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Foto di Miguel Medina/AFP via Getty Images
Serie A Daniele Manusia 1 ottobre 2020 6'

Ribery non è ancora sazio

Ribery è un giocatore diverso da quello che conoscevamo al Bayern, ma non per questo meno speciale.

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Sembra passato un secolo, ma quando Franck Ribery si è affacciato per la prima volta sul palcoscenico internazionale, nel 2006, era una novità assoluta. Un ventitreenne partito dal calcio dilettantistico e passato dal campionato turco prima di arrivare, appena un anno prima, al Marsiglia. Ed eccolo all’improvviso titolare per la prima volta con la maglia della Francia nella prima partita del Mondiale. Franck Ribery è brutto, per via di un incidente automobilistico che quando aveva due anni gli ha disegnato la faccia con due cicatrici ortogonali, ma anche per un taglio di capelli medievale. Anzi, per gli standard del calcio contemporaneo e della formalissima e classista società francese, Ribery è impresentabile, non sa sorridere, sembra piuttosto che digrigni i denti storti, e poi parla male, sbaglia sintassi, ha l’accento di una racaille di periferia. E poi è convertito all’Islam. Ma in quel momento sono tutte cose perdonabili: Ribery è la spontaneità, la rivincita del talento e della perseveranza, una boccata d’aria fresca in un sistema rigido e forse troppo professionalizzato. Il suo inizio coincide con la fine di Zidane, della generazione di Makélélé, Viera e Thuram, e in campo porta quell’imprevedibilità che alla Francia mancava, un senso di urgenza a ogni palla toccata che poi avrebbe contraddistinto il suo stile negli anni a venire.

 

Ribery giocava con l’energia di chi non ha niente da perdere, ogni azione la conduceva a perdifiato e finiva con la bocca aperta e le braccia larghe, per permettere alla gabbia toracica di dilatarsi e far entrare più aria possibile. Con le spalle larghe sporgenti come se indossasse un’armatura sotto la maglietta resisteva a duelli fisici con giocatori alti il doppio di lui (che è appena uno e settanta), alternava un controllo tecnico finissimo, che con gli anni è migliorato, alla leggerezza di giocate a un tocco. Era troppo rapido di gambe, troppo elettrico, troppo sensibile con entrambi i piedi. «Da quando sono piccolo ho imparato a lottare», ha detto anni fa. «Niente è mai stato facile per me. Non dimentico da dove vengo, mi è sempre piaciuto faticare. Sono uno che si guadagna le cose». Trovava sempre una via d’uscita creativa, un modo nuovo per girarsi e far passare la palla oltre l’avversario che lo marcava: con un gioco di prestigio zidanesco o di pura esplosività, con una velocità che strappava la pelle ai difensori.

 

 

E sembra passato un secolo anche da quando sono venuti fuori anche i lati meno piacevoli del suo carattere, e la Francia gli ha fatto pagare fino in fondo – e qualcosa oltre – tutti i suoi errori. Dodici anni dopo, i suoi primi allenatori hanno raccontato che era stato cacciato dal centro di formazione del Lille per i brutti voti e dopo 250 avvertimenti disciplinari. E anche dopo aver rotto il braccio a una compagna. È venuto fuori che una escort che gli avevano “regalato” per il ventiseiesimo compleanno era (a sua insaputa) minorenne – e che quando si sono rivisti, in seguito, lei ha «faticato» a farsi pagare – poi c’è stata l’insubordinazione del Mondiale 2010, il rifiuto ad allenarsi dopo che Domenech aveva cacciato Anelka, di cui Ribery è stato considerato uno dei principali fomentatori. È stato allontanato dalla Nazionale per poche partite e la stampa lo ha dipinto come il bullo che torturava l’angelico Yoann Gourcuff, Valbuena ha raccontato le sue prese in giro costanti. È diventato il simbolo di una generazione di calciatori ignoranti e violenti, di coatti che hanno disonorato la maglia francese: Nasri, Benzema, Evra.

 

Poi è tornato in Nazionale, dice di essere maturato – «Ho capito molte cose lo scorso anno, soprattutto che il mondo dorato del calcio non è sempre la realtà» – ed è persino tornato importante per la Nazionale. Avrebbe voluto chiudere con un’ultima Coppa del Mondo, quella del 2014, saltata per un infortunio alla schiena. Ha dato l’addio forse troppo presto, a 31 anni, se n’è un po’ pentito in seguito e nel 2016 sarebbe anche voluto tornare (come Zidane) ma con Deschamps poi non se n’è fatto nulla.

Nel frattempo, al Bayern, Ribery ha vinto tutto quello che poteva vincere diventando uno dei giocatori più importanti della storia del club bavarese. Nove Bundesliga, una Champions League, una Supercoppa Europea, un Mondiale per Club, più un’altra decina di coppe nazionali. In dodici anni, senza perdere la sua elettricità da invasato, semmai dandole una forma più razionale. Per Ribery crescere, e migliorare, è significato calare il suo talento dispersivo, tentacolare, in una scatola che servisse a contenerlo. Si è nutrito della competitività che lo circondava e si è fatto indirizzare dai grandi allenatori che ha avuto, Heynckes, Guardiola (non van Gaal, con cui non è andato d’accordo). Nel 2013 è andato vicino a vincere il Pallone d’Oro, subito dietro a Cristiano Ronaldo e Messi, anche se da parte sua pensava di non avere «niente da invidiargli». «Ho preso quel terzo posto come un’ingiustizia. Mi sono chiesto diecimila volte: perché non io? Più ci pensavo, più ci stavo male».

 

Aveva 30 anni quando pensava di meritare il Pallone d’Oro, ed è arrivato in Italia che ne aveva 36. Ci sarebbe un tema da dibattere, se Franck Ribery sia o meno il miglior giocatore del campionato, ma la conclusione a cui arriveremmo sarebbe comunque meno importante del fatto che sia possibile sostenere un argomento del genere. Dopo dieci anni di infortuni – ai muscoli, alle articolazioni, alla schiena, all’anca – Ribery ha ancora una brillantezza tutta sua, che lo distingue rispetto a qualsiasi altro giocatore.

 

Contro il Milan, quasi esattamente un anno fa, ha preso in controtempo Calabria e Duarte con una sterzata di sinistro all’interno dell’area di rigore, poi ha ingannato Donnaruma calciando di destro sul primo palo mentre il portiere andava sul secondo, meritandosi gli applausi di San Siro. Contro l’Inter, una settimana fa, ha dribblato D’Ambrosio con l’esterno del piede destro, a centrocampo, e poi ha giocato un filtrante rasoterra di venticinque metri, finito direttamente in area di rigore sui piedi di Chiesa. Prima aveva servito la palla del gol anche a Castrovilli, assecondando un suo inserimento, aspettando il momento giusto per lasciargli la palla sulla corsa, e avrebbe anche servito l’assist per chiudere la partita (sul momentaneo 3-2 per la Viola), dopo aver portato palla fino in area e aver attirato su di sé quattro difensori, se Vlahovic avesse avuto la grazia di concludere l’azione calciando in rete da pochi metri.

 

Frank Ribery vs Inter Milanpic.twitter.com/JRj5fXlQL3

— josh (@ctrfootball) September 26, 2020

Ribery non è sazio e forse quelli come lui non lo sono mai. Dopo la sconfitta con il Genoa, ha raccontato al «Corriere della Sera», si è allenato da solo fino alle quattro del mattino. Solo così ha potuto prendere sonno. Anche se non ha più la velocità di una volta, la sua agilità non sembra una questione muscolare quanto cerebrale, non è il giocatore più esplosivo in campo ma sicuramente resta quello più sveglio, più all’erta. È quello che dribbla di più e meglio della Fiorentina, dribbling quasi sempre difensivi, o comunque per liberarsi dalla pressione. Non è più lui a cercare costantemente l’uno contro uno, a provocare i difensori come faceva un tempo, ma è fenomenale ad eludere gli interventi avversari. Contro l’Inter, a inizio partita, recupera una respinta della sua difesa e parte in contropiede inseguito da Ashley Young (praticamente suo coetaneo, che senza palla è comunque più lento di lui) e Barella, che prova a chiuderlo sulla linea laterale ma si becca un tunnel d’esterno con cui Ribery si apre il campo. A quel punto rallenta e cambia gioco con un lancio di quaranta metri.

 

Nella sua seconda vita fa la seconda punta e il playmaker offensivo, conclude o rifinisce l’azione negli ultimi metri ma si fa trovare anche per tenere palla e far muovere i compagni, proteggendo palla con raffinatezza e velocizzando il gioco con passaggi da trequartista puro. I ritmi più bassi della Serie A lo aiutano, ma è anche lui con la sua qualità a variarlo, a scegliere quando andare in transizione e quando gestire il possesso. Se avesse qualche anno in meno, e se avesse subito meno infortuni, si potrebbe pensare a un nuovo inizio, ma già così sta mostrando abbastanza da lasciar pensare che sarebbe potuto essere anche un giocatore diverso dal dribblatore ossessivo visto al Bayern. Come se per tutti questi anni ci avesse tenuto qualcosa nascosto, mostrandoci solo una parte del suo talento.

 

L’idea che ci sia ancora qualcosa di nuovo da vedere in Ribery, a 37 anni, è da sola un’attestazione del suo talento smisurato, generazionale, che forse sarebbe bastato per creare due giocatori diversi entrambi di altissimo livello.   

 

 

Tags : fiorentinafranck ribéry

Daniele Manusia, direttore e cofondatore dell'Ultimo Uomo. È nato a Roma (1981) dove vive e lavora. Ha scritto: "Cantona. Come è diventato leggenda" (Add, 2013) e "Daniele De Rossi o dell'amore reciproco" (66th & 2nd, 2020).

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