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Innamorati di Lo Celso
26 lug 2016
26 lug 2016
Abbiamo aggiunto ai nostri giocatori Preferiti il nuovo centrocampista del Psg.
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12 min
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La nostra rubrica Preferiti è realizzata grazie alla collaborazione con Wyscout, il database calcistico che ci permette di visionare giocatori di tutti i livelli, di tutte le età e di tutto il mondo.

«Nella nostra accademia selezioniamo solo giocatori che rispondono a cinque criteri: devono essere abili, avere capacità tecniche superiori alla media, essere intelligenti, poi stabili psicologicamente e infine avere temperamento».

Il ritratto del calciatore-in-divenire secondo Diego Griffa muove i passi dall’utopia di una specie di perfezione che è raro, ma non impossibile, scovare in un adolescente: forse non è un caso che l’ultima scintillante sede dell’Académia Jorge Bernardo Griffa abbia sede in una Club House chiamata Tierra de Sueños, a mezz’ora di macchina dal centro di Rosario.

Jorge Bernardo Griffa, oggi, è ultraottantenne: per più di un trentennio ha girato in lungo e in largo l’Argentina con un ipotetico obiettivo nel quale inquadrare milioni di giovani calciatori. Quando ha deciso di scattare, raramente il suo fiuto l’ha tradito. Nella sua galleria fotografica compaiono Néstor Sensini, Gerardo Martino, Mauricio Pochettino, Gabriel Heinze e Gabriel Omar Batistuta. Tutti calciatori che hanno forgiato le loro carriere con indosso i colori rossoneri del Newell’s Old Boys, una delle due anime calcistiche rosarine, quella alla quale Griffa, senza fare mistero, è più affezionato.

Nel 2008 un osservatore della sua Académia assiste a un torneo giovanile di futsal a San José del Rincón, una cittadina sul corso del Paranà: rimane impressionato dalle evoluzioni di un ragazzino di dodici anni che gioca per il Club de Regatas de Rosario. Così impressionato che chiede a Jorge Bernardo in persona di raggiungerlo per visionarlo.

Quel ragazzino si chiama Giovani Lo Celso, e risponde a prima vista a tre dei cinque criteri d’arruolamento dell’Accademia, quelli più facilmente comprovabili con gli strumenti che mette a disposizione l’intuito e l’esperienza: ha una tecnica di base elegante, ed è rapido nei movimenti anche per via del baricentro basso. Inoltre mette in campo tutto il temperamento che solo i rosarini sanno imprimere a ogni occupazione cui si dedicano.

Si ahí empezaba todo amigo ! #SeguimosSoñando #21

Una foto pubblicata da Giova Lo Celso (@giovalocelso) in data: 26 Feb 2016 alle ore 12:42 PST

Il Club de Regatas, dove inizia la storia di Giovani Lo Celso, domina il corso del fiume: non è raro, nei primissimi filmati che immortalano i movimenti in campo del Monito, «la scimmietta», come è soprannominato, scorgere il muro malmostoso e fanghiglioso del Paranà sullo sfondo.

Sul cartello all’ingresso del suo centro sportivo, oggi, il Club de Regatas si autodefinisce Cuna de Deportistas Olimpicos, «culla di atleti olimpionici»: di quella schiera farà parte a breve anche Giovani, che indosserà per la prima volta in maniera ufficiale la camiseta albiceleste proprio nei prossimi giochi di Rio.

Gli ultimi due requisiti che Griffa cerca nei calciatori, l’intelligenza e la stabilità emotiva, Giovani ha dimostrato di averli non lasciandosi sfuggire l’opportunità di coltivare il suo talento prima; scegliendo di passare alle giovanili del Rosario Central anziché a quelle del Newell’s Old Boys, dopo.

Dieci a tempo determinato

Giovani è nato e cresciuto nel barrio Sarmiento, a una manciata di isolati dal Gigante de Arroyito, e ha sempre tifato Central, quella che definisce una linda enfermedad, una «bella malattia». Ha fatto la mascotte e il raccattapalle: nel 2003 compare in una foto della squadra, abbracciato a Mariano Messera; quel giorno c’era anche il loncho Ferrari, che poco più di dieci anni più tardi sarebbe diventato suo compagno di squadra.

Dopo il passaggio all’Académia Griffa ha scalato tutte le categorie delle giovanili Canalla, fino a vincere il campionato nazionale Reservas nel 2014.

Segnando gol tipo questo.

A partire dal gennaio prossimo sarà un giocatore del PSG. Fino ad allora rimarrà a Rosario, indossando la Dieci Canalla, come dire, a tempo determinato: un destino toccato anche a Franco Cervi, cioè colui che nella storia di Lo Celso ricorre come doppelgänger e nemesi allo stesso tempo, che dopo esser stato acquistato dal Benfica è stato parcheggiato per un semestre al club che l’ha cresciuto.

È strana e affascinante la maniera in cui Lo Celso è riuscito a imprimere una curva così arcuata alla sua parabola in poco più di un anno, che tradotto in tempo calcistico fa una stagione e mezza, quattordici partite giocate da professionista, una media di settanta minuti a partita.

Il suo percorso di crescita, se da una parte ricalca quello di Cervi, dall’altra appare come velocizzato, condotto alle massime conseguenze: per certi versi è stata proprio l’incontrollabilità dell’esplosione di Chuky a favorire un’elevazione quasi inerziale di Lo Celso a next big thing. Ma sarebbe ingeneroso dire che il Monito abbia solo colmato una lacuna (o percorso un sentiero già battuto e quindi semplificato), perché non spiegherebbe il valore - intrinseco ed estrinseco - che Giovani ricopre non solo per il presente degli auriazul, ma anche per il futuro dell’Argentina.

Sarebbe ingeneroso specie perché vale anche l’affermazione contraria: l’hype intorno a Cervi, forse, ha addirittura finito per frenare l’ascesa - meno dirompente perché più cerebrale, in un modo che dovrò spiegare - di Lo Celso.

Con un crack ! #Pretemporada #Bautismo Una foto pubblicata da Giova Lo Celso (@giovalocelso) in data: 5 Lug 2014 alle ore 08:13 PDT

Nel 2014, durante una delle prime convocazioni con la prima squadra, quando gli è toccato patire il rituale del Bautismo che in soldoni consiste in un certo qual modo in una tosatura spirituale e purificatrice.

Pablo Álvarez, ex laterale basso del Catania che è stato in squadra con entrambi, li ha definiti «puri e senza limiti», come tutti i giovani che con maleducazione e il fuoco dentro si dannano per distillare la schiuma dei giorni. Anche se alla fine della fiera i riflettori sono sempre stati puntati più su Cervi, che dei è due quello più vicino all’immagine di Dieci che galleggia nell’immaginario collettivo. Il risultato, nella parentesi di coabitazione dei due, è stato che Lo Celso è stato spesso relegato al ruolo di esterno sinistro nel 4-2-3-1 di Coudet, e solo raramente (e sempre in sostituzione di Cervi) da enganche alle spalle di Ruben e Larrondo, ruolo che invece gli è più congeniale per caratteristiche e visione di gioco.

Dopotutto non sembra cavarsela poi così male, da esterno. Anche se…

Lo Celso non sembra appartenere a quella generazione di Dieci argentini che, sull’orma di Messi, per forza o per piacere hanno abbandonato la zona centrale del campo, tra le linee avversarie, per dirottare il loro raggio d’azione sulla fascia, dove possono sfruttare la capacità di saltare l’uomo e accentrarsi per creare superiorità (una perifericizzazione del gioco che paradossalmente ha finito per avere un effetto centripeto): lui è ancora, in una maniera forse vintage o forse solo coerente con il suo intendimento del gioco, un dieci-enganche per il quale la presenza centrale sembra avere un’importanza vitale.

In un elzeviro che gli ha dedicato Ecos del Balón, casomai solo un po’ troppo influenzato dalla retorica poetica nei cui canoni siamo portati a incanalare i Dieci, specie quelli argentini, viene messa in risalto la componente erotica del suo calcio: quel che Lo Celso saprebbe far meglio è sedurre.

Che in un certo senso è vero, ma nella sfumatura tutta rioplatense del concetto di seduzione, che è sensuale e pericolosa a un tempo. Lo Celso riconduce il discorso sul suo stare in campo - quando «fronteggia la sfida cercando il bacio incandescente dell’ultimo passaggio» - a quella dimensione primitiva, nel fútbol, sospesa tra eros e pugnalate.

Lo Celso, per certi aspetti, nella semplicità e nell’eleganza del suo codice espressivo, è un tango.

È un tango perché è improvvisazione («Il tecnico ti dà indicazioni, ma poi uno alla fine è sempre solo con sé dentro il campo, e a me viene bene improvvisare»), genio, estro; ma anche, e non in maniera meno fondamentale, rispetto della tradizione, sentimento, partecipazione (provate a montare Mi noche triste di Anibal Troilo sotto a questo sfogo-dichiarazione d’amore per i colori Canalla subito dopo la sconfitta - immeritata - in finale di Copa Argentina contro il Boca).

Il Chacho Coudet, una delle migliori personificazioni di questo tipo di sincretismi spirituali, ne ha fatto un punto di forza del suo sorprendente Central 2015, facendolo esordire poco più di un anno fa contro il Vélez (una data che Giovani ha poi deciso di portare sempre con sé).

Anche se Giovani ha avuto, in definitiva, poche occasioni per mettersi davvero in mostra, ciò non gli ha impedito di catturare le attenzioni europee: una dinamica che ricorda da vicino quella con cui Ángel Di Maria è arrivato al Benfica (per quanto avesse giocato almeno il doppio delle partite, e nel mezzo ci fosse stato un Mondiale U20 disputato da protagonista).

Con un amigo.. Que crack sos Angel

Una foto pubblicata da Giovani Lo Celso (@locelso) in data: 22 Mar 2016 alle ore 16:52 PDT

Il Fideo è l’idolo riconosciuto di Lo Celso: cresciuti a cinque chilometri di distanza (tale è la distanza tra Sarmiento e il barrio Cerámica y Cuyo in cui si trova calle Perdriél), il giorno in cui Lo Celso è stato convocato per una partita di Copa Argentina contro il River Plate Di Maria lo ha chiamato al telefono. «Dài, non puoi essere tu», è stata la prima reazione di Giovani, che ha poi raccontato come gli siano cominciate a tremare le mani quando lo ha riconosciuto.

Ma la differenza tra idolo e modello è la stessa che passa tra ammirazione ed emulazione: «Di Di Maria mi piace la maniera in cui spezza l’equilibrio, la rapidità, come vince i testa a testa. Ma guardo più volentieri Iniesta, mi piace il suo essere uomo-assist, il suo giocare con la testa alta».

Come Iniesta, a Lo Celso piace destreggiarsi alle spalle delle punte, dove può avere più libertà di creare ma anche - sorprendentemente, per un dieci argentino - di esercitare un gioco più associativo.

La fuorviante tentazione dei paragoni

Tra le similitudini teorizzate per cercare di spiegare Lo Celso, quelle più assurde in cui mi sono imbattuto sono due.

Andrés D’Alessandro, per esempio, lo ha avvicinato a sé stesso (immagino per quel tipo di sensazione di scivolamento dell’ego che deve attanagliarti a fine carriera, quando il piercing sul labbro è diventato l’aspetto più accattivante del tuo personaggio e cominci a temere di essere dimenticato).

Almirón invece lo ha definito il Giovinco d’Argentina, un paragone che trovo molto fuorviante per almeno due motivi: il primo, perché nella corsa di Lo Celso non c’è quel turbinio-di-gamba-molto-Warner-Bros che è caratteristico della Formica Atomica; il secondo, perché Lo Celso non è una seconda punta, e raramente attacca la profondità.

Neanche il paragone con Pastore mi convince, perché Lo Celso è molto meno decisivo - e forse creativo - nell’ultimo gesto.

Per quanto nella maniera in cui addomestica il pallone e disegna questo bel filtrante per Correa ci sia quel non-so-che del Flaco.

La decisività dei passaggi (e la visione del gioco) di Lo Celso si esaltano quando parte da ancora più lontano dalla trequarti, quasi sul cerchio di centrocampo: quando gioca, direbbero in Argentina, más de cinco.

Nell’ultima Primera ha collezionato 8 assist. In ognuna delle assistenze per gli attaccanti (che inevitabilmente, in tempi recenti, equivale a dire per Marco Ruben) c’è uno sprazzo della sua essenza più profonda, anche nelle sue nuances meno appariscenti.

Perché oltre l’educazione del piede sinistro,

(ci sarebbe anche questo, che è un assist fornito alla sua seconda presenza in prima squadra)

c’è anche l’insospettabile prestanza fisica che gli permette di vincere il contrasto contro il terzino del Racing prima di crossare

e una visione superiore che gli consente di innescare, nella fattispecie con il piede a compasso, la corsa di un compagno che sopraggiunge dalle sue spalle

Ovviamente ogni gesto tecnico sublime di Lo Celso passa per il suo piede sinistro: il che non significa che non sappia calciare anche con il piede meno educato (spesso si trova a crossare di trivela anche con li destro, disorientando il suo marcatore), ma solo che nel sinistro ha qualcosa che somiglia da vicino alle fiamme.

Non è un caso che il suo primo gol - già un golazo - sia arrivato con un bel tiro al volo a incrociare con il piede preferito,

così come la giocata più esaltante del suo trascorso al Central finora sia un prodotto della gamba legata al cuore.

Studiare per migliorarsi

Intervistato dopo la terza partita che giocava con i professionisti, ha dichiarato: «Sì, sono uno di quelli che si studiano i video. Mi sono rivisto il secondo tempo delle gare contro Quilmes, Vélez e Sarmiento perché è lì che sono entrato, e devo vedere cosa ho fatto bene e cosa no. Soprattutto per correggere cose, per fare autocritica». Se c’è qualcosa che Lo Celso non può rimproverarsi, quella di certo è la dedizione con cui partecipa anche alle azioni difensive della squadra, contravvenendo alla fallacia classica secondo la quale la fase di interdizione e ripartenza (fondamentale nel gioco di Coudet) non debba appartenergli. Nell’ultimo Clásico contro il Newell’s, per esempio, è stato il giocatore con più recuperi palla.

E qua, nascosta in una parte di video meno sensazionalistica, ci sono tre azioni consecutive in cui recupera palla e subito cerca la verticalizzazione.

Lo Celso non si fa scrupoli ad abbassarsi quando il gioco lo richiede: scende, se c’è da impostare, fino al cerchio di centrocampo, e lì si prende carico delle responsabilità che competono a un vero enganche, vale a dire quelle di principiare l’azione, organizzare i movimenti dei compagni, sollecitarli con passaggi ripetuti e poi cambiare gioco con lanci lunghi (fondamentale che sfodera con brillantezza).

Un esempio della veemenza in fase di recupero e della sua predisposizione all’associatività.

Più che a Di Maria, D’Alessandro, Pastore o Giovinco, Lo Celso - stesso passo languido, stessa naturalezza nei movimenti, stessa fluidità di gioco che non risulta mai compassato - potrebbe davvero essere, come lo ha definito Horacio Pagani, il Riquelme del Ventunesimo Secolo.

Al ritiro di Buenos Aires, dove la tribolataSelección Olimpica si è allenata prima di partire per una tournée negli States precedente alle Olimpiadi di Rio, Lo Celso è arrivato con una macchina a noleggio. Al DT Olarticoechea ha confessato «fammi giocare dove vuoi, sono disposto a scendere in campo anche da quattro (che nel gergo del fútbol argentino significa da terzino, NdA)».

Pochi giorni più tardi, a Boca Ratón, ha fatto il suo esordio in Albiceleste in un’amichevole contro la Colombia (scendendo in campo peraltro con i parastinchi coi colori del Rosario Central e del Club Regatas).

El Vasco lo ha schierato nel terzetto di trequartisti (insieme a Lanzini e Ángel Correa) con il compito di supportare Jony Calleri.

Ma Lo Celso non è quel tipo di Dieci, e dopo un avvio stentato, largo sulla fascia, con intelligenza si è andato a cercare uno spazio esattamente a metà strada tra i due pivote e le mezzepunte.

Da vero e proprio enganche, vertice basso di un triangolo di trequarti incastonato tra le linee avversarie.

Chissà che a Parigi, cercando il nuovo Di Maria, non si siano imbattuti in una specie di Verratti del futuro.

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