
Gli anni Dieci hanno rappresentato forse una frattura definitiva nel modo in cui lo sport ha raccontato se stesso. Dal 2010 al 2019 sono stati molti i film, i documentari, i libri e le serie TV che sono riuscite a raccontare storie sportive con uno sguardo nuovo, che andasse oltre alla retorica convenzionale. Persino la pubblicità è sembrata andare oltre. Di seguito abbiamo cercato di concentrare il meglio del meglio tra le produzioni culturali di questi dieci anni: non è stato facile e sicuramente sarà rimasto qualcosa fuori, ma speriamo che troverete in questa lista qualche piccola gemma che magari in questi anni vi siete persi.
Moneyball, Bennett Miller (2011)
Pochi film possono vantare la stessa influenza che ha avuto Moneyball (L’arte di vincere il titolo italiano) sul discorso pubblico sullo sport, nel caso particolare nell’introdurre l’importanza delle statistiche avanzate a un pubblico che non fosse quello degli addetti ai lavori specializzati. Diretto da Bennett Miller e scritto magistralmente da Aaron Sorkin, Moneyball è tratto dall’omonimo libro di Michael Lewis del 2003 e prende a spunto la leggendaria stagione 2002 degli Oakland Athletics per parlare della rivoluzione della sabermetrica nel baseball. Un argomento che sembrava impossibile poter diventare materia da film prima di Moneyball, che invece ha segnato un vero e proprio spartiacque nel modo di raccontare lo sport spostando il fuoco della macchina presa dai giocatori agli allenatori e ai direttori sportivi. In questo senso, una buona parte del merito va anche alla grande interpretazione del general manager degli Oakland Billy Beane fatta da Brad Pitt, che riesce a dare uno spessore drammatico alla lotta del personaggio nel cambiare il mondo del baseball dall’interno e nel rimettere insieme i pezzi della sua famiglia.
The Sterling Affair, Ramona Shelburne (2019)
È difficile dire se il podcast è stato il medium del decennio appena passato o se sarà quello che ci apprestiamo a cominciare, ma di sicuro negli Stati Uniti hanno cominciato a sfruttarlo con grande convinzione, specialmente nel basket. Quello di Shelburne è un prodotto giornalistico di altissimo livello che, a cinque anni dalla sua teorica conclusione, va a sviscerare un momento per certi versi sottovalutato della storia NBA, quello della radiazione a vita del proprietario degli L.A. Clippers Donald Sterling per frasi razziste. Soprattutto, lo fa tratteggiando i contorni di una famiglia — quella degli Sterling — che può esistere solo in un contesto al mondo: quello di Los Angeles.
The Fighter, David O. Russell (2010)
Ispirato alla storia del pugile di origini irlandesi Micky Ward, campione dei pesi leggeri e autore all’inizio degli anni 2000 dei leggendari incontri contro Arturo Gatti, The Fighter non è solo un racconto sportivo ma anche l’affresco di una famiglia disfunzionale e di un rapporto tra fratelli difficile, preso a simbolo del tema del doppio. Grazie alle magistrali interpretazioni di Christian Bale e Mark Wahlberg, The Fighter racconta infatti come il rapporto tra Micky Ward e suo fratellastro Dicky Eklund (anch’egli ex pugile) abbia definito e poi rischiato di far deragliare la carriera del primo. Una storia di redenzione che pur rimanendo nei binari tipici del racconto sportivo riesce ad avere una sua autenticità unica.
Free Solo, Jimmy Chin, Elizabeth Chai Vasarhelyi (2018)
Qualsiasi cosa si pensi di Alex Honnold la sua scalata a mani nude e senza corde di protezione di El Capitan è parte della storia dell’arrampicata e probabilmente dell’umanità. Una di quelle imprese che spostano un po’ più in là le colonne d’Ercole che segnano il limite di quello che possono fare o meno gli esseri umani. Salire novecento metri di roccia come fossero quattro piani di scale (e ancora, almeno nei palazzi ci sono i corrimano)? Fatto. Free Solo ha vinto l’Oscar come miglior documentario anche per come prova a rispondere alle domande implicite a un’impresa del genere. chi è davvero Alex Honnold? Perché sceglie così deliberatamente di rischiare la propria vita? Noi ci abbiamo trovato qualcosa di problematico ma magari la vostra risposta a queste domande sarà diversa.
Diego Maradona, Asif Kapadia (2019)
Maradona è una di quelle figure con un’iconografia talmente ampia da essere stata ormai scarnificata dalla retorica e dai luoghi comuni. Raccontarlo come ha fatto quest’anno Asif Kapadia in Diego Maradona non era semplice, insomma, soprattutto perché il regista inglese cerca di andare al cuore dell’argomento che qui in Italia ci sta più a cuore e pensiamo di conoscere meglio, e cioè il suo rapporto morboso con la città di Napoli. Diego Maradona non è un documentario rivoluzionario, ma attraverso l’utilizzo di immagini di repertorio inedite riesce nell’impresa di ricostruire dettagliatamente come Maradona ha definito Napoli e come Napoli ha definito Maradona. Un incontro fondamentale e forse inevitabile per entrambi, come la storia tra due amanti.
Once Brothers, Michael Toljian (2010)
Once Brothers fa parte della serie di documentari 30 for 30 prodotti da ESPN, il cui claim è “too dramatic to not be real”. Racconta l'amicizia tra Vlade Divac e Drazen Petrovic, due dei migliori giocatori di basket europei di sempre, cresciuti insieme nella Nazionale Jugoslava e di come questa sia finita a causa di una bandiera portata in campo da un tifoso dopo la vittoria ai Mondiali di basket del 1990. Il documentario segue il viaggio di Divac a Zagabria, per recarsi sulla tomba di Petrovic, tragicamente scomparso nel 1993 e ha tutto quello che chiediamo ad un documentario. Ce una storia drammatica e poco raccontata, ci sono due personaggi incredibili e il loro conflitto, ma c’è anche una cornice più grande, la disgregazione della Jugoslavia e le cause sul paese della Guerra d'indipendenza croata.
Once Brothers agisce su più livelli: sportivo, storico, drammatico, emotivo. È uno dei documentari di sport più belli mai prodotti e anche se non conoscete il basket o la storia della Jugoslavia, il mio consiglio è di vederlo il prima possibile.
L’empire de la perfection, Julien Fareau (2018)
Il legame tra sport e cinema è piuttosto problematico. Lo sport si consuma nell’avvenimento in diretta e il cinema ha faticato a ricucire questa distanza emotiva. Narrativamente, poi, le storie di sport di successo finiscono per somigliarsi di tutte, ed è per questo che negli ultimi anni si stanno esplorando storie più laterali e oscure. C’è però un filone - a dire il vero poco popolato - di film che rinunciano alla restituzione narrativa dello sport per concentrarsi invece sulla sua dimensione estetica. Cercando di tradurre il lirismo della fisica sportiva nell’immagine cinematografica: l’emozione di un corpo che si muove nello spazio. Ci aveva provato Zidane: un ritratto del XXI secolo, un film che con 17 macchine da presa ha cercato di restituire la presenza di Zidane in campo nella sua ultima partita col Real Madrid.
Sullo stesso solco di inserire questo colpo di Julien Fareau, che ha scavato nell’archivio video di Gil De Kermadec, ex direttore della Federazione francese, per raccontare la presenza di uno dei tennisti più belli e magnetici della storia, John McEnroe. Gil De Kermadec era ossessionato dal tentativo - in un primo tempo didattico, poi direi filosofico - di restituire con accuratezza la bio-meccanica di John McEnroe. Fareau prova a continuare ad alimentare questa ossessione, e in più cerca di indagare l’abisso interiore in cui McEnroe (paragonato da Douglas Adams a Holden Caulfield) precipitava in una partita di tennis.
Il risultato è uno dei film sportivi più eleganti e profondi di sempre.
La pubblicità della Nike con Colin Kaepernick (2018)
La lotta di Colin Kaepernick per tornare a giocare in NFL va avanti da circa tre anni - tre anni in cui si è detto e scritto molto sul tema - quello del razzismo - che più ha definito il dibattito pubblico negli Stati Uniti e nell’Europa occidentale negli ultimi tempi. Per questo motivo è impossibile ignorare quanto fatto dalla Nike con il suo spot dedicato all’ex giocatore di football dei San Francisco 49ers, in occasione del 30esimo anniversario della celebre campagna pubblicitaria “Just do it”. È stata forse la prima volta in cui un’azienda di questa grandezza e influenza ha deciso di legittimare un dibattito politico di questa rilevanza mettendo in copertina un uomo di fatto fuori dal circuito sportivo professionistico. Una decisione epocale che prima di questa pubblicità sarebbe stata sconsigliata praticamente da chiunque e che ha cambiato per sempre il modo in cui le aziende dovrebbero approcciarsi a temi così spinosi.
Icarus, Bryan Fogel (2017)
Lo scandalo che ha coinvolto la Russia sul cosiddetto doping di Stato continua ad avere ripercussioni ancora oggi - solo pochi giorni fa la WADA (l’agenzia internazionale antidoping) ha deciso di squalificare Mosca dai principali eventi sportivi del prossimo anno (quindi soprattutto le Olimpiadi), con gli atleti russi che saranno costretti a gareggiare da neutrali. Se la deflagrazione è stata così potente è perché la miccia dell’esplosivo era composta anche da Icarus, documentario di Bryan Fogel presentato al Sundance Film Festival all’inizio del 2017 e distribuito da Netflix.
Icarus non è solo la ricostruzione dettagliata del minuzioso sistema messo in piedi dalla Russia per dopare i suoi atleti eludendo i controlli internazionali, ma anche il racconto drammatico della storia Grigory Rodchenkov, il direttore del laboratorio nazionale russo per l’antidoping e la principale fonte dietro l’intero documentario. Conosciuto quasi per caso da Fogel per dimostrare la fallibilità dei controlli antidoping nel ciclismo, Rodchenkov è il motivo principale per cui vedere Icarus - un personaggio con un’aura drammatica e un’ironia talmente peculiare da avvicinarsi più al mondo del cinema che a quello del documentario. A lui Fogel ha dedicato anche il discorso celebrativo in occasione della vittoria dell’Oscar come miglior documentario, a marzo del 2018: «Speriamo che Icarus possa essere un campanello d’allarme - sì, sulla Russia, ma soprattutto sull’importanza di dire la verità, ora più che mai».
Sunderland ‘til I Die (2018)
Sunderland ‘til I Die non è stata la prima serie TV a seguire una squadra per un’intera stagione, ma è stata di certo quella ad aver portato questo nuovo genere (se così possiamo chiamarlo) ad un livello artistico successivo. Ha influito sicuramente la fortuna di osservare da dentro il dramma di due retrocessioni consecutive, ma molto lo ha fatto anche il lavoro di sceneggiatori e registi, capaci di rendere i protagonisti del documentario immagine di un dramma più grande di quello semplicemente sportivo. Come ha scritto Marco Gaetani nel pezzo dedicato alla serie: “Sunderland ‘til I die non è un documentario sul calcio, o su una squadra di calcio. È un documentario sulla vita, sulle nostre vite. Su come vengano contaminate dal calcio, su come un semplice gioco riesca a trasformare il nostro umore in positivo o in negativo solamente per un pallone che supera una linea disegnata tra due pali, anche se ovviamente sappiamo tutti che i problemi della vita sono altri, e ben più grandi di una sconfitta al 90esimo. È un’illusione, per l’appunto”.
NBA Desktop, Jason Concepcion & The Ringer (2017)
Poche cose mettono in pace con il mondo come sentire ogni venerdì la voce stridula di Jason Concepcion che annuncia con “Welcome to NBA Desktop” che la settimana è finalmente finita e possiamo tuffarci insieme a lui in un’altra lisergica rassegna di ciò che è successo in NBA. Otto-dieci minuti frullati a velocità supersonica su un Google Doc dove i link ipertestuali si accavallano giusto il tempo per permettere a Jason di riderci sopra trascinando tutto il pubblico dietro le quinte, in una danza di finestre che si aprono e si chiudono trasformando l’NBA Twitter in una puntata di Adventure Time.
Basketball (and Other Things), Shea Serrano (2017)

Quando per l’uscita di Basketball and Other Things abbiamo intervistato Shea Serrano, lui rifiutò fermamente l’idea che avesse già creato uno stile forte e riconoscibile associabile alla sua figura. Invece alla chiusura del decennio appena passato possiamo serenamente affermare che Shea Serrano abbia imposto uno stile totalmente nuovo di raccontare la cultura pop, partendo dai primi pezzi su Grantland, alla residenza su The Ringer, per concludere con tre libri entrati tra i New York Times Best Seller.
Dream Team, Jack McCallum (2012)
Anche se non siete appassionati di pallacanestro, questo è un libro che dovreste avere sulle vostre librerie. Perché racconta una quantità assurda di retroscena della squadra di basket più famosa di tutti i tempi, il Dream Team di Barcellona 1992. A rendere ancora più piacevole il racconto aiuta la libertà data dai 20 anni ormai passati da quella indimenticabile Olimpiade (perché certe cose, se i protagonisti fossero ancora in attività, non si potrebbero scrivere). A ogni giocatore viene dato il giusto spazio perché ognuno è stato attore di un racconto irripetibile, la cui legacy è ancora oggi impareggiabile.
Being AP, Anthony Wonke (2015)
Se non volete guardare il film di Cristiano Ronaldo, prodotto da Cristiano Ronaldo, in cui comunque la vita di Cristiano Ronaldo sembra meno “patinata” e felice di come si direbbe guardando solo il suo Instagram, potete guardare questo documentario (dello stesso regista, Anthony Wonke) su un altro sportivo ossessivo, incredibilmente di successo, con una vita che comunque non vorreste vivere al posto suo. Sir Anthony Peter McCoy, detto AP, ha vinto 4358 corse nella sua vita, ed è stato per 20 anni consecutivi il Champion Jockey. Per vincere quasi 300 corse in un anno bisogna farne anche più di una al giorno, spostandosi in macchina sporchi di fango e mettendo in conto di rompendosi praticamente tutte le ossa del proprio corpo. Facendo impazzire la propria famiglia, ovviamente. Per la stampa inglese Being AP è un film sul recupero da una dipendenza (perché girato quando McCoy stava pensando al ritiro) ed è un film che mette chiaramente in questione il nostro (in quanto società) culto del successo. Per McCoy, ad esempio, una sconfitta era peggiore del dolore fisico.
L’alieno Mourinho e Il Barça, Sandro Modeo (2010 e 2011)
Il decennio della letteratura sportiva italiana era iniziato davvero con il botto, grazie a Sandro Modeo: prima con “L’alieno Mourinho”, che descrive la straordinaria evoluzione metodologica (soprattutto rispetto alla nostra tradizione calcistica) dell’allenatore portoghese - trovando connessioni con le neuroscienze, ad esempio; poi con “Il Barça”, opera di straordinaria tessitura culturale, in cui Modeo riesce a spiegare l’evoluzione calcistica (e di un’idea) con un approccio multidisciplinare che spazia dalla meccanica quantistica alla musica sinfonica. Le fasi offensiva e difensiva del Barça vengono spiegate con la fisica e la biologia: e si associano i batteri e il calcio totale, senza risultare mai pretenzioso. Curiosamente, il decennio si è concluso in tono minore per entrambi i protagonisti dei due libri, a ricordarci di quanto il calcio vada veloce: Mou è bloccato in una fase quasi caricaturale di se stesso, e il Barça sembra aver addirittura dimenticato il sentiero del gioco di posizione. Al contrario, le due opere hanno accresciuto la loro rilevanza: tanto che l’approccio usato da Modeo per spiegare il Barça è stato poi adottato anche da altri, come David Sumpter, che nel suo “La matematica del gol” (2017) paragona il gioco di posizione alle reti delle muffe.
Giorni selvaggi, William Finnegan (2015)

Larger than life è una definizione che si usa per personaggi straordinari. In questo caso, il personaggio straordinario è anche l’autore di “Giorni Selvaggi”, William Finnegan (reporter di guerra, scrittore, surfista), premio Pulitzer per la categoria memoir. Una categoria che non riesce a racchiuderlo davvero: questo libro è più grande di un’autobiografia, di un memoir, di un romanzo di avventura o di formazione. A volte è la storia di un’ossessione, quella per le onde, quella per il surf; a volte è la storia di una vita, anzi di molte vite. Le descrizioni delle onde sono delle magistrali opere nell’opera, capolavori di scrittura in cui si fa contemporaneamente analisi e letteratura, riuscendo a far digerire al lettore persino la terminologia tecnica: tanto per ribadire la grande bellezza della scrittura sportiva anglosassone.
Herr Pep, Martí Perarnau (2014)
A metà tra un racconto biografico e un trattato calcistico su una filosofia di gioco, Herr Pep dell’autore catalano Martí Perarnau affronta in ordine cronologico la prima esperienza di Guardiola al Bayern Monaco. Perarnau ha seguito per mesi da vicinissimo Guardiola con accesso praticamente totale a lui e alle persone che componevano il suo staff, così da poter raccogliere in prima persona i dietro le quinte dei momenti salienti della pianificazione estiva e di una stagione con tanti alti e la delusione della brutta sconfitta col Real Madrid. Si scoprono quindi non soltanto i metodi di lavoro del più influente allenatore della decade, ma anche le sue idiosincrasie, i suoi timori e il suo rapporto con giocatori con aneddoti ovviamente inediti.
Uscito ben prima del documentario di Amazon sul City All or nothing, Herr Pep riesce ad essere molto più approfondito dal punto di vista dell’aspetto tattico, come se la stagione di Guardiola fosse una scusa per affrontare il tema più grande del raccontare con precisione didascalica la filosofia del gioco di posizione attraverso le parole di Guardiola stesso, dei suoi assistenti e di chi ne sviluppato i concetti tattici e di allenamento. Idee che hanno segnato gli anni ’10 del calcio, e non solo.
Losers, Mickey Duzyj (2019)
Forse il prodotto sportivo più interessante con cui Netflix ha risposto ai documentari intimi ma anche un po’ di facciata di Amazon. Le storie raccontate sono tutte interessanti, alcune più conosciute (tipo quella di Surya Bonaly, pattinatrice francese, l’unica a fare un salto all’indietro alle Olimpiadi ma anche la sola atleta di colore in uno sport di bianchi) altre meno (tipo quella del maratoneta amatoriale siciliano Mauro Prosperi che si è perso nel deserto). La cosa bella di queste storie è che dimostrano come uno spaccato sullo sport e sul mondo in cui viviamo possa venire anche da storie che non finiscono con un successo planetario. Meno simboli e più persone in carne ossa. Grazie.