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Marco Gaetani
Sunderland ‘til I die ci ha spezzato il cuore
07 feb 2019
07 feb 2019
I migliori momenti della serie di Netflix sulla retrocessione del club inglese dalla Championship nella scorsa stagione.
(di)
Marco Gaetani
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«Ho letto chiaro nella natura umana come in uno specchio: la maggior parte dei nostri dolori ce li fabbrichiamo da noi»


(Giovanni Verga, Eros)


 

Trangugio serie tv in maniera più o meno consapevole dai tempi del ginnasio. Ricordo ancora delle telefonate fatte con un compagno di classe al termine di ogni doppia puntata di Scrubs, apparso su MTV nel marzo del 2003 e ancora presente in alcuni angoli remoti della mia mente sotto forma di citazioni assorbite e mai più abbandonate. Con il passare degli anni, l’approccio a una nuova serie è cambiato di continuo, di pari passo con la mia persona. È cambiata la fruizione, si sono moltiplicati gli argomenti, è diverso il modo con cui mi avvicino a un qualcosa che, se di mio gradimento, entrerà a far parte della mia vita per qualche mese, in alcuni casi anni. Posso davvero “perdere tempo”, fossero anche due episodi da 40 minuti, per una serie che non continuerò a vedere? Non posso.

 

Mi sono avvicinato a

- la serie di Netflix sulle ultime due stagioni del Sunderland, sulla falsariga di quanto già fatto con la Juventus e da Amazon con il Manchester City - con diffidenza. Conoscevo il finale della storia, l’incredibile fallimento di una squadra monitorata – almeno inizialmente – nel suo tentativo di ritorno in Premier League, culminato con una goffa e sorprendente retrocessione in League One.

 

Ciò che non conoscevo erano i motivi di questa discesa agli inferi. Con il leggero gusto sadico di chi rallenta davanti agli incidenti stradali, ho iniziato la visione per andare a scoprire i dettagli che non avevano funzionato, familiarizzare con i volti di chi, per dirla con Fossati, aveva sbagliato più forte. Non avevo fatto i conti con l’animo umano. Quel leggero gusto sadico si è trasformato in masochismo. In tutte le otto puntate prodotte da Fulwell 73 non c’è un attimo per rilassarsi, per pensare “forse andrà meglio”. Conoscendo già il finale, anche i momenti in cui la squadra sembra potercela fare vengono offuscati. Il fuoco dell’illusione è più fatuo che mai, non c’è cambio di allenatore o serie di risultati utili in grado di darci speranza.

 

Sappiamo come andrà a finire e i volti che si susseguono diventano amici da consolare, persone con cui dobbiamo giocoforza provare empatia, a meno di voler finire come quelli che augurano miseria, terrore e morte sui commenti di un qualsivoglia social network. Proverò a condensare questo viaggio di sofferenza in alcuni momenti particolarmente significativi. Non so se si possa parlare di spoiler per una storia che conoscono tutti, ma se volete rimanere all'oscuro dei dettagli non continuate oltre questo punto.

 



In breve, la situazione. Dopo dieci stagioni consecutive in Premier League, il Sunderland nella primavera del 2017 retrocede al termine di un campionato alquanto travagliato, agli ordini di David Moyes. I primi segni del disimpegno del patron, Ellis Short, si erano già percepiti in fase di mercato estivo e invernale: poco meno di 35 milioni di sterline spesi per dieci giocatori e 29 incassati, un passivo tutto sommato esiguo se si pensa alle spese pazze che caratterizzano la Premier. Con la retrocessione e il conseguente crollo dei ricavi, Short decide di chiudere definitivamente i cordoni della borsa.

 

Quella che ci viene presentata a inizio documentario è una squadra che deve andare avanti grazie all’autofinanziamento, e la cessione di Jordan Pickford all’Everton (30 milioni di sterline) permette di attutire il colpo. La spesa complessiva del mercato sarà di 1,25 milioni di sterline, cifre più da League One che da Championship, con un bilancio entrate-uscite nettamente in attivo. Ciononostante, troviamo un ambiente carico e uno spogliatoio convinto di poter lottare per la pronta risalita. Un breve elenco dei nomi lasciati andare in estate: Kirchhoff, Sebastian Larsson, Anichebe, il già citato Pickford, Defoe, Mannone e i prestiti di Borini, Lens, Djilobodj e Khazri.

 



I primi passi del documentario ci descrivono un gruppo proiettato a una stagione di vertice e una città, Sunderland, totalmente aggrappata al mondo del calcio per riscattare le delusioni sociali della vita in un Nord Est inglese sempre più all’insegna della disoccupazione. La prima guida che si incontra è uno dei tifosi che fanno da collante al racconto, il tassista Peter, abbonato dal 1992, un pendolo che oscilla costantemente tra ottimismo e disillusione.

 

Ho commesso l’errore di guardare parte della prima puntata con il doppiaggio italiano (rimediando più avanti ricominciando la visione). In un attimo di distrazione, ho perso la grafica con il nome dell’amministratore delegato del club, Martin Bain, e ho immaginato fosse un dirigente spagnolo, con il suo aspetto fisico che mi richiamava qualche eco di Pep Guardiola o di Andoni Zubizarreta. Bain, scelto al posto di Margaret Byrne nell’estate del 2016 dopo una lunga esperienza ai Rangers e un biennio positivo al Maccabi Tel Aviv, nelle prime fasi di

(che da ora in poi chiamerò STID per brevità) è estremamente convinto delle sue capacità, una consapevolezza che non di rado sfocia nell’arroganza. È conscio dei problemi economici del club ma sembra essere perfettamente padrone della situazione.

 


In effetti, ha fatto la differenza.


 

Il Sunderland si aggrappa a lui e alla sua nuova guida tecnica per tentare l’assalto alla Premier League. L’uomo scelto da Bain per la risalita è Simon Grayson, ex manager di Blackpool, Leeds, Huddersfield e Preston North End. Un tecnico che dovrebbe conoscere le insidie di un campionato interminabile e logorante come la Championship, una battaglia da 46 partite (coppe e playoff esclusi) che richiede un organico profondo e di grande qualità e quantità.

 


Grayson parla così alla vigilia dell’ultima amichevole precampionato, Sunderland-Celtic. Risultato finale: 0-5.


 

Non c’è dubbio che Grayson, subito alle spalle di Bain in questa virtuale classifica, sia la figura maggiormente presa a schiaffi dal racconto di STID, nonostante la timida fiducia iniziale dei tifosi. Qualche giorno dopo la sconfitta, le telecamere si insinuano in una delle riunioni con la squadra e la speranza di assistere a qualche segreto tecnico-tattico dura pochissimo: Grayson farfuglia ai giocatori indicando delle parole motivazionali su una lavagna. Spiega loro che i tifosi vogliono vedere passione, impegno, spirito di squadra. Sembra un estratto di un manuale di team building per principianti.

 

Non bastasse il tracollo in amichevole, Darron Gibson, uno degli elementi di spicco della squadra, si fa riprendere in un pub ubriaco marcio mentre attacca alcuni suoi compagni di squadra, rei di scarso impegno. Eppure la squadra inizia bene, raccogliendo cinque punti nelle prime tre di campionato, quattro dei quali in trasferta, la nuova coppia gol composta da Vaughan e Grabban pare funzionare, anche il giovane dell’Academy Honeyman si mette in mostra. Come diceva Franco Califano: "A vorte è lunedì e te sembra festa".

 



La squadra comincia a perdere, il calendario è serrato, non c’è tempo per rifiatare e la rosa è corta. Il Sunderland cade in casa con il Leeds e poi prende tre sberle in casa del Barsnley. È il 26 agosto e Lee Cattermole, uno dei veterani, lancia l’allarme. Mancano cinque giorni alla fine del mercato e invita apertamente Bain a correre ai ripari prima che sia troppo tardi.

 


«Non ne abbiamo abbastanza, siamo pochi per resistere. Spero che il club faccia la mossa giusta, ogni anno ci imbattiamo nello stesso problema». Cattermole usa una terminologia che fa quasi impressione: parla di «lack of bodies», mancanza di corpi, quando vuole indicare una rosa corta. Sa che sarà una stagione da passare in trincea.


 

Bain deve gettarsi sul mercato ma non ha fondi a disposizione. Raccatta quello che può: a parametro zero, nell’ultimo giorno della finestra trasferimenti, ingaggia il difensore Marc Wilson e l’ala Callum McManaman. Arriva anche Jonny Williams in prestito dal Crystal Palace.

 

Dopo la sparata di Gibson, abbiamo il secondo momento di rottura all’interno del club. Nei minuti conclusivi del mercato, il Sunderland ha la possibilità di stringere un accordo con l’Aston Villa per l’arrivo di Ross McCormack, una vecchia volpe delle aree di rigore della Championship, con all’attivo cinque stagioni con più di 17 gol realizzati. Un attaccante che Grayson conosce bene per averlo già allenato al Leeds. Il manager già pregusta il suo arrivo quando Bain capisce che non può chiudere l’affare per motivi economici. «L’errore peggiore da fare in questi casi è spendere un sacco di soldi per colmare le lacune, proprio come il club ha fatto per anni. Sono solo soluzioni temporanee, buttare soldi nel cesso non serve a nulla», afferma il dirigente con il suo fare calmo, quasi inconsapevole.

 


Mettendo in pausa al momento giusto, si può vedere l’attimo esatto in cui il cuore di Grayson si spezza.




L’estratto è preso da un’intervista di Grayson con ogni probabilità postuma rispetto al suo esonero. Un esonero che diventa estremamente immaginabile già a fine mercato: abbandonato dall’uomo che avrebbe dovuto mettergli a disposizione un organico per tornare in Premier, il tecnico sembra sconfitto. Le telecamere entrano nel suo studio al momento della deadline. Grayson indossa una maglia bianca e guarda il suo smartphone inebetito. Non crede a quello che è successo. «Se hai l’occasione di prendere uno come Ross, lo prendi e basta».

 



È soltanto con il terzo e il quarto episodio della serie che entriamo finalmente nelle viscere di una tifoseria lacerata. Tutto si apre con una sequenza di insulti più o meno comprensibili, con quella gestualità tutta inglese che a noi sembra buffa, ma sappiamo che a parti invertite siamo noi a sembrare dei pazzi totalmente privi di controllo sui nostri arti superiori.

 

La squadra continua a perdere nonostante gli acquisti, Grayson inizia addirittura a ruotare i portieri: fuori Steele, dentro Ruiter, un olandese simpatico ma che sembra totalmente inadatto al suo mestiere. Quando viene scelto per il match interno con il Nottingham Forest (0-1), pare risentito nei confronti del manager: «Non pensavo di giocare. Eravamo già arrivati in hotel quando mi è arrivato il messaggio da parte del preparatore dei portieri, è stata una sorpresa. Serve una buona preparazione prima di giocare una partita, saperlo così non è stato l’ideale per me». Contro l’Ipswich torna in porta Steele, altra sconfitta (5-2 il finale) e il portiere, a fine partita, appare davanti ai giornalisti sull’orlo delle lacrime.

 

La situazione è disperata e le telecamere si spostano all’interno del

, una specie di riunione tra alcuni sostenitori del club, seduti molto civilmente ai tavoli di un locale, e la coppia ormai sulla bocca di tutti: Grayson-Bain. Accompagnano l’evento anche Kevin Ball, una leggenda della società, e due giocatori, Browning e Watmore. Bain cerca di fare l’unica cosa che sembra riuscirgli: predicare calma. Il suo tono di voce è sempre pacato, rassicurante. Viene però incalzato dalle domande dei tifosi, impegnati a scoprire cosa non funziona. L’AD e il manager insistono sul tasto dell’impegno dei giocatori, i sostenitori dei "

" hanno da ridire anche su questo. Ma c’è un elefante nella stanza, e qualcuno finalmente sembra accorgersene. Arriva la fatidica domanda: «Grayson sarà il nostro allenatore fino alla fine della stagione?». Il sudore freddo sulla fronte del tecnico si percepisce anche dalla televisione.

 


La faccia di Grayson sembra quella di Oronzo Canà quando Borlotti gli comunica che dovrà perdere la sfida salvezza.


 

Si arriva alla partita con il Brentford, un crocevia fondamentale. Il Sunderland controlla saldamente il match all’intervallo ma si fa rimontare fino al 3-3, e torniamo alla sequenza iniziale dei tifosi fuori di testa. All’esterno dello stadio del Brentford c’è chi insulta Grayson e chi chiede la testa di Ellis Short, il vero protagonista occulto di una serie e di una stagione in cui l’immagine del Sunderland è quella di una società totalmente allo sbando. Apparirà soltanto una volta davanti alle telecamere, a retrocessione già acquisita.

 

Tutti si aspettano l’esonero ma Bain temporeggia ancora, alle porte c’è il Bolton, l’unica squadra messa peggio del Sunderland. Lewis Grabban, di gran lunga il miglior giocatore nella prima parte di stagione, ribalta il vantaggio iniziale degli ospiti, nato dalla solita papera di Ruiter. La fase difensiva dei "

" è tragicomica e il Bolton riesce addirittura a portarsi sul 2-3, mentre lo stadio chiede a gran voce l’esonero di Grayson. McNair trova il 3-3, il pubblico fischia, tutti nel tunnel a seguire Bain e Grayson. Il manager viene licenziato con un comunicato letto dal capo ufficio stampa ai giornalisti presenti nella pancia dello Stadium of Light, ennesimo capolavoro dell’assurdo. Più avanti, accompagnato dal suo solito caffè espresso, un vero

della sua giornata, Bain ci spiegherà che «il modo in cui è avvenuto l’esonero non è andato giù a qualche giocatore». Era difficile aspettarsi il contrario.

 

Ora è il momento dei tifosi. John Stirk, abbonato fedele, ci racconta dal retrobottega della sua macelleria, che licenzierebbe tutti i suoi dipendenti se lavorassero come giocano i calciatori del Sunderland. «Abbiamo cambiato otto allenatori in cinque anni», afferma con il tono grave di chi non ha mai avuto a che fare con Preziosi o Zamparini. Poco dopo siamo nella cucina del club, dove incontriamo uno dei migliori personaggi secondari della serie.

 


Joyce è una delle cuoche della squadra e nella serie beve spesso, soprattutto vodka. Se il Sunderland perde, beve. Se pareggia, beve. Se vince, beve. Solitamente, indica alla telecamera con le dita quanta vodka ha bevuto, probabilmente arrotondando per difetto.


 

Mentre Robbie Stockdale viene scelto come

, quello che noi chiameremmo traghettatore, in attesa del vero sostituto di Grayson, il Sunderland deve affrontare un delicatissimo derby con il Middlesbrough. La scelta degli autori del documentario è di introdurre con dovizia di particolari soltanto in questo momento la famiglia che mi ha fatto definitivamente uscire dalla visione passiva della serie per portarmi in un universo di totale empatia.

 

Andrew Cammiss ha la faccia di un uomo perbene, ha chiamato il suo primogenito Niall in onore a Niall Quinn, il suo giocatore preferito del Sunderland di fine anni ’90, e vive in una casa piccola ma ordinata. Sul braccio ha un tatuaggio di Quinn e Kevin Philips che esultano, spiega che è un progetto che dovrà essere ultimato con il ritratto di Kevin Ball, sopra spunta la sagoma di Peter Reid. Il modo totalmente umorale con cui Andrew osserva le partite del Sunderland, cercando di aggrapparsi a ogni attimo di speranza per poi sprofondare quando tutto si fa difficile, non può non colpire l’osservatore. Come insegna Nick Hornby: «Per il tifoso vero, il calcio come divertimento esiste nella stessa maniera in cui, in mezzo alla giungla, esistono alberi che cadono: presumiamo che succeda, ma non siamo in grado di poterlo apprezzare».

 

Da tifoso laziale relativamente giovane, non ho vissuto l’epoca in cui la mia squadra lottava per non retrocedere in Serie C, anche se durante la stagione dei -9 mia madre deve aver trasmesso buona parte di quell’ansia via cordone ombelicale. Non ho mai sentito sulla pelle la paura provata da Andrew, eppure l’ho accompagnato metaforicamente in tutto il suo tragitto verso gli inferi. Quando vede i suoi perdere il derby con il Middlesbrough, oppure durante una partita rocambolesca con il Bristol, con il Sunderland sotto 3-0 all’intervallo prima del pazzesco 3-3 finale. Una gara che Andrew non può vedere per ragioni di diritti TV e che ascolta via radio, appollaiato sul divano, con lo sguardo triste e una tazza del club in mano. È difficile rendere a parole la mestizia che trasuda nei minuti dell’intervallo, con i suoi in balia delle intemperie. Andrew si alza per preparare un tè in capsule che, se possibile, trasmette ancora più tristezza del momento del Sunderland. Eppure, nonostante tutto, ha una fiammella di speranza: «Tornerò a sedermi e ascolterò la partita. È la Championship, tutto può succedere».

 

E per qualche strana ragione i "

" piazzano una rimonta insensata. Al fianco di Andrew c’è il figlio piccolo: speranzoso, preoccupato, felice. Sono padre da otto mesi e una manciata di giorni, e alla dimensione empatica nei confronti dell’Andrew tifoso ho aggiunto quella dell’Andrew genitore. Per certi versi, mi preoccupa l’influenza che il calcio ha nelle nostre vite. Vorrei che mia figlia non soffrisse più del necessario, lasciarla distante da quei tormenti che il tifo riesce a generare. So che non sarà facile, crescendo con due genitori che per vivere scrivono di calcio e di altri sport. Spero che prenda altre strade e che non debba trovarsi a scegliere per quale squadra tifare, forse perché in cuor mio so che il rischio di perdere il derby in famiglia con mia moglie è elevatissimo.

 


Padre e figlio sul divano, il tè nella tazza rossa, la radiolina anni ’80, un acquario sullo sfondo. Piccolo figlio di Andrew, spero che il mondo ti sorrida.


 



L’ultima partita del breve interregno di Stockdale è Sunderland-Millwall, un 2-2 che proietta i "

" nella storia:

a non vincere in casa per venti partite consecutive. I quattro gol arrivano tutti su colossali errori dei portieri, come se una gigantesca calamita li attirasse all’interno della porta. Sembra la parodia di una partita di calcio.

 



 



Ricordo ancora le uniche due stagioni da tifoso vissute con l’incubo di una possibile retrocessione. In entrambi i casi, Lotito scelse di cambiare tecnico in corsa per salvare la pelle. Ho ancora vivo il momento dell’ufficialità dell’esonero di Mimmo Caso nel 2004-05, i giorni di terrore all’idea che potesse arrivare un allenatore ormai in disarmo come Maifredi, il sospiro di sollievo alla firma di Papadopulo (non Rinus Michels, insomma). Oppure il senso di liberazione per l’esonero di Ballardini cinque anni più tardi, con l’arrivo di Reja.

 

Il Sunderland, in una mossa di completa rottura, per uscire dalle sabbie mobili non vira su un mestierante della categoria, ma porta allo Stadium of Light un allenatore di alto livello: l’eredità di Grayson viene raccolta da Chris Coleman, ex commissario tecnico del Galles, che aveva ritenuto esaurito il suo ciclo in seguito al mancato raggiungimento dei playoff per la qualificazione a Russia 2018, dopo aver portato i suoi alle semifinali a Euro 2016. Una scelta che, a livello concettuale, avrebbe avuto molto senso se presa in estate – ovviamente con un allenatore diverso da Coleman, in quel momento ancora vincolato al Galles – ma che si fatica a comprendere per un club con l’acqua alla gola e praticamente impossibilitato a fare mercato a gennaio. L'impreparazione del club è ancora più evidente quando la serie cerca di sottolineare la preparazione tattica di Coleman con una serie di scene surreali in cui si vedono i muri della sede del club riempirsi di lavagne tattiche, rafforzando ulteriormente il dubbio che prima la tattica non venisse nemmeno preparata.

 

Con il nuovo tecnico c’è comunque una piccola scossa: il successo in casa del Burton Albion, i pareggi con Wolverhampton e Birmingham, la vittoria di misura sul Fulham, arrivata grazie a un gol di Josh Maja, giovane e promettente attaccante lanciato in prima squadra da Coleman. I tifosi attendono gennaio con ansia per il mercato, ma la bomba è dietro l’angolo, e a poco serve il successo in casa del Forest il 30 dicembre. Lewis Grabban, autore di dodici gol, chiede l’interruzione del prestito al Bournemouth per essere piazzato in un club che punta alla promozione. Si intuisce – e ce lo confermerà più avanti Aiden McGeady, ala del Sunderland, unico accusatore di Coleman nell’arco del racconto – che a spingere Grabban verso l’addio sia stata un’incomprensione con Coleman, colpevole di averlo sostituito in un paio di occasioni. In aggiunta, Bain pensa che possa essere una bella idea vendere al Wigan l’altro attaccante titolare, James Vaughan, senz’altro deludente nella prima parte di stagione ma pur sempre giocatore di categoria. Coleman deve provare a galleggiare per qualche settimana senza attaccanti “senior” e non può nemmeno contare su Jonny Williams, uno dei suoi protetti, centrocampista talentuoso ma terribilmente incline agli infortuni.

 

Uno degli aspetti più intimi esplorati da STID riguarda proprio Williams, trasferitosi da solo a Sunderland. Emerge la figura di un ragazzo insicuro, con diversi demoni interiori per i tanti infortuni patiti in carriera. «Forse è perché vivo da solo, ho tanto tempo per riflettere. Non ho nessuno con cui parlare. Penso che mi prenderò un cane, così mi terrà compagnia». Anche Coleman, che gli vuole bene per averlo allenato in nazionale, teme che Williams sia depresso.

 


Williams accetta di prendere parte a una serie di incontri con lo psicologo del club. Racconta di non sentirsi all’altezza, di avere paura di non essere in grado di calciare in porta, passare un pallone.


 

Bain invece non ha problemi di autostima. È lanciato anima e corpo in un mercato diviso in due: da una parte il tentativo di portare a Sunderland giocatori in prestito, dall’altra abbattere il monte ingaggi. Dopo aver fallito l’assalto a Chris Martin, riesce a chiudere tre affari nell’ultimo giorno di mercato: Ejaria dal Liverpool, Ashley Fletcher dal Middlesbrough, Lee Camp dal Cardiff. Durante la sessione di gennaio emerge un'altra figura secondaria importantissima, cioè la segretaria del club, che durante le ultime frenetiche ore di mercato controlla su Google Maps se i giocatori acquistati riusciranno a fare in tempo ad arrivare a Sunderland per firmare il contratto, apparendo come l'unica persona in controllo della situazione.

 

Tutto, in quelle turbolente ore, è però concentrato su uno dei bersagli preferiti della tifoseria del Sunderland: Jack Rodwell. Ex prodigio del vivaio dell’Everton, nazionale inglese a vent’anni, pagato 12 milioni di sterline nel 2012 dal Manchester City e acquistato dal Sunderland due anni più tardi. Rodwell percepisce uno stipendio da giocatore di buon livello della Premier League – 70.000 sterline a settimana – e detiene uno dei record più assurdi del massimo campionato inglese: dal 2013 al 2017 ha mantenuto una striscia di trentanove presenze da titolare senza riuscire a vedere la sua squadra vincitrice a fine partita, stracciando il primato di Darren Moore, Miller e Hutton, fermi a ventinove. A differenza di tanti altri ex giocatori del Sunderland, Rodwell non ha mai voluto sentire parlare di cessione, prestito o rescissione, nonostante interviste in cui si dichiarava pronto a lottare per un posto da titolare, lì o altrove. Vuole le sue maledette 70.000 sterline a settimana per i diciotto mesi di contratto che gli rimangono, marcire in panchina a soli 26 anni non gli pesa.

 

Bain però è certo di ottenere la rescissione, ha appena fatto siglare il contratto a Fletcher quando riceve una telefonata. Nel momento in cui l’AD lascia la stanza urlando “

”, mi accorgo che sto imprecando insieme a lui. Mi ritrovo dalla stessa parte di un personaggio che non mi è simpatico, insultando il giocatore di una squadra per cui non tifo. Se lo scopo degli autori era questo, almeno con me hanno fatto centro.





Il Sunderland è in un tunnel apparentemente senza uscita. Non vince più, anzi, perde sistematicamente, eppure a undici giornate dalla fine i punti da recuperare sulla zona salvezza sono solamente cinque. Arrivano altre tre sconfitte, compresa quella contro l’Aston Villa dell’ex Grabban che segna, esulta e se la ride, ma la musica non cambia, fino all’ultimo sussulto, l’ennesimo momento in cui si pensa che possa essere veramente la volta giusta. Spero che qualcuno sia riuscito a guardare questo viaggio all’inferno senza conoscere la destinazione finale, perché al termine di un Derby County-Sunderland 1-4 imprevisto e impronosticabile, la salvezza pare veramente possibile. Si sblocca Fletcher, la squadra gira, i tifosi sono al settimo cielo.

 


Coleman si concede un momento Malesani sotto il settore ospiti, nel delirio generale a fine partita un tifoso festeggia brandendo una protesi. Spero fosse la sua.


 

Anche stavolta è un’illusione. Il focus dell’attenzione si sposta nuovamente su Darron Gibson, a lungo ai box durante la stagione. C’è di mezzo nuovamente la sua tendenza a ubriacarsi in maniera molesta: si mette alla guida totalmente sbronzo, viene arrestato e rilasciato su cauzione per aver distrutto la sua automobile e diverse auto parcheggiate in Dovedale Road nella notte di San Patrizio: piccolo stratagemma degli autori, visto che l’incidente precede la partita con il Derby e non è successivo.

 

Bain straccia il contratto di Gibson, a cui viene ritirata la patente per i 40 mesi successivi. Il 21 aprile, a tre giornate dalla fine, i "

" ospitano il Burton Albion e sono in vantaggio – e a -3 dalla salvezza – fino a 6’ minuti dal 90esimo. È un ex come Darren Bent, che negli anni di gloria del Sunderland realizzò 32 gol in 58 partite di Premier League, a trovare l’1-1, prima della rete in pieno recupero di Boyce che condanna definitivamente il Sunderland alla seconda retrocessione nel giro di undici mesi. I tifosi piangono, cantano con le lacrime agli occhi, insultano l’arbitro che ha annullato la rete del 2-2 in una mischia furibonda nella quale si era gettato anche il portiere Steele, che a fine gennaio sembrava dovesse partire in prestito e invece è rimasto.

 



 

Coleman ha un durissimo confronto a fine gara con un tifoso che lo apostrofa con insulti pesanti, eppure è una delle poche voci contrarie all’ex CT del Galles. Nell’arco di tutto il racconto, la figura di Coleman viene sempre trattata con grande rispetto, e sembra sincero quando si dice pronto a rimanere al Sunderland anche in League One. È sempre sorridente, stringe le mani ai tifosi anche in occasione della premiazione per il giocatore dell’anno, è un personaggio positivo. Non sarà però possibile avere la controprova, perché nel giro di 24 ore, a ridosso dell’ultima di campionato, cambia tutto.

 

Short ripiana i debiti, silura Coleman e vende il club a un consorzio capitanato da Stewart Donald, ex presidente dell’Eastleigh. È un cambio di proprietà che deve non solo riportare in alto il Sunderland, ma anche dare stabilità a tutti quei dipendenti della società che lavorano dietro le quinte, per cui non è solo questione di cuore o di tifo, ma di vita. C’è chi ha un mutuo sulle spalle, i figli da mantenere, un’esistenza da portare avanti. La cuoca Joyce è una di queste, eppure ha il tempo per commuoversi quando riceve un SMS da Coleman che la saluta e la ringrazia per tutto quello che ha fatto per lui. «Ciao, cara. Mi rattrista solo che mi mancherete moltissimo. Siete persone fantastiche e vi adoro. Non so come ringraziarti per esserti presa cura di me. Mi sono sentito parte della famiglia. Per me e Kit (Symons, il vice di Coleman) ha significato molto. Non è andata come previsto ma abbiamo incontrato persone fantastiche. Una splendida società e delle splendide persone, è stato un piacere. Ci vediamo presto, su col morale e grazie».

 



 

È grazie al calcio, o per sua colpa, se vediamo uomini di una certa età con le lacrime a rigare il volto che si abbracciano dopo aver vissuto la seconda retrocessione in un anno, cantando

di Elvis. Sunderland ‘til I die non è un documentario sul calcio, o su una squadra di calcio. È un documentario sulla vita, sulle nostre vite. Su come vengano contaminate dal calcio, su come un semplice gioco riesca a trasformare il nostro umore in positivo o in negativo solamente per un pallone che supera una linea disegnata tra due pali, anche se ovviamente sappiamo tutti che i problemi della vita sono altri, e ben più grandi di una sconfitta al 90esimo. È un'illusione, per l'appunto.

 



L'ex AD Martin Bain ha rescisso consensualmente in estate e attualmente è disoccupato. Forse sta sperando che ci sia qualche presidente in giro per il mondo che non abbia Netflix.

 

L'allenatore della prima parte di stagione, Simon Grayson, è riuscito a trovare una squadra qualche mese dopo l’esonero, accettando l’offerta del Bradford City, in League One, che però non lo ha rinnovato alla fine della stagione. Come Bain, al momento è disoccupato.

 

Chris Coleman ha cambiato continente: adesso è l’allenatore dell’Hebei China Fortune, l’ex squadra di Gervinho, dove militano Mascherano e Lavezzi.

 

Il nuovo manager del Sunderland è Jack Ross, ex tecnico del St. Mirren. Ha deciso di dare la fascia di capitano a George Honeyman, il ragazzo cresciuto nell’Academy che vediamo scalare le gerarchie della squadra durante la serie. «Quando ho messo per la prima volta la fascia di capitano al braccio contro l'Hartlepool, in amichevole, ho sentito il petto che prendeva fuoco». In estate, per dimenticare la retrocessione, Honeyman è partito zaino in spalla per un viaggio di tre settimane in Sudamerica, vagando tra ostelli e locali poco raccomandabili. «Tutto quello che volevo era viaggiare in autobus, saltare da un tavolo all’altro ascoltando storie, conoscere gente nuova, diversa».

 

Jonny Williams gioca in League One, al Charlton.

 

Josh Maja, il ragazzino lanciato da Coleman, è uno dei nomi più caldi del mercato inglese. Avrebbe detto no al rinnovo con il Sunderland, ed è andato al Bordeaux dopo aver segnato 14 gol in League One.

 

Jack Rodwell, ex prodigio del calcio inglese, infine ha rescisso con il Sunderland, in estate. Gioca, per modo di dire, nel Blackburn: 596 minuti fin qui in Championship. Secondo

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