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Quello che la storia di Gnonto non dice
09 giu 2022
09 giu 2022
L'ultima promessa del calcio italiano apre una finestra sulle cosiddette seconde generazioni.
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L’eccitazione per aver visto sorgere il sole di nuovo dopo l’umiliazione subita dall’Argentina nella cosiddetta Finalissima si è trasformata quasi subito in morbosità. Lo ha ammesso lunedì lo stesso direttore del Corriere dello Sport, che in una lettera aperta ha discusso delle proprie responsabilità per la prima pagina del giorno prima, dove a caratteri cubitali, in rosso e sottolineato si poteva leggere: “Tutti su Gnonto”. «Mi sa che ci hanno fregato la depressione generata dalla sconfitta con l’Argentina e la necessità di recuperare immediatamente un minimo di entusiasmo sventolando una nuova bandiera», ha scritto Ivan Zazzaroni in un pezzo intitolato Sbatti il nostro in prima pagina «Hai soltanto diciotto anni, Wil, e per esprimere le tue capacità hai dovuto lasciare l’Italia, non ti è mancato il coraggio che altri non hanno avuto: ti sei meritato il diritto di crescere senza pressioni “dopate”».


 

Non è stato solo il Corriere dello Sport in realtà: tutta la stampa italiana, non solo sportiva, negli ultimi giorni abbonda di approfondimenti sul giocatore che dopo appena cinque minuti dal suo ingresso in campo con una progressione sull’esterno destro finalizzata con un assist ha aperto uno squarcio di speranza sul futuro dopo giorni cupi da fine del mondo. Le interviste ai suoi compagni di squadra a Zurigo che lo chiamano «fenomeno», i dettagli sulla sua vita privata, i sacrifici dei genitori che si facevano più di cento chilometri in macchina ogni giorno per portarlo e riprenderlo dagli allenamenti, il soprannome vagamente canzonatorio - “il latinista del gol” - solo perché gli piacciono gli studi classici. Nella storia di Wilfried Gnonto c’è tutto ciò che piace al pubblico italiano, anche il vittimismo da nemo propheta in patria, la decisione di andarsene da uno dei migliori settori giovanili d’Italia per affermarsi in Svizzera, che si connette con uno dei grandi rimossi del dibattito calcistico italiano. Il chiedersi perché in Italia i giovani facciano così fatica anche solo a giocare e al tempo stesso tempo ritenere all’altezza solo i giocatori già affermati, quelli d’esperienza, perché vincere è l’unica cosa che conta.


 

L’esperienza di Roberto Mancini sulla panchina dell’Italia è ripartita esattamente com’era cominciata, dopo la prima eliminazione dai Mondiali nel 2018. Allora il giovane spuntato fuori dal nulla che ci avrebbe portato nella modernità dopo la catastrofe svedese era Nicolò Zaniolo - «Qualcuno, forse come battuta, mi ha detto che ero matto e che chiamavo gli sconosciuti», si vantava allora il CT della Nazionale - e oggi fa impressione pensare che nei quattro anni successivi con la maglia azzurra non abbia praticamente mai giocato, non solo per i due gravi infortuni alle ginocchia e che la successiva eliminazione dai Mondiali, contro la Macedonia del Nord, sia stata seguita da un codazzo di accuse al CT per non aver rinnovato il gruppo che aveva vinto gli Europei. L’esordio di Gnonto è arrivato poi a pochi giorni dall’esclusione di Zaniolo dal ritiro della Nazionale, ufficialmente per una “botta alla caviglia”, ufficiosamente per un faccia a faccia con Mancini, che l’avrebbe rimproverato di non essersi dissociato dai cori romanisti su Zaccagni (anch’egli convocato e poi rimandato a casa).


 

«Zaniolo è giovane, bello e talentuoso: il fatto che sembra volersi godere tutte queste cose è inaccettabile agli occhi di tanti tifosi», ha scritto qualche giorno fa Emanuele Atturo e la stampa, sempre attenta a puntare in faccia ai protagonisti le armi di cui dispone l’opinione pubblica, ha trovato il modo di farlo sapere anche a Willy Gnonto. «Ora c’è il rischio che si monti la testa?» ha chiesto il Corriere della Sera meno di due giorni dopo il suo esordio con la maglia della Nazionale a suo padre, Boris, che di fronte a quella minaccia nemmeno così velata è stato costretto ad alzare le mani: «Gli stiamo dietro. Sono sereno e tranquillo, pensiamo di avergli dato l’educazione giusta». Le risposte più interessanti però sono le altre, da cui si può ricostruire una storia molto meno rassicurante di quanto si è voluto raccontare.


 

Gnonto è nato a Verbania ed è cresciuto a Baveno, in Piemonte, ma è diventato ufficialmente italiano solo nel 2009, quando di anni ne aveva già sei. Questo perché nel frattempo la cittadinanza era riuscita ad ottenerla finalmente Boris, che nel 2009 in Italia ci viveva già da quasi 17 anni, anche grazie al lavoro da custode dell’oratorio che gli aveva concesso il parroco di Baveno, un certo Don Alfredo che gli ha regalato la casa sopra al campo dell’oratorio dove Gnonto (che il padre dice di chiamare con il suo «nome africano», Degnand, e non Willy) ha tirato i primi calci al pallone. Senza la generosità e l’accoglienza cattolica, che sopravvive sotto la cenere in un Paese sempre più ostile nei confronti dei migranti, Boris Gnonto forse non avrebbe ottenuto la cittadinanza o magari la avrebbe ottenuta più tardi. E lo stesso sarebbe stato per Willy, che senza la cittadinanza italiana del padre avrebbe dovuto aspettare di compiere i 18 anni che ha compiuto lo scorso 5 novembre per richiederla (e dimostrare poi di essere stato sempre residente in Italia in tutti e 18 gli anni della sua vita, senza interruzioni). Fa strano chiederselo, ma la realtà è questa: se non fosse stato per Don Alfredo l’avremmo visto lo stesso in campo sabato a Bologna contro la Germania?


 


Foto di Marco Luzzani/Getty Images




 

La storia di Gnonto apre una finestra sulle cosiddette “seconde generazioni” - sul loro approdo nelle rappresentative nazionali italiane di tutti i livelli. È una questione che ha due facce, ma la storia di Gnonto, e l’ossessività con cui i media italiani la stanno amplificando, rischia di mostrarcene solo una, e di nascondere l’altra. Da una parte quelli che, come Gnonto, ce l’hanno fatta, espressione survivalistica che ben si addice alla via crucis burocratica a cui sono sottoposti i figli degli stranieri che vogliono ottenere la cittadinanza italiana, e che in questo caso indica i calciatori che hanno potuto scegliere la Nazionale italiana perché magari hanno avuto la fortuna di ereditarla. Dall’altra tutti gli altri, quelli cioè che hanno ottenuto la cittadinanza quando era troppo tardi o che, pur avendola, hanno deciso altrimenti, di propria sponte, o perché la federazione italiana, per disattenzione, è arrivata troppo tardi. Più spesso entrambe le cose. È un tema che è diventato talmente lampante per la Serie A che due dei migliori Under 21 dell’ultima stagione, Destiny Udogie e Nicola Zalewski, rappresentano perfettamente le due categorie. Il primo, nato e cresciuto a Verona da genitori nigeriani, ha scelto l’Italia fin dall’Under 16; il secondo, nato a Tivoli e cresciuto a Poli (provincia di Roma) da genitori polacchi, ha fatto lo stesso percorso con la Polonia, esordendo con la Nazionale maggiore il 5 settembre dello scorso anno.


 

A dividere le strade ci sono spesso anche motivazioni personali e per una decisione così intima non potrebbe essere altrimenti. Per Zalewski si è parlato molto dell’importanza del padre Krzysztof, dissidente del regime comunista polacco che scappò in Italia alla fine degli anni ’80 dopo aver disertato l’esercito. La sorella di Zalewski, Jessica, ha raccontato al Corriere dello Sport che il padre, che inizialmente si riciclò in Italia come lavavetri, diceva spesso a lei e a suo fratello «voi siete polacchi» e ha ricordato il momento in cui è scoppiato a piangere quando Nicola ha esordito in Nazionale maggiore. «A San Marino c’eravamo tutti, è stata una grande emozione. Anche nel rivedere i video, sento le urla di mio padre. Aspettava quel momento, era malato da nove mesi. Dopo quella grande gioia si è lasciato andare e pochi giorni dopo è morto». Di questa storia si è parlato dopo il derby d’andata, perso dalla Roma per 3-2, in cui Mourinho ha messo in campo Zalewski pochi giorni dopo la morte del padre, come a cercare le energie insondabili generate dal dolore umano. Ai funerali di Krzysztof, a Poli, l’allenatore portoghese c’era, insieme a una piccola delegazione della squadra giallorossa formata tra gli altri da Pellegrini e Mancini.


 

Anche in una situazione così emotiva, in cui il peso della vita sembra essere preponderante, nessuno ha comunque mai escluso l’importanza delle due federazioni, in questo caso italiana e polacca. Jessica Zalewski, per esempio, ha ricordato che «papà non lo ha mai costretto» e che comunque dalle rappresentative azzurre non aveva ricevuto segnali concreti. Lo stesso Nicola Zalewski, che una volta ha dichiarato di sentirsi polacco «al 100%», pochi giorni fa ha ribadito che da parte dell’Italia «non è mai arrivata una chiamata ufficiale» e che sulla sua decisione di scegliere la Polonia ha pesato anche il rispetto verso la Nazionale che «mi ha chiamato sin dall'Under 15». È noto in questo il peso che ha avuto Zbigniew Boniek, l’uomo che per primo l’ha portato nelle selezioni giovanili polacche, e che recentemente, con un’innata dose di furbizia, ha parlato di un suo approdo alla Nazionale italiana come una forzatura innaturale: «Quando ero presidente della Federazione polacca non volevo andare in giro a cercare giocatori da naturalizzare perché avevano origini polacche, dicevo ‘giochiamo con i calciatori che si sentono polacchi’, naturalizzare è un gioco che non vale la candela secondo il mio punto di vista».


 

La storia di Zalewski, con tutte le sue sfumature, ci può aiutare a comprendere meglio quelle di cui conosciamo meno dettagli. Quella di Youssef Maleh, ad esempio. Nato a Castel San Pietro Terme, vicino a Bologna, da genitori marocchini arrivati in Italia una trentina d’anni fa, Maleh già nel 2018, quando ancora era al Ravenna in Serie C, diceva di sentirsi «più italiano» che marocchino, ma che «se un giorno dovesse arrivare la chiamata dalla Nazionale del Marocco non potrei certamente dire di no». E dopo appena cinque presenze con l’Under 21 italiana la chiamata del Marocco è effettivamente arrivata, anche se per adesso solo sotto forma di convocazione e non ancora di esordio. «Sono molto felice così come lo sono la mia famiglia e i miei parenti che sono in Marocco. Tutti i giocatori mi hanno accolto bene e sento che sono miei fratelli», ha dichiarato Maleh a settembre dello scorso anno. Anche nella sua storia è difficile districare le motivazioni personali, come la pressione di una famiglia, dal contesto politico che c’è intorno, ma è illusorio pensare che una cosa escluda necessariamente l’altra.


 

In questo tipo di storie, in ogni caso, la federazione italiana fa sempre la figura del ministero inefficiente che si fa soffiare le migliori occasioni da sotto il naso, ma da fuori è difficile capire se è davvero così e va detto che questo tema si lega indissolubilmente alla reticenza storica della Serie A a far giocare i calciatori sotto una certa età. Pochi giorni fa, contro l’Ungheria, Alessio Zerbin, anni 23, ha esordito in Nazionale ancora prima di esordire in Serie A, e vedendolo vengono in mente le parole del padre di Gnonto, che ha deciso di portare suo figlio in Svizzera a 16 anni perché se no «in Primavera avrebbe affrontato ragazzi di 21 anni». «Sono cinque anni persi», ha aggiunto Boris Gnonto «Per cui abbiamo scelto di provare a giocare in prima squadra in Svizzera, perché anche se sbagli fai comunque un passo in avanti».


 

Più significativo delle storie di Zalewski e Maleh, in questo senso, è il rapporto della federazione italiana con alcune delle comunità straniere più importanti del nostro Paese. Quella albanese, ad esempio, numericamente è la seconda in Italia dopo quella romena eppure nelle Nazionali italiane mancano clamorosamente suoi esponenti, mentre in quelle albanesi abbondano di giocatori nati e cresciuti in Italia. È relativamente nota la storia di Marash Kumbulla, nato a Peschiera del Garda, ma nelle prossime settimane potrebbero comparire sulla nostra stampa con titoli scandalistici anche quella di Giacomo Vrioni - attaccante nato a San Severino Marche e cresciuto a Matelica, passato anche per Sampdoria, Venezia e Cittadella, che quest’anno allo Swarovski Tirol è diventato capocannoniere della Bundesliga austriaca - e soprattutto di Kristjan Asllani. Nato a Elbasan, in Albania, ma cresciuto fin dall’età di due anni a Buti, in provincia di Pisa, Asllani si è fatto immediatamente un nome in Serie A nella seconda metà dell’ultima stagione, prendendo il posto di Samuele Ricci dopo la sua cessione al Torino, e adesso sembra vicino addirittura all’Inter. Nonostante sia stato allevato dalla Butese e abbia vinto uno scudetto primavera con l’Empoli, l’Albania è arrivata prima a convocarlo, prima con l’Under 21 e poi con la Nazionale maggiore, con cui ha esordito lo scorso 26 marzo. Recentemente di lui ha parlato il direttore tecnico della federazione albanese, Giancarlo Camolese: «Due anni fa era promettente, giocava sotto età nella nostra Under 21 però ne valeva la pena».


 


Foto di Silvia Lore/Getty Images


 

Forse è perché siamo un Paese anche di immigrati, oltre che di emigranti, da relativamente poco tempo. O forse è perché non avevamo mai sentito il bisogno di cercare giocatori prima di questo periodo di siccità di talento e risultati sportivi. Fatto sta che la federazione albanese sembra molto più preparata rispetto a quella italiana a fare quel peculiare lavoro di scouting e persuasione senza il quale è difficile convincere le seconde generazioni a vestire la maglia azzurra. E la reattività delle federazioni fa parte di quel contesto politico che avvolge le decisioni personali dei singoli calciatori, e in misura diversa contribuisce a determinarle.


 

Certo, su un tema come questo anche le federazioni si ritrovano a fare i conti con i limiti fissati dal mondo politico al di fuori delle istituzioni sportive, che come abbiamo detto è sempre più restio a rendere più semplici ed inclusive le norme per concedere la cittadinanza. Poco più di un anno fa la grande estate dello sport italiano veniva coronata dalla vittoria della medaglia d’oro di Marcell Jacobs, velocista nato a El Paso da padre texano che aveva ottenuto la cittadinanza italiana grazie alla madre. A circa un anno dal trionfo di Marcell Jacobs, che aveva permesso ai politici di ogni calibro di pronunciare discorsi trionfalistici sulla rinascita dell’Italia, lo sport italiano ha dovuto fare i conti con una sconfitta subdola e imbarazzante, come in un’immediata pena del contrappasso. A fine maggio la promessa dello sci italiano, la quindicenne Lara Colturi, figlia dell’ex sciatrice Daniela Ceccarelli, ha infatti deciso a sorpresa di rappresentare l’Albania, dopo che la madre, diventata allenatrice della Nazionale del Paese balcanico, aveva ottenuto la sua nazionalità. Un tradimento, com’è stato chiamato da La Stampa, ancora più clamoroso alla luce del fatto che Colturi era stata scelta come ambasciatrice delle Olimpiadi invernali italiane del 2026, che si terranno a Milano e a Cortina.


 

Né la storia di Jacobs né di Colturi, in realtà, sono particolarmente indicative di qualcosa, se non dell’opportunismo della classe politica nei confronti dello sport, e di quanto effimere possano essere se vengono prese a simbolo di un messaggio più grande. Ai fini di questo pezzo ha più senso prenderle a pretesto per parlare di qualcosa che può interessare veramente una parte della società italiana che continua ad essere discriminata. D’altra parte, lo aveva fatto anche il presidente del CONI Giovanni Malagò, che aveva approfittato del momento di esaltazione immediatamente successivo alla vittoria di Jacobs per risollevare la questione dello ius soli, il principio giuridico per cui la cittadinanza si ottiene dal Paese in cui si nasce e non dalla nazionalità dei propri genitori, seppur nella sua ridotta versione sportiva. «Non riconoscere lo ius sportivo è aberrante e folle. Questo discorso oggi più che mai va concretizzato», aveva dichiarato Malagò «A 18 anni e un minuto chi ha i requisiti deve avere la cittadinanza italiana e non iniziare una via crucis con rimbalzi tra prefetture e ministeri». Dal 2016 in Italia esiste una norma molto timida che permette ai minori stranieri regolarmente residenti di essere tesserati presso le federazioni sportive “con le stesse procedure previste per il tesseramento dei cittadini italiani” dal decimo anno d’età. Per essere convocati nelle selezioni nazionali, però, in assenza della cittadinanza bisogna sempre aspettare la maggiore età.


 

Le norme sullo ius soli sportivo sembrano in qualche modo richiamare un’altra storia degli ultimi anni, stranamente dimenticata dalla grande stampa nazionale nonostante riguardi uno dei più importanti talenti della Serie A, e cioè Hamed Junior Traoré. Nato ad Abidjan, in Costa d’Avorio, ma cresciuto in Italia fin da bambino (anche se non è chiaro precisamente da quando), Traoré è diventato un calciatore a Barco, una frazione di Bibbiano, in una piccola società con i colori e il nome del Boca Juniors. Nell’estate del 2020 la Procura di Parma lo ha accusato di essere entrato in Italia illegalmente insieme a quello che si pensava fosse il fratello, Amad Diallo, attraverso un falso ricongiungimento familiare che coinvolgeva una coppia di cittadini ivoriani già residenti in Italia, a loro volta indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Il caso si è chiuso all’inizio dello scorso anno con un patteggiamento e una multa di 48mila euro ad entrambi, ma rimane ancora poco chiaro nei suoi dettagli. Senza la pretesa di voler riannodare i fili della verità con un paio di articoli di giornale, ciò che è interessante è che il falso ricongiungimento familiare era diretto proprio a ottenere la cittadinanza italiana e il tesseramento nei club in cui hanno giocato Traoré e Diallo.


 

Anche se il caso specifico si trattasse di una semplice truffa diretta all’acquisto di giovani talenti considerati promettenti, chi si occupa di immigrazione in Italia sa che questo tipo di espedienti sono molto comuni per aggirare le barriere legali sempre più alte innalzate dal nostro Paese (basti pensare all’emblematico caso che ha riguardato il sindaco di Riace, Mimmo Lucano). Mentre noi ci appassioniamo, ci indigniamo, ridiamo della storia di Gnonto, tantissime altre persone, che non sono calciatori, cadono nel tentativo di superarle senza che noi veniamo a conoscenza delle loro storie. E noi che ci interessiamo alla più importante delle cose meno importanti, e cioè il calcio, non possiamo fare a meno di notare che nel frattempo Traoré ha deciso di rappresentare la Costa d'Avorio.


 

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