressività e ansia tennistica eretto da Sinner, e per riuscirci deve entrare in un altrove mentale. Un territorio in cui si gioca un tennis che non esiste. E questo è un contesto più favorevole ad Alcaraz, così come il punteggio di controllo e gestione dei singoli punti dei primi due set era favorevole a Sinner.

Per questo la reazione di Sinner nel quinto set è stata un momento quasi paradossale, che ha reso tangibile quell’idea di superamento che è alla base di grandi partite fra grandi rivali. La sensazione che i due tennisti stiano infrangendo i propri limiti di continuo, spinti dal livello dell’avversario. Dopo aver mancato tre match point, dopo aver subito una rimonta di due set, arrivato ormai alla sesta ora di gioco, tutto convergeva contro Sinner: non ha mai vinto una partita oltre le tre ore e cinquanta: zero vittorie e sei sconfitte. A inizio set si è trascinato in panchina a bere acqua di cetriolini per combattere i crampi. Per questo è stato un momento assurdo, quel controbreak arrivato quando Alcaraz serviva per il match.

In quel momento abbiamo avuto la sensazione, tangibile, che l’onda di Sinner fosse di nuovo troppo alta per Carlitos. Che Jannik era riuscito a rompere il proprio limite davanti ai nostri occhi - forse in quel punto del controbreak in cui recupera una palla corta ben fatta di Alcaraz. La recupera mentre il suo avversario non ci crede nemmeno per un attimo che ci sarebbe arrivato. La recupera diventando, solo per un attimo, più Alcaraz che Sinner.

A due punti dal match, sembra la volta buona, ma poi succede ancora qualcosa. Si sono giocati 384 punti ma se ne possono comunque individuare alcuni che hanno rappresentato una svolta decisiva nel match. Quello sul 30-30 e 6-5 Sinner. Quello in cui Jannik ha tirato una risposta di dritto incrociato che sarebbe stato punto con tutti, e invece quello allaccia la palla con un chop di dritto che viaggia in aria teso e piove verso l’incrocio delle righe opposto. C’è un vuoto in quel momento, un’intermittenza. Sinner reagisce stranamente in ritardo. Non se lo aspetta, non è un colpo che esiste. Così si passa da matchpoint Sinner a 40-30 Alcaraz. Quanto è casuale quel colpo, quanto è il frutto di fortuna? Trattandosi di Alcaraz dobbiamo dire: per niente. E questo giro di pensiero ben riassume l’esperienza Alcaraz: in certi momenti tira dei colpi così impossibili che ci sembrano frutto del caso, ma sono così frequenti nel suo gioco che dobbiamo accettare la sua capacità di materializzare l’impossibile.

Alcaraz, però, non ci può arrivare da solo. È Sinner a portarlo a quel livello proibitivo di velocità e inventiva.

Da questo punto in avanti Alcaraz entra in una soglia liminale al di sotto del pensiero razionale e della normale fisica, come era successo già nel tiebreak di Pechino, o nella finale di Wimbledon con Djokovic. Nole lo aveva detto: quello che mi ha colpito è come ha giocato quando ha dovuto chiudere la partita. Quando si arriva sul rettilineo finale, i tempi di reazione cognitivi di Alcaraz diventano ingestibili, ed è lo stato che lui ricerca in tutta la partita, in tutto il suo gioco, arrivare a quel momento in cui produce un vincente dietro l’altro, e l’avversario smette di esistere e può solo restare fermo ad ammirare la sconfitta contro una creatura divina.

Il contrasto di stili esiste, ma quando Sinner e Alcaraz giocano contro passa per delle sfumature. La partita è soprattutto velocità, la morsa di intensità psico-fisica e cognitiva, dentro cui si tirano le palle. Ed è un test reciproco a sopravvivere più a lungo all’interno di questo mondo in cui manca ossigeno, in cui si gioca solo negli ultimi centimetri di campo a un livello di pressione semplicemente mai visto. Chi rallenta è morto. È vero: è un pattern che esiste ormai da trent’anni. Già Agassi era descritto come una specie di mostro che col ritmo da fondo campo stava strangolando l’arte del gioco, ma il tennis funziona per evoluzioni progressive, e Alcaraz e Sinner stanno portando quella velocità alle sue estreme conseguenze, con dritti spesso sopra le cento miglia orarie.

Ci sono due aspetti a creare questo contesto. Il primo è un servizio non ancora troppo efficace per nessuno dei due, e soprattutto per Alcaraz, intrecciato al loro talento in risposta, che addensa l'importanza di ogni quindici e aumenta l'intensità richiesta ai due giocatori. Ma è soprattutto Sinner a creare questo contesto. La partita si gioca nell’universo del suo tennis pressurizzato. Dopodiché Alcaraz deve riuscire a tirarsi fuori da questa morsa, allungando lo scambio, o tirandosene fuori con una palla corta inchiodata, o un colpo inventato da zero, che non esiste in nessun libro e nessun pensiero.

Parlare di "variazioni", intese come decelarazioni, ha ormai ben poco senso. C’è un dato semplice da leggere: Sinner ha vinto tre punti più di Alcaraz negli scambi entro i quattro colpi, e tredici punti in meno negli scambi oltre i quattro colpi. La superficie ha aiutato Alcaraz, ma non nel senso in cui si credeva. Non è stata una questione strategica o di variazione, ma il fatto di avere più tempo per recuperare e tirare fuori l’arsenale contro-offensivo. Appoggiarsi al rimbalzo alto per assorbire l’aggressività di Sinner sui primi colpi e rilanciare con ulteriore aggressività. Questa dinamica ha raggiunto il suo apice nel finale del quinto set, e l’andamento in climax è un altro dei motivi per cui la partita è stata definita da più parti come una delle più belle della storia del tennis. Il motivo per cui Andre Agassi, sugli spalti, era sull’orlo delle lacrime. Non conta però solo la qualità dello spettacolo ma il suo significato.

Guardando la partita di domenica percepivamo di essere dentro qualcosa di storico. Non solo, appunto, per il livello drammatico tra i due, ma per il racconto che circondava la partita. Il fatto che fosse la prima finale Slam tra il numero uno e il numero due del mondo, e tra due talenti generazionali che da tre anni si spingono reciprocamente al superamento del limite. E questo aspetto sono riusciti a esibirlo in maniera chiara davanti ai nostri occhi usando il campo da tennis come micromondo. La narrazione sulla partita ha coinciso con la partita stessa, il significante col significato - e quante volte possiamo dire che questo succeda, nello sport?

Abbiamo rivissuto sensazioni di qualche anno fa, quando il tennis era scandito dalle rivalità tra titani. Sono impressioni specifiche: la sensazione che il tennis è più dell’espressione di un talento individuale, e che due grandi giocatori possono produrre uno spettacolo di coppia che finisce per superarli, e che non somiglia al tennis che guardiamo ogni giorno ma ne è la versione iperbolica, stirata verso l’allucinazione.

E come in ogni rivalità, non c’è equilibrio. C’è un dominatore e un dominato. I ruoli in questo momento sono chiari: Alcaraz ha vinto contro Sinner la sua quinta sfida consecutiva e gli ha inflitto la prima sconfitta in finale Slam. La partita ci ha mostrato un equilibrio praticamente assoluto, pur nella superficie meno preferita di Sinner, però Alcaraz ha vinto ancora e la partita peserà tanto nel risultato quanto nella sua forma. È una rivalità fatta di contraddizioni, che finiscono però per pendere da un lato solo. Sinner è forse il giocatore migliore, tutto considerato, ma è indietro negli scontri diretti. Ha giocato meglio sulla superficie preferita del suo rivale, ma ha perso ancora. Vince con tutti gli avversari, ma perde contro Alcaraz, che invece con gli altri ha un andamento decisamente più ondivago. La differenza, allora, sembra giocarsi soprattutto sullo stato mentale che i due riescono a tenere quando il tennis si avvicina all’enigma finale della vittoria. Per semplificare: Alcaraz per il momento riesce a esaltarsi di più nella lotta punto a punto. E per stato mentale intendiamo la condizione psico-fisica e la capacità cognitiva di manipolare la velocità.

La differenza, probabilmente, sta in quel livello misterioso che riguarda come l’uno fa giocare l’altro. Il rapporto tennistico tra Sinner e Alcaraz. Sinner - nel solco di Borg o di Federer - è un tennista della solitudine, che ambisce alla perfezione e si esalta nell’isolamento; che visualizza un tennis astratto fatto di esattezza tecnica e geometrica; Alcaraz - nel solco di McEnroe o Nadal - è un tennista dell’esaltazione creativa, dell’entusiasmo nella lotta, ma che ha sempre bisogno dell’altro per raggiungere quelle vette che Sinner invece raggiunge anche da solo, in modo semi-meditativo. Ci sono anche statistiche a supportare lo schema: secondo questi dati di Tennis Insight, la qualità dei colpi di Alcaraz sale contro Sinner, e viceversa quella di Sinner scende contro Alcaraz. Domenica Jannik sembra aver scalato un altro gradino, e quando Alcaraz ha detto: «Non posso battere Jannik Sinner per sempre. Farà i compiti a casa e tornerà più forte» stava parlando in parte già del presente. Sinner ha già fatto molti dei compiti a casa necessari per vincere - a parte quel servizio che potrebbe essere il vero ago della bilancia della rivalità.

Però Sinner ha perso di nuovo, e questo resta. Tra qualche giorno, quando l’enorme delusione della sconfitta passerà, probabilmente riuscirà a godersi anche qualcosa del modo in cui la partita è stata raccontata. Sentirsi parte di qualcosa di grande. In cuor suo, però, forse sa che per quanto ammiri Alcaraz, che questa rivalità serve più al suo rivale che a lui. Per questo suonano così sincere e profonde le parole di Carlitos alla fine, ancora sporco di terra del Philippe Chatrier: «È un privilegio condividere questo campo con te e sono felice che riusciamo a riscrivere la storia del tennis. Sei un esempio per me e per tutti quelli che amano il tennis».

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