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Gary Dineen/NBAE via Getty Images
NBA Dario Vismara 9 aprile 2018 8'

Quale futuro per Jabari Parker?

La storia tra la seconda scelta assoluta del Draft 2014 e i Milwaukee Bucks sembra arrivata al capolinea. Ma quali ripercussioni avrà la sua scelta in estate?

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Ho questo ricordo piantato in testa: Adam Silver ha appena finito la frase “the Cleveland Cavaliers with the first pick of the 2014 NBA Draft select Andrew Wiggins” che la telecamera coglie un cenno d’intesa tra Jabari Parker e il suo agente. Un pugnetto, breve e fugace, per festeggiare il pericolo scampato di finire ai Cavs, preferendo di gran lunga la soluzione dei Milwaukee Bucks, vicina alla nativa Chicago e più in rampa di lancio grazie alla presenza di Giannis Antetokounmpo. Jabari sarebbe dovuto diventare immediatamente il suo partner in crime — anzi, per certi versi doveva essere “The Greek Freak” a fargli da spalla, fungendo da facilitatore in attacco e da asso pigliatutto in difesa mentre al prodotto di Duke venivano lasciate le responsabilità di realizzazione della metà campo offensiva.

 

Fast forward a neanche quattro anni dopo: Giannis Antetokounmpo è ormai stabilmente un candidato MVP che ha mostrato al mondo il modo in cui si giocherà tra 30 anni, di gran lunga il giocatore franchigia di una squadra in grado di fare i playoff in tre delle ultime quattro stagioni. Jabari Parker, invece, ha dovuto sottoporsi a due operazioni chirurgiche allo stesso ginocchio per la rottura del legamento crociato anteriore e, ancora convalescente, ha rifiutato la proposta di estensione contrattuale da 54 milioni in tre anni offerta dai Bucks, convinto che alla fine di questa stagione lo attenda un accordo ben più alto, perfino nei pressi del massimo salariale ottenuto dalla scelta prima di lui (Andrew Wiggins) e quella dopo (Joel Embiid).

 

La domanda ora, è: sarà sempre nel Wisconsin oppure da un’altra parte? E soprattutto: nel caso di un’offerta sostanziosa, Milwaukee deciderà di pareggiare oppure no? La risposta a queste domande potrebbero avere ripercussioni enormi non solamente sui Bucks, ma sull’intera strutturazione della Eastern Conference — perché il contratto di Antetokounmpo è in scadenza nel 2021 e la franchigia ha l’obbligo di costruire attorno a lui una contender in tempi più brevi di quelli che ci si immagina.

 

 

Come tutto è cominciato. L’atteggiamento fuori dal campo e la naturalezza davanti alle telecamere è da politico conclamato, cosa che peraltro potrebbe anche diventare con la testa eccellente che si ritrova.

 

Ciò che doveva essere (e che invece non è stato)

Qualche giorno prima del Draft 2014, il nostro Lorenzo Neri scriveva così del talento di Duke, protagonista con una stagione a 19 punti e 9 rimbalzi di media agli ordini di coach Krzyzewski che aveva fatto strabuzzare gli occhi a tutti: “Parker è sicuramente il più pronto tra i papabili candidati alla numero 1, uno scorer da mettere immediatamente nel motore di una squadra NBA a fronte anche di una maturità mentale e cestistica maggiore che potrebbe portarlo a diventare un All-Star in tempi brevi. Una safe-pick perfetta per un momento del genere, ma su di lui aleggiano grossi dubbi sulla possibile crescita del suo gioco, soprattutto dal punto di vista difensivo e sull’adattabilità del suo gioco nel ruolo da 3”.

 

Anche nella versione ideale di Parker, che purtroppo per i due gravissimi infortuni al ginocchio non abbiamo potuto vedere a pieno, i dubbi sulle sue scarse doti difensive e sulla sua posizione in campo facevano alzare più di un sopracciglio. Al piano di sopra, a questi due dubbi si è aggiunto anche molto altro: solamente una volta nei suoi quattro anni passati in NBA la sua squadra ha avuto un Net Rating migliore con lui in campo piuttosto che senza — nel 2015-16, quando comunque i Bucks erano una squadra da 33 vittorie (quindi facevano proprio schifo indipendentemente da Parker). In tutte le altre, la differenza è stata palese e preoccupante: da -5.2 con lui a +2.7 senza di lui nell’anno da rookie; da -2.5 a +2.9 nel 2016-17; da -3.5 a +1.7 nelle 28 partite giocate in questa stagione cominciata di rincorsa, esordendo solo lo scorso 2 febbraio.

 

A rendere ancora più disturbanti questi dati su Parker c’è il fatto che la coesistenza con Giannis Antetokounmpo non ha dato i risultati incoraggianti intravisti nella scorsa stagione. Con entrambi in campo in questi quattro anni i Bucks non hanno mai avuto un differenziale positivo, ma se non altro all’inizio della passata stagione avevano dimostrato di poter formare una combinazione devastante in campo aperto, dove potevano entrambi raggiungere il ferro con una velocità e una prepotenza atletica praticamente impossibile da pareggiare sui 28 metri. Il loro assalto al ferro avversario portava ottimi dividendi (entrambi erano in top-10 per punti in transizione) e facevano intravedere un discreto potenziale anche a metà campo, visto che Parker aveva finalmente cominciato a tirare da tre punti con percentuali accettabili (36.5% su 3.7 tentativi per 36 minuti dopo due anni da 51 tentativi in tutto).

 

 

Un assaggio del potenziale atletico mostrato lo scorso anno.

 

Quando è tornato a disposizione quest’anno, però, Parker ha trovato una situazione profondamente diversa rispetto a quella lasciata lo scorso anno. La squadra non è più in comproprietà tra lui e Giannis ma è ormai esclusiva del greco, tanto che il nativo di Chicago è sempre stato relegato a un ruolo dalla panchina in questa stagione anche per via della presenza di altre bocche da fuoco come Eric Bledsoe e Khris Middleton, membri più o meno credibili di un “Big Three” che non ha altri palloni e minuti da dividere all’interno del quintetto base. Parker è stato così via via limitato a un ruolo da riserva, vedendo le sue cifre diminuire soprattutto alla voce dei minuti (da 34 a 23 di media, anche per i limiti imposti dallo staff medico) e nel coinvolgimento offensivo (da 26.5 a 23.8 di Usage Rate) pur dividendo il campo con compagni teoricamente meno “cannibalizzanti” rispetto ad Antetokounmpo.

 

A Parker, però, mancano due ingredienti chiave per poter essere considerato un realizzatore efficiente nella NBA del 2018, che non è necessariamente la stessa di quando è entrato quattro anni fa. Innanzitutto il tiro da tre, per quanto in miglioramento a livello di percentuali, è ancora piuttosto basso a livello di volumi assoluti, dato che si assesta sui 4 tentativi per 36 minuti; il crollo dei tentativi ai liberi, poi, non depone a favore della sua capacità di attaccare il ferro e mettere pressione alle difese, come dimostra anche il fatto che la percentuale dei suoi tentativi nell’ultimo metro di campo è scesa dal 43.7% dei primi tre anni combinati al 35% scarso di questo. Saper segnare a tutti e tre i livelli dell’attacco è un imperativo categorico nella NBA del 2018 per un realizzatore: avere anche solo una mancanza lascia un “buco” nel repertorio facilmente sfruttabile dalle difese, a meno che non ci si chiami Simmons o Antetokounmpo.

 

Tutto questo senza citare il fatto che in difesa Parker, per quanto possa impegnarsi, non ha una tipologia di avversario che può difendere in maniera credibile, e le squadre avversarie sono solite costruire i loro attacchi apposta per “puntarlo” e guadagnarsi un vantaggio contro di lui.

 

 

 

Anche nella sua miglior prestazione stagionale da 35 punti contro Denver ha commesso degli errori difficilmente compensibili. Nella prima azione neanche prova a rientrare nell’inquadratura dopo essere stato stoppato malamente; nella seconda viene sverniciato da Paul Millsap; nella terza commette un banale errore di valutazione e lascia spazio allo stesso Millsap per due punti cruciali.

 

Parker assomiglia sempre di più a una “liability” che diventa difficile da sostenere con l’andare della stagione, specialmente se nella metà campo offensiva non è in grado di produrre a livelli tali da giustificare le sue mancanze difensive. Tutto ciò ovviamente potrebbe cambiare se ai playoff — che saranno i primi della sua martoriata carriera — dovesse dimostrare di poter “reggere il campo” contro attacchi ancora più focalizzati su di lui e difese più attente a neutralizzare quelle che sono le sue tendenze. Dovesse riuscirci e riuscisse a dare una dimensione sconosciuta all’asfittico attacco della squadra, allora i Bucks potrebbero seriamente pensare di scommettere ancora sul suo talento — anche se le variabili da considerare, sia tattiche che salariali, sono molteplici.

 

Le implicazioni future del contratto di Parker

Al di là di quello che riesce o non riesce a fare in campo, basta leggere quanto dichiarato negli ultimi giorni per capire che la storia tra i Bucks e Jabari Parker è destinata ai titoli di coda. Quando interpellato sul suo futuro, il prodotto di Duke ha dichiarato che “onestamente è incerto quello che succederà in estate”, aggiungendo di sapere che “osservandoli da lontano, i Bucks se la caveranno bene. Loro stanno già facendo bene”. Quel “loro”, ripetuto un paio di volte, certifica la distanza che ormai si è creata tra la franchigia e quello che sarebbe dovuto essere uno dei suoi volti principali, per non dire il giocatore-franchigia.

 

La situazione salariale dei Bucks è parecchio complicata: tutti i giocatori più importanti di quest’anno sono sotto contratto anche per il prossimo, se si escludono vari carneadi come Jason Terry (unico tiratore credibile della squadra… sigh), Brandon Jennings e Shabazz Muhammad. Alcuni di questi, come John Henson (20 milioni per i prossimi due anni), Tony Snell (34 per i prossimi tre) e Matthew Dellavedova (19 per i prossimi due), pur non essendo degli albatros drammatici se presi singolarmente, quando vengono sommati ai vari contratti per i quali è stata utilizzata la stretch provison (Mirza Teletovic 3.5 milioni, Spencer Hawes 2, Larry Sanders 1.8) occupano un 35% abbondante del salary cap che con il senno di poi sarebbe stato utile investire da altre parti, portando la squadra già sopra il tetto salariale prima ancora che di prendere in considerazione il rinnovo di Parker o quello di Eric Bledsoe nell’estate del 2019 (quando i Bucks avranno spazio salariale da poter sfruttare per migliorare sensibilmente la squadra). Nonostante tutto quello che abbiamo scritto sopra, infatti, Parker rimane una ex seconda scelta assoluta con un talento inesplorato tale da attrarre sicuramente qualche offerta sostanziosa da parte di squadre con spazio salariale a disposizione come Atlanta, Dallas, Phoenix o Sacramento, perché non capita spesso (anzi, quasi mai) che un 23enne del genere finisca sul mercato dei free agent, per quanto restricted.

 

 

Al netto di tutti i legittimi dubbi fisici e tattici, uno così a quell’età farà sempre gola.

 

Confermare Parker proietterebbe i Bucks in territorio luxury tax, una cifra decisamente esosa per una franchigia di piccole dimensioni come quella di Milwaukee e soprattutto ancora ben lontana dal competere per il titolo. Avessero una contender tra le mani, i proprietari si ritroverebbero quasi costretti a confermare tutti per dimostrare ad Antetokounmpo di avere intenzioni serie nel voler vincere, ma così costruiti i Bucks non sembrano avere le carte giuste per potersela giocare in una Eastern Conference che nei prossimi anni — in attesa di capire cosa farà LeBron James e di rifletto tutta Cleveland — li vedrà in ogni caso obbligati a confrontarsi quantomeno con i Toronto Raptors, i Boston Celtics e i Philadelphia 76ers, che partono decisamente avanti nella costruzione della squadra e negli asset a disposizione.

 

Per questa ragione i playoff che cominceranno questo weekend sono così importanti per tutte le parti coinvolte: i Bucks hanno bisogno di capire quanto sono distanti dal potersela giocare seriamente, anche perché dopo i playoff dovranno prendere una decisione a dir poco fondamentale per quanto riguarda l’allenatore da scegliere al posto di Joe Prunty, coach ad interim dopo il licenziamento di Jason Kidd. La voce che gira nell’ambiente è che la panchina dei Bucks è la più ambita dagli allenatori rimasti senza un contratto, non fosse altro per la possibilità di allenare un talento generazionale come Antetokounmpo e per la versatilità difensiva che comunque il roster assemblato concede, ma è anche vero che i Bucks hanno dei difetti strutturali evidenti, visto che sono 29esimi per rimbalzi difensivi (dietro solamente ai derelitti Orlando Magic) e 25esimi per triple su 100 possessi, peraltro convertite con uno scarso 35.5%.

 

Sia come sia, la decisione legata a Jabari Parker sarà uno snodo fondamentale nella costruzione dei prossimi Bucks. E come sempre accade ogni decisione di questo calibro finisce per avere ripercussioni su tutte le altre — dalla scelta dell’allenatore alla gerarchia della squadra all’interno della Eastern Conference, fino ovviamente al futuro a lungo termine di Giannis Antetokounmpo, che pende sulla franchigia come una spada di Damocle.

 

 

Tags : jabari parkerMilwaukee Bucksnba

Dario Vismara è caporedattore della sezione basket de l'Ultimo Uomo. Laureato in linguaggi dei media con una tesi sulla costruzione mediatica della carriera di LeBron James, ha lavorato come redattore a Rivista Ufficiale NBA e nel 2016 è passato a Sky Sport curando la sezione NBA del sito. Ha tradotto "Eleven Rings. L'anima del successo" (Libreria dello Sport) ed è il curatore della "Guida NBA 2017-18" (Baldini & Castoldi).

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