
Guarda l’avversario negli occhi, i piedi saldi sulla linea di porta. Qualche centesimo di secondo prima che Franck Kessie calci il rigore, Momo Kamara ha un sussulto, mulina le braccia. Poi si tuffa alla sua sinistra, e intercetta il tiro. Lo chiamano “Fabianski”, come il secondo portiere dell’Arsenal di Wenger: non ne ricorda lo stile, forse è solo un riflesso pavloviano di umiltà. Altri compagni dell’East End Lions, la squadra di cui Kamara difende i pali, hanno soprannomi più altisonanti: c’è un Puyol, un Fabregas, un Mahrez e addirittura un Eto’o, che suona piuttosto blasfemo. È l’eroe del momento, perché in fondo ci piacciono le storie un po’ commoventi, e competizioni come la Coppa d’Africa sono il brodo malmostoso in cui fermenta il nostro animo più retorico. Ci affascinano le parabole (estemporanee, a volte) degli outsider, le lacrime, le performance eclatanti - perché inattese. Kamara, da solo, praticamente, ha annullato gli arrembaggi dell’Algeria di Mahrez - quello vero. Lo stile, in fondo il calcio, non sono che aspetti secondari. L’errore di Kessie passa in secondo piano.
L’altro Kamara protagonista del pareggio con la Costa d’Avorio, Musa Noah, è svincolato. La moglie, prima della partenza per il Camerun, si è genuflessa per baciargli le ginocchia. Nella storia - minore, ma così profondamente importante per i Leone Stars - ce lo ha spedito, fornendogli l’assist per il suo gol, arrivato al 93’, a dieci secondi dal fischio finale, Steve Caulker, quattro presenze con il Team Great Britain alle Olimpiadi di Londra del 2012, una sola presenza con la Nazionale maggiore - e un gol - nella partita passata alla storia per il poker - e la rovesciata paranormale - di Zlatan. Sembrava potesse esplodere, diventare una specie di nuovo Rio Ferdinand: qualche problema disciplinare lo ha frenato, la carriera gli è scivolata di mano. Ha scelto di rappresentare la sua terra d’origine, e John Keister non poteva che esserne entusiasta. «Abbiamo lo stesso background», ha detto il tecnico.
Anche John Keister è nato in Inghilterra. Ma la Sierra Leone è la terra dei suoi padri, quella che ha rappresentato, l’unica alla quale - calcisticamente - si sia mai votato. Momo Kamara e Steve Caulker rappresentano due facce della sua esperienza: il meticciato, da una parte, e la gioventù sfrontata, il ricambio generazionale necessario, dall’altra. «Qualificarci per la Coppa d’Africa è parte del mio mandato», ha detto nel 2020, quando si è seduto (per la seconda volta, ma ci arriviamo) sulla panchina dei Leone Stars, «ma l’obiettivo principale è sviluppare la fase di transizione». Transition: una parola-karma, ripetuta costantemente nelle sue interviste. Per certi versi, una parola masticata sempre con le valigie in mano, il mood di chi sa di vivere un’esperienza che potrebbe interrompersi in qualsiasi momento.
La Federazione gli faceva eco: «Vogliamo vedere la squadra qualificarsi per la AFCON in Camerun, ma non stiamo mettendo Keister sotto pressione».
«Sono un fermo sostenitore del fatto che il talento vince sempre, non importa il colore della pelle. Deve esserci l’interesse in quello che si fa, primo», dice Keister parlando del suo ruolo di allenatore, di allenatore nero, di allenatore nero africano, di allenatore nero africano in Africa (anche se in questa Coppa d’Africa, quello di affidarsi a tecnici autoctoni, anziché a santoni e mercenari occidentali, è un trend piuttosto consolidato).
Alla guida degli East End Lions Keister ha vinto, imbattuto, la Premier League della Sierra Leone nel 2020. Aveva bisogno di una rivincita, forse. Nel 2017 gli avevano affidato la panchina della Nazionale, una scelta comunque sempre ammantata di perplessità. Dicevano che non fosse in grado, da solo. Ha potuto allenare i Leone Stars solo in due occasioni, nel suo primo mandato: in mezzo c’è stata una squalifica internazionale della squadra, ma anche a questo arriviamo. E un rapporto burrascoso con la federazione. Dopo un breve interregno del ghanese Tetteh, che era anche stato il suo predecessore, gli hanno affidato nuovamente le redini.
E Keister, nonostante una pressione invece piuttosto grossolanamente malcelata, a qualificarsi ci è riuscito. Non succedeva dal 1996.
Nel 2017, poche settimane dopo la nomina ad allenatore della Nazionale, la Federazione lo ha sospeso per «condotta riprovevole». In una conversazione con due collaboratori, trapelata, aveva accusato Isha Johansen di essere «corrotta». Anni dopo dirà che quel momento, quello in cui ha avuto questa situazione con Isha, è stato il peggiore della sua vita.
Isha Tejan-Cole Johansen è stata la prima donna a capo di una federazione calcistica nazionale. Sorella di Abdul Tejan-Cole, Commissario della Commissione Anti-Corruzione in Sierra Leone, moglie del console di Norvegia e Svezia Arne Birger Johansen, ha una passione decisamente radicata per il calcio. Dopotutto suo padre era stato uno dei co-fondatori proprio dell’East End Lions.
Nel 2004, una decina d’anni prima di essere eletta Presidente, ha deciso di dare vita a un club tutto suo, l’FC Johansen, che doveva essere in prima battuta un rifugio sportivo in cui i bambini nati durante la guerra civile potessero trovare uno scopo di vita. Quattro anni più tardi avrebbero vinto la Swiss Cup Under 16 battendo in finale il Liverpool.
Nel 2013 Isha vince le elezioni federali dopo essere stata dichiarata l’unica candidata effettivamente eleggibile. Il principale antagonista, quello che sembra l’unico candidato, invece, effettivamente plausibile, per molti motivi, è Mohamed Kallon, che in Sierra Leone è - a buona ragione - una specie di leggenda vivente. In un’intervista dice «nessun altro in Sierra Leone può vantare la stessa esperienza nel calcio. La squadra che ho fondato funziona come quelle europee. Migliorerò il movimento sportivo del mio Paese».
Gli organismi federali, però, respingono la sua candidatura per il semplice fatto che non risiede nel paese da almeno 5 anni. «Credo che sia una decisione politicamente motivata, perché il Ministro dello Sport appoggia pubblicamente Isha». E ancora: «Ho dato 19 anni della mia vita giocando per Sierra Leone, ho speso un sacco di soldi per comprare l’FC Kallon e produrre l’80% dei giocatori che ora giocano in Nazionale, e questo è il modo in cui mi ripagano». Dopo le elezioni i due si scontrano durante una sfida tra FC Kallon e FC Johansen, una partita il cui significato tracima dal campo, ovviamente, perché in Sierra Leone il calcio, la politica, il business, sono affare di pochi.
Kallon si lascia fotografare il collo, a suo dire graffiato da Isha. «Non voglio avere mai più niente a che fare con il calcio della Sierra Leone», chiosa Kallon. Che non sarebbe stato così, lo sapeva già.
Figura mitica e controversa, metà Pachamama metà Thomas Sankara, Isha Johansen sembra tagliata per le sfide. Evidentemente, essere la prima presidente donna di una federcalcio non poteva bastare. Le è toccato in sorte di essere anche la prima presidente di una federcalcio minata alle basi da un’epidemia.
Neppure un anno dopo essere stata eletta, nella vicina Guinea ha iniziato a propagarsi l’epidemia da virus Ebola. La Sierra Leone Under 20 doveva giocare una gara di qualificazione alla Coppa d’Africa di categoria. «Forse è perché sono una madre… Non sono sicura che dovremmo mandare i nostri ragazzi là», disse. Le intimarono di non piantare grane.
Presto Ebola arrivò anche in Sierra Leone. Sudore, sangue, fluidi corporei: il calcio, dentro e fuori dal campo, sembrava il contesto di propagazione più congeniale. «Potremmo essere responsabili della moltiplicazione del virus, fermiamo il campionato», disse. Nessuno, ancora una volta, le prestò ascolto.
La Sierra Leone, nel 2014, rientrava nelle prime cinquanta nazioni del ranking FIFA, sopra Senegal e Camerun. Ma durante le qualificazioni per la Coppa d’Africa 2015 cominciarono tutti a trattarli come paria. Le Seychelles annullarono la partita prevista in casa loro quando i calciatori della Sierra Leone erano già arrivati a destinazione. In Repubblica Democratica del Congo, per novanta minuti, incessantemente, dagli spalti i tifosi intonarono il coro «E-bo-la, E-bo-la». Gli avversari si rifiutavano di stringere le loro mani, di scambiare le maglie.
Il capitano di quella Sierra Leone era Kei Kamara. Nato in Sierra Leone, emigrato negli Stati Uniti a 16 anni grazie a un progetto per rifugiati, Kei Kamara è uno dei giocatori-feticcio della MLS, dove ha segnato più di 130 gol, il terzo miglior marcatore della storia della Lega. Ha esordito in Nazionale facendo coppia con Kallon.
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Il compito, insomma, non era dei più facili: mantenere la concentrazione dei compagni, e motivarli, mentre tutto lo stadio ti ruggiva contro. «Ci fanno sentire come se Ebola fosse nei nostri geni. Ovunque tu sia al mondo, dici che vieni dalla Sierra Leone e la gente ti guarda come a dire “Ah, quindi hai Ebola”». Il suo compagno Lahoud, anche lui impegnato all’epoca in MLS, in Costa d’Avorio si finse cestista della NBA, e americano, pur di non incappare in una quarantena preventiva, e nell’odio del pregiudizio.
Nel 2015 Kei Kamara ha lasciato la Nazionale perché non si sentiva «trattato correttamente da parte della Federazione». Poi è tornato, a ritmi alterni, perché al richiamo delle origini, all’onore di rappresentare il suo Paese, probabilmente anche in memoria dei periodi bui trascorsi alla guida dei Leone Stars, non sa resistere.
Era parte della squadra quando nel 2018 la FIFA ha sospeso la Nazionale da ogni match internazionale in attesa che la Federazione risolvesse le sue bagarre politiche interne. La Commissione Anti-Corruzione aveva intimato alla Presidente Isha Johansen e al suo segretario generale di lasciare la carica. I due avevano negato ogni accusa, e ovviamente erano rimasti ancorati ai loro scranni. «Penso che parte degli attacchi che ricevo siano per via della mia tolleranza zero nei confronti della corruzione», aveva dichiarato Isha Johansen, in un inception piuttosto notevole.
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È tornato, Kamara, ed è stato allontanato per motivi disciplinari, che poi sostanzialmente si verificano quando qualcuno di influente dà dei corrotti ai vertici federali. O quando non crede nel progetto, o nelle figure che gli stessi vertici nominano.
È successo anche a Keister. Quando viene esautorato, e sostituito da Tetteh, Kamara si sfoga: «è un buon uomo, ma Tetteh è vecchio e non credo possa farci progredire, portarci a un livello superiore». Inoltre i giocatori vengono trattati come reietti. Non ricevono i pagamenti, addirittura durante i camp di allenamento neppure il cibo.
Apprezzare John Keister dovrebbe essere un gesto naturale, quindi. Quanto spirito d’amor patrio può provare un uomo che - come ha fatto lui, nel 2020 - si prende la rogna di assumere la responsabilità di una squadra in questo ambiente, con questa atmosfera?
La svolta per il calcio della Sierra Leone è arrivata nel giugno del 2021. Keister ha strappato la qualificazione alla Coppa d’Africa con una marcia trionfale di quattro partite da imbattuto, inaugurata da un roboante 4-4 in rimonta con la Nigeria e chiusa da una vittoria contro Benin. E Isha Johansen - nel frattempo invitata a far parte del Consiglio FIFA - ha finalmente lasciato la presidenza della Federazione - il che non significa, necessariamente, che sia un bene di per sé.
Nelle lotte di potere, stranamente, questa volta non si è insinuato Mohamed Kallon, che più volte però è stato suggerito, specie dalla stampa locale, come Venerabile Maestro che avrebbe dovuto fare da mentore a Keister.
L’allenatore, dalla sua, ha continuato a svolgere il suo ruolo con coerenza, facendo perno sulla valorizzazione dei giovani ma anche sulla motivazione dei mostri sacri. Ovviamente, Kei Kamara, oggi trentasettenne, non poteva farsi sfuggire l’occasione di un’ultima passerella con la squadra a cui tanto ha dato.
La forza delle idee di Keister è così prepotente - e forse, quindi, scomoda - che subito dopo aver diramato la lista dei convocati per la Coppa d’Africa ha ricevuto delle minacce di morte. «È davvero molto triste arrivare a questo», ha detto a BBC Africa. «Ho una famiglia, mi prendo cura di questi ragazzi e devo portare a compimento un lavoro. Mi fa arrabbiare, certo, per il percorso che ho fatto, per il mio background. Sento di dover fare qualcosa, ma non so cosa».
Le minacce, a quanto pare, sarebbero da imputare alla mancata convocazione di due giocatori in orbita FC Kallon, uno dei quali è Rodney Strasser, anche passato per il Milan.
«La nostra è una Nazione con un sacco di cicatrici», dice Keister. «La guerra, Ebola, ne abbiamo passate molte. Il calcio non è sempre stato là per dare un po’ di sollievo, e un pizzico di speranza. Noi oggi ci siamo. È questo, l’obiettivo che vogliamo provare a raggiungere».