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Davide Iori
Il calcio in India è una cosa seria
28 lug 2023
28 lug 2023
Un reportage dallo stato indiano del Kerala, dove le maglie da calcio vanno per la maggiore.
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Davide Iori
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Le maglie da calcio sono diventate un fenomeno per cui i grandi brand si contendono tifoserie, piazze e città. I designer si ingegnano per presentare terze maglie eccentriche, almeno agli occhi del tifoso tradizionalista fedele unicamente ai colori sociali. È un settore trasversale che esula quasi totalmente dal calcio ed entra nella sfera del moda, il cosiddetto sportswear. Le seconde e le terze divise assumono significati simbolici, celebrano anniversari delle squadre e sono diventate col tempo capi da collezione. Il tifoso, con una prima o al massimo una seconda maglia, ha l'occasione di comprare il proprio senso di appartenenza, diventando cliente del proprio club, oltreché sostenitore. Con la terza o addirittura quarta maglia, invece, si acquista un capo originale, che presto diventerà un oggetto di culto, una reliquia, un indumento "delle grandi occasioni".

Non sempre la maglia originale è sinonimo di attaccamento, di certo non conta ai fini della sostanza. Il tifo non dovrebbe essere una questione di disponibilità a pagare e abbiamo scoperto nemmeno di nazionalità. Gli ultimi Mondiali hanno dato la dimostrazione di come persino il calcio per Nazionali abbia ormai superato i confini degli Stati e, nonostante alla Coppa del Mondo abbiano partecipato solo 32 Paesi, anche gli altri lo hanno guardato con grande coinvolgimento.

L'India, ad esempio, non ha mai partecipato a un Mondiale e probabilmente ci vorrà del tempo prima che riuscirà a qualificarsi. Ma la passione per il calcio prescinde dalla latitudine e si può annidare ovunque. Nel suo caso in Kerala, uno stato del sud del Paese. Qui, come in gran parte del subcontinente indiano, le magliette da calcio si indossano come un capo d'abbigliamento qualsiasi da molto prima che lo sportswear venisse inventato. Si fa di sostenibilità virtù e le magliette in acrilico - per quanto non traspiranti in maniera comprovata - sono perfette da lavare per le famiglie che non hanno una lavatrice a disposizione. Si sciacquano, si stendono e al secondo raggio di sole sono asciutte. In un certo senso sono anche un prodotto dell’artigianato locale. Ho trascorso due settimane in Kerala e ho impiegato poche ore per rendermi conto di come il calcio fosse inteso diversamente rispetto al resto del Paese, per certi versi in una maniera unica, forse eccessiva agli occhi di un turista europeo troppo fedele alle tradizioni non scritte del "nostro" calcio, che poi così nostro non è. A Kochi, città con il terzo porto indiano sul Mar Arabico per volumi di merci, tutti seguono il calcio secondo riti e forme diverse rispetto ai canoni europei. La passione evolve generazione dopo generazione. È un sentimento che parte dall’infanzia e continua a modificarsi in basse all’età. Si passa dallo stadio primordiale della professione, allo stadio finale della contemplazione del gioco; nel mezzo ci sta tutto quello che può essere considerabile come tifo.

Negli angoli delle strade indiane coesistono molteplici elementi di carattere pagano o religioso, che accrescono il senso identitario attorno a quartieri o comunità. Girando per le città ci si può imbattere in simboli di partiti politici (sotto forma di graffiti sui muri o di sventolanti bandierine) o in mini-templi indù, ricavati alle basi di alberi secolari che contribuiscono a mantenere vivo quello che in Italia sarebbe definito come "verde pubblico", fonte di ombra essenziale con le temperature della stagione che anticipa il monsone. In Kerala vi è anche una folta comunità cristiana e allora per strada trovano spazio anche i capitelli di santi. Su tutti Sant'Antonio da Padova, Madre Teresa di Calcutta, San Giorgio e Santa Maddalena di Canossa. Non mancano inoltre le bandiere verdi, a segnalare l'ingresso in un rione musulmano, o quelle rosse con la falce e il martello bianca a delimitare il territorio del partito Comunista che governa lo Stato (il CPI, Communist Party of India, di ispirazione marxista).

Per quanto caotiche e affollate, le città indiane concedono spazio ai propri abitanti di professare la loro fede e appartenenza, non importa a cosa. Non si vedono guerre di scritte corrette e riscritte dagli oppositori, le bandiere non vengono toccate e i manifesti rimangono attaccati ai muri. C’è uno strano rispetto verso le cose, che non sempre si rispecchia in un'assenza di violenza tra le persone. Tra le molte divinità più o meno laiche presenti, in una città come Kochi, la più popolosa del Kerala, c'è spazio anche per Cristiano Ronaldo, Messi e, in secondo piano, Neymar, assurti a idoli nel senso letterale del termine attraverso non degli altari veri e propri, come per la triade delle divinità induiste, ma gigantografie di cartone e compensato. Per i più fedeli le loro magliette sono in vendita presso i negozi di abbigliamento sportivo. Si trovano il numero 30 del PSG e il 7 giallo dell’Al-Nassr assieme alle divise indossate in Qatar al ultimo Mondiale. Per fortuna non starà a me dare ai bambini la notizia che l’età avanza per tutti e che anche Babbo Natale dovrà andare in pensione prima o poi.

Foto dell'autore.

Alle bancarelle si trova anche la maglietta gialla dei Kerala Blasters, formazione della neonata Indian Super League, il campionato nazionale che dal 2013 vede sfidarsi dodici squadre e che sui suoi campi ha visto tramontare le carriere di Nesta, Del Piero e Materazzi. I Kerala Blasters non hanno ancora vinto un titolo ma possono vantare il tifo più caldo del campionato, con 60mila persone in media allo stadio nelle partite casalinghe. Il Kerala, inteso come stato, ha invece vinto 7 Santosh Trophy, storica coppa che si gioca dal 1941 e che prende il nome dal suo fondatore, Manmatha Nath Roy Chowdhary di Santosh. C'è una fase a gironi iniziale che vede coinvolte 36 squadre e una seguente fase ad eliminazione diretta. Vi prendono parte le squadre degli stati indiani e i territori dell’Unione, oltre ad alcune rappresentative delle istituzioni, come la squadra dell’esercito o dei ferrovieri. Lo stato con il maggior numero di trofei in bacheca è il West Bengala – considerata l’altra roccaforte indiana del calcio - con 31 titoli. Nel marzo 2023 la finale del torneo si è disputata per la prima volta all’estero, a Riyad, Arabia Saudita. Insomma, il calcio in Kerala esiste, in un senso molto materiale del termine, e si gioca pure. Non solo nei campi ufficiali, ma anche per strada.

Il calcio globale e le generazioni Z

Verso le cinque di pomeriggio le strade Kochi si svegliano dalla calda siesta, il sole accenna ad andarsene e lascia libertà di uscita almeno ai più giovani,non ancora logori da anni di resistenza ai raggi UV, smaniosi di godersi le ultime ore di luce. I ragazzi e i bambini di Kochi - identificabili con chiunque abbia un'età sufficiente per saper condurre una bicicletta - iniziano a radunarsi nelle stradine, e girando per il quartiere del vecchio forte portoghese reclutando altri compagni. Si vengono a creare delle squadre di ciclisti, dove al posto della Mapei c'è il Manchester United. Pedalano a testuggine verso il gigantesco prato (rimasto stoicamente verde) in fondo alla via.

Dovranno fare breccia in una recinzione bucata, oppure sgattaiolare tra le briglie di un lucchetto allentato, da lì passano anche le bici; la catena dovrebbe tenere chiuso il "campo da gioco" non si sa bene da cosa, probabilmente da motorini e auto, forse anche da ambulanze. Non sarebbe un campo a "norma", nemmeno secondo i regolamenti delle terze categorie italiane, o del calcio a sette. Eppure, in quel campo, vicino a quello che nel XVI secolo fu il quartiere generale dell’impero coloniale portoghese, vanno in scena quotidianamente lo United di Beckham contro il Portogallo di Cristiano Ronaldo, nello specifico quello con la divisa di Russia 2018. Una sfida tra numeri sette. Si gioca un agguerrito tutti contro tutti. I calciatori - di età che vanno tra le categorie Esordienti e la Primavera - giocano in simultanea su tre campi, disposti parallelamente all’interno della distesa d’erba. Solo uno ha realmente le porte, gli altri sono più arrangiati; nel quarto spicchio di prato rimasto libero si lasciano alcuni metri per chi gioca a cricket. Gli spazi a disposizione non bastano però a soddisfare la voglia di calcio della giovane popolazione e infatti si gioca anche in un’altra distesa, questa volta di terra, davanti al palazzo del vescovo. Chi non trova spazio in campo, osserva e attende, come l'Ozil dell'Arsenal del 2016 e il Messi dell'Argentina in tenuta blu scuro per l'occasione (maglietta Copa America 2015). Assistono aspettando il loro turno. Nell'attesa, cercano di ricordarsi a quando risaliva l'ultima volta che hanno giocato contro. Chiedo a chi è intorno al campo che squadra tifa, la risposta è per la maggiore una tra Argentina e Brasile. A questo punto le mie certezze da europeo-italiano-interista iniziano a vacillare: prendo atto che tifano per le Nazionali, io ribatto confuso che supporto l’Internazionale di Milano, mi sento quasi fuori luogo a tifare per un club. I più informati menzionano Lautaro - argentino - e quindi approvano la mia scelta di fede. Ridono all’idea di vedere la mia squadra contro il Manchester City in finale di Champions, incasso il colpo e penso che se non fosse per questa finale forse nemmeno saprebbero dell’esistenza dell’Inter, o del calcio italiano, fagocitato dal potere della Premier e assente dai Mondiali da troppo tempo perché possano ricordarselo. Una domanda sono loro a rivolgerla a me: Messi o Ronaldo?. O in alternativa: qual è il tuo giocatore preferito?. Esito ulteriormente e mi rendo conto che di non averne uno, non nel 2023 almeno. I miei idoli sono quelli che vedo girare per le vie di Kochi, tenuti vivi dalle magliette che indossano i miei coetanei. Abbozzo un timido “Nicolò Barella”, nessuno coglie, ma almeno non ho fatto scena muta. Queste partite e questi incontri capitano a Kochi, città portuale, come lungo le spiagge del Kerala. Ovunque, tra la polvere dei campi o delle spiagge, si sfidano idoli del presente contro leggende del passato, rigorosamente tra le 17.15 e le 18.40. Poi arriva il buio e si è costretti a rinviare il tutto al giorno dopo.

Foto dell'autore.

Il calcio professato

A Kochi Cristiano Ronaldo e Messi si sfidano contemporaneamente in più squadre e più campi: il CR7 della Juve del 2019 sfida il Messi del 2008, quello che ancora portava l’UNICEF sul petto. Giocano a piedi nudi, come forse fecero anche i due bambini di Rosario e di Madeira, come di sicuro ci piace immaginarlo. In India potrebbero essere anche una reincarnazione compiuta da parte di alcuni eletti giocatori, prescelti dalla passione di un bambino anni prima e tenuti vivi nonostante il tempo.

Zidane, con la 21 della Juventus, guida indisturbato un motorino per le viuzze cittadine, sembra uscito da un incrocio tra GTA per la parte dello scooter e da FIFA1999 per l'autenticità della maglia. Domina la strada altezzosamente, e quando incrocia un altro Zidane con la maglia blu della Francia del mondiale 2006 i loro sguardi non possono fare a meno di incrociarsi. La città straripa di calcio anche se non tutti lo praticano. Per chi ha più di ventuno anni risulta difficile giocare a quelle condizioni di caldo-umido. Il resto della popolazione si limita a professare la propria passione indossando comunque le maglie dei loro idoli.

Un gruppo di ragazzi ha dipinto il muro della propria casa di bandiere: Inghilterra, Portogallo, Germania e ovviamente Argentina e Brasile. Una macedonia di Nazionali. Chiedo il permesso di fare una foto, mi fermo a fare due chiacchere e intravedo appeso in casa un poster di Messi nel centro della stanza. Ne approfitto per chiedergli come mai non vi fosse la bandiera della Francia campione in carica ma ignorano la domanda.

Nel frattempo il Pogba di Manchester 2012 consegna i giornali lungo i canali. Chi l'avrebbe prevista questa fine? Sembra felice. Il Lampard del Chelsea 2008 porta a spasso il cane, e chissà se quando incontra il Ronaldinho del 2005 si fermano a ricordare il gol che condannò i londinesi fuori dalla Champions. Fuori da un tempio induista Rooney (Manchester United 2007) gestisce un chiosco di bibite e biscotti, vicino a lui un suo concorrente che vende le stesse cose: biscotti e bibite. Sopra la bancarella dell’uno capeggia un poster dell’Uruguay – La Celeste, sopra quella dell’altro uno striscione con “die Mannschaft” – Germany. Sono trascorsi sei mesi dal Mondiale, e mi domando per quanto altro tempo questi elementi di arredo urbano rimarranno.

La sera incontro Luis Figo, che in splendida forma, ritira il cibo da una tavola calda con la camiseta da Galactico del 2001, appare ben ambientato e si gode i due passi serali invece di utilizzare i rider per le consegne. C'è anche "el Niño" Torres, che compra il pane di domenica mattina in tenuta Liverpool 2006. Mi appare anche un connazionale, sono emozionato e vorrei salutarlo. È un bambino, e deve aver ereditato la maglietta dal padre: Maldini 3, con strisce rosso-nere che rimandano ad inizio anni 2000. La sera, in contemporanea con i ragazzini, alcuni abitanti di Kochi tra i trenta e i quaranta anni giocano a cricket in un parcheggio. Scelgono uno sport decisamente meno faticoso, anche alla luce dell’umidità e del calore che persiste, si gioca in spazi più piccoli, si corre di meno, ci si diverte uguale.

Foto dell'autore.

Il calcio tramandato

A maggio i turisti stranieri che hanno sfidato le temperature oltre i 40 gradi sono davvero pochi. C'è quindi una minima curiosità attorno alla mia presenza e il fruttivendolo ha voglia di fare due chiacchere. Quando scopre che sono italiano si illumina, come nessun altro fino ad ora. Sono compagni di lavoro da una vita, mi racconteranno. Fanno gioco di squadra e danno l’impressione di conoscere i loro clienti. Amir e Kartick sono giocatori di esperienza, hanno una cinquantina d’anni e ne hanno viste abbastanza per ricordarsi di quei Maldini, di quei Cannavaro, di quell’Italia. Tra i nomi spunta persino quello di Fabio Grosso.

Hanno l’azzurro nel cuore e non si fermano al 2006, vanno fino al 1994. Ricordano il rigore di Baggio: sono intenditori e nostalgici al tempo stesso. Rappresentano la prima generazione ad aver assistito a un Mondiale. Nell’1985 erano grandi abbastanza per ricordarsi l’arrivo delle televisioni nelle case e nei negozietti di alimentari. Era nato il primo canale in Malayalam, la lingua locale parlata solo in Kerala. L’anno seguente avrebbero trasmesso in chiaro e sull’unico canale tutti i Mondiali messicani, vinti dall’Argentina. È in quel momento che è nato l'amore tra questa zona di mondo e Maradona. La generazione di Amir e Kartick ha potuto avere delle immagini nitide nei propri occhi a differenza dei loro genitori, che invece ascoltavano le partite alla radio. I nonni dei vari Messi, Ronaldo, Neymar e Mbappé che oggi scorrazzano tra le strade e le viuzze, hanno supportato Pelé, fidandosi di lui, senza nemmeno mai vederlo, proprio come una divinità. Lo personificavano dalle foto sui giornali, le ritagliavano e le appendevano alle pareti. Il calcio è stato tramandato di padre in figlio, come una religione o come le leggende. In Kerala ve ne è una che narra di come nel 1920 una brigata di coloni inglesi si stabilì sulla costa nord dello stato e iniziò a giocare a calcio, sfidando le squadre locali che si appassionarono subito a questo sport.

Al crepuscolo le madri aspettano sull’uscio i figli stanchi, ma nemmeno troppo sudati. Torna a casa Ansu Fati, con la 12 rossa della Spagna 2022. Rientra con lui Harry Kane (edizione Euro 2020) accompagnato da suo fratello vestito da Neymar in tenuta brasiliana.

Kartick è il padre dei due e li accoglie a casa provando invidia per i suoi figli e per la loro età degli eroi, una fase irripetibile di innamoramento verso uno sport, come le prime cotte adolescenziali. Mi racconta che i suoi amici continuano a chiamarlo per andare a giocare. Ma mi mostra il ginocchio, ha dei visibili acciacchi e mi fa capire che per lui è diventato impossibile. L’idea di doversi svegliare all’alba per andare a sudare dietro un pallone, comunque, non lo attira più. Deve mandare avanti la bottega, servire i suoi clienti, sostenere la sua famiglia. Quando ha tempo, però, va con piacere a vedere i figli giocare, sia sul prato che sulla spiaggia. Sulla sabbia si fanno le ossa, e diventano ottimi calciatori.

Foto dell'autore.

Non a caso dal Kerala, dove le spiagge non mancano, diversi calciatori sono riusciti ad esordire nella Nazionale indiana, altri potrebbero essere gli eroi del domani. Crescono senza allenatori, liberi di esprimersi e di imparare. Poi alcuni vengono selezionati, finiscono in qualche accademia e boom: il calcio professionistico è alle porte. In Kerala scorre un’altra tradizione calcistica particolare: il Sevens Football. Giocato in campi di terra battuta è un movimento che parte dalle scuole e che arriva nei villaggi, sfruttando ogni spazio che possa prestarsi per diventare un campo da gioco. I tornei, organizzati spontaneamente da enti locali, si svolgono tra novembre e maggio e richiamano fino a 10mila spettatori in arene temporanee costruite di bambo per l’occasione. Un misto tra un torneo di calcio a sette, ma con il pubblico del calcio fiorentino.

Prima di salutarmi, Kartick mi confessa il piacere che prova nel ricordare i tempi in cui l’Italia andava forte e gli piacerebbe rivederci ai Mondiali, tirare fuori la 10 di Totti prima che si sbiadisca del tutto. Mentre ci congediamo mi chiedo se debba o meno dispiacermi del fatto che i suoi figli non conoscono nessun giocatore italiano, né vestono di azzurro.

È buio ormai. Tornando a casa noto come sui lampioni cittadini non ci siano adesivi di gruppi ultras, questa sottocultura manca. In compenso ci sono interi lampioni albiceleste. Si trovano anche enormi bandiere dipinte. Sono una forma di street art urbana, l’ennesimo segno di appartenenza.

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